Le altre volte che era passato così tanto tempo fra un post e l’altro, era passato perché la mia voglia di vivere era ridotta alla mera sopravvivenza, questa volta, invece, è passato un mese talmente positivamente denso che forse mi servirebbe un altro mese per raccontarlo. Ho scritto l’ultimo post seduta in un prato mentre guardavo Elio giocare perché era l’unico momento in cui avevo sia il tempo che l’energia per pensare ad altro, dopo quel post sono spariti anche quel tempo e quella energia. E anche ora che sto scrivendo, ho il tempo ma sento che il mio corpo ancora non si è ripreso da un mese vissuto ad alta intensità. Sono successe talmente tante cose che ho dovuto aprire la galleria fotografica del mio cellulare per ricordarmele.

C’è stata la Fête de la musique, la festa della musica, che da queste parti è molto sentita con concerti da tutte le parti, nei locali, nelle strade. Io l’ho trascorsa all’Istituto di cultura irlandese dove suonava una mia cugina col suo gruppo. Davanti a un pubblico attento e partecipe (ma mi dicono essere caratteristica del pubblico non italiano) è stato come tornare in atmosfere musicali che definirei quasi insite nella mia carne visto che, da quando sono nata, la musica irlandese dei Whisky Trail di mia nonna fa parte della mia famiglia. Sono tornata a casa a piedi, un’ora di passeggiata al crepuscolo tardivo del nord, dal Pantheon fino ai pressi del Canal Saint Martin, costeggiando bar con musica dal vivo e persone che ballavano dentro e fuori; trovando un vero e proprio tappo festoso nella Rue du Temple davanti ad un locale a chiara frequenza gay; arrivando a casa e sentendomi in una cassa di risonanza tra la banda di percussionisti, la band e il dj, tutti in tre luoghi diversi ma in un raggio di non più di cento metri dalle mie finestre. Ne ero particolarmente contenta? No. Potevo farci qualcosa? Nemmeno. Cosa ho fatto? Ho aperto il programma di Dolcevita-sur-Seine in attesa di validazione e mi sono messa a cercare refusi fino a mezzanotte e ho aspettato che la festa finisse.
C’è stato il dolore che risento quando ascolto la mia voce cantare le canzoni registrate questo inverno; il dolore che ritorna quando vedo le foto di me o fatte da me durante mesi di cui non ho quasi ricordo, ma rivedere quelle immagini mi fa sentire esattamente come allora per un attimo, solo che sembra fare più male perché adesso ho iniziato a togliere l’ovatta dalle emozioni e sono in grado sempre di più di cogliere la reale entità di quel che è successo. C’è però che il lutto va attraversato e io mi sento di aver già camminato un bel pezzo di questo percorso e a volte, quando provo a guardarmi da fuori, mi sembra impossibile che dietro la mia serenità, la leggerezza con cui mi pongo verso il mondo esterno, ci sia un’esperienza umana affascinante ma durissima che non tengo a rivivere.

C’è stata la marche des fiertés, il gay Pride insomma, a cui non ero sicura di voler andare perché era il 24 di giugno e, non solo quando arriva il 24 di ogni mese è più facile per me tornare a Saint-Denis, con Morgane esanime per terra e io in una sorta di ovatta dissociata, ma anche perché ero sicura che, fosse stata ancora viva, lei sarebbe stata lì e andare alla marcia per me significava sicuramente fare i conti con la sua morte. Invece sono andata, con un’amica e una sua amica, pentendomi della mia scelta di andare tanto ero stanca quando sono uscita di casa, ma poi contenta perché, tra le varie cose, l’amica della mia amica era carina e, anche se è stato un pensiero senza seguito, ho pensato che dentro di me ci fosse ancora vita ed è stato rassicurante saperlo. Per questioni ecologiste non c’erano carri e non c’era musica, solo tanti colori e gli infiniti modi di essere indossati da ogni persona presente alla sfilata. Arrivate alla fine del corteo c’era un concerto di musica techno non particolarmente interessante e, non avendo voglia di rientrare da sola ed essendo a due passi da casa, ho invitato le mie due compagne di Pride a casa. Che può sembrare un evento minore ma è una cosa che capita di rado ed è bene annotarla. La serata sarebbe proseguita più a lungo se non fossi stata invitata al compleanno di Elio e mi fa sempre piacere essere presente alle sue cose al di là del mio ruolo di nounou. Il suo lungo abbraccio prima di salutarci è stato l’occasione di un timore pidocchi sopraggiunto qualche giorno dopo ma, poco male, ne è valsa la pena.
C’è stato il matrimonio di mia sorella e le molto scarse ore di sonno che hanno caratterizzato le mie quattro notti italiane (nonché quella che le aveva precedute), con io che mi metto a pensare alle playlist del trasporto casa-cerimonia-casa in metropolitana alle 6.30 del mattino e finisco di mettere in pagina il testo della canzone che ho scritto per l’occasione mentre sorvolo le Alpi. C’è stato anche lo struggimento di vedere la Toscana dall’alto in fase di atterraggio nonostante sia ben felice di vivere altrove.
C’è stato il matrimonio di mia sorella e una festa di cui tutti avevamo bisogno. Allegra, leggera, spensierata, senza sosta, perfetta direi. E c’è stato anche il giorno dopo la festa che ha rappresentato un po’ quel che mi manca di casa, ossia quelle giornate che iniziano con una colazione informale alle 10.30 e finiscono dodici ore dopo e solo perché l’indomani la sveglia suona che ancora è notte. Nel mezzo chiacchiere in tre lingue diverse, amiche ritrovate dopo anni, nomi a cui finalmente dare un volto e una incredibile gioia di essere lì.
C’è stato tornare a Parigi e trovarmi a tre giorni dall’inizio del festival, con la tranquillità dell’inconsapevolezza delle prime volte e un colloquio da preparare quasi dall’oggi al domani.

C’è stato il festival, le ulteriori scarse ore di sonno, gli imprevisti, l’improvvisazione, la capacità di incassare le cose dette male per stanchezza, fare cose per me improbabili (tipo essere molto rapida, sporzionare teglie di parmigiana, essere l’incaricata dell’uso di un forno professionale, dover dire ai nostri volontari cosa fare con sicurezza quando io per prima stavo improvvisando), il riuscire a fare bene quel che ci si aspettava da me, il fare quel che sapevo fare e insegnarmi a fare quel che non sapevo fare perché non c’era alternativa, i numeri di telefono dati e presi, la scoperta di essere molto più espansiva di quanto non pensassi, sempre col sorriso e spesso con la sensazione che, nonostante tutto, sapessi cosa stavo facendo. Il tutto un po’ grazie a me ma soprattutto grazie a una squadra di lavoro che mi e ci ha dato ogni grammo di fiducia possibile ed è stata in grado di convincermi e convincerci che fosse semplice fare anche cose complesse. Perché organizzare un festival nel pieno centro di Parigi, con invitati e interlocutori importanti non è una cosa semplice. Mi porto dietro la super squadra con cui ho lavorato per gli ultimi due mesi, le persone esterne con cui ho collaborato, i nostri e le nostre invitati e invitate a cui in alcuni casi ho voluto bene come fossero amiche mie anche se per alcune i contatti sono stati solo telefonici o via mail, mi porto dietro l’umanità e la voglia di fare qualcosa di bello, di gioioso, una festa. Qualcosa che ho contribuito a creare anche io e che, come capita in queste occasioni, non ho praticamente visto perché ero sempre a fare qualcos’altro. Ma chi c’era assicura che è stato un successo.
C’è stato che da quando sono rientrata a casa mercoledì notte verso le 3, in un Noctilien che aveva l’odore di cucina di molti dei suoi passeggeri e a piedi in una città in cui in giro c’erano quasi esclusivamente uomini, mi sento un po’ vuota e non riesco neanche a descrivere come. C’è stato che fino a qualche tempo fa mi avrebbe fatto paura questo rientro, adesso che l’alternativa è il taxi, so che anche questo fa parte della vita in una grande città.
C’è che da quando i miei ultimi invitati sono stati regolarmente depositati in aeroporto non farei altro che dormire, un sonno profondo, inevitabile, di quelli che non mi capitavano da non so quando, forse l’ultima volta che sono stata realmente rilassata ma chissà quando è stato.
C’è stato che in questi giorni ho rifatto la spesa dopo almeno tre settimane e mi sono sentita totalmente sperduta, per settimane avevo cucinato giusto un paio di volte e col poco che avevo in casa dall’ultima spesa.
C’è stato che tra dodici giorni sarà un anno che sono a Parigi e il tempo mi sembra volato. A volte mi sembra anche incredibile che sia successo tutto quel che è successo e che io sia ancora qui, nonostante tutto, e con la voglia di restare.