Da una decina di giorni sotto il cielo di Parigi pare essere arrivato l’autunno. Le temperature massime sono di poco superiori ai 20 gradi, ci sono piogge sparse e, per non tirare fuori la trapunta che avevo appena lavato, le ultime notti mi son ritrovata a dormire con calzini e maniche lunghe. Sto aspettando che in cucina il pavimento sia asciutto per andare a farmi una doccia e attendere l’ora di muovermi verso l’aeroporto per quello che sembra diventato un mio appuntamento mensile ultimamente: un rientro in Italia, questa volta però un po’ più lungo degli ultimi durati pochi giorni.

Le due settimane post festival sono state meno attive di quanto avrei voluto. Mi ero detta che avrei approfittato dell’abbonamento fino all’ultimo centesimo e, per quanto lo abbia usato quasi quotidianamente, solo due volte sono uscita dalla zona uno di Parigi.

Sono stata alla Forêt de Carnelle, un bosco nel nord della regione perché avevo voglia di stare nella natura per un trekking di breve durata, un po’ per la stanchezza che ancora mi portavo dietro da Dolcevita-sur-Seine, un po’ perché sentivo il peso di essere in territorio a me sconosciuto e volevo prendere confidenza piano piano con le camminate in questa parte di mondo. Alla fine di questa decina di chilometri posso dire che, per quanto mi piaccia Parigi, è stato rassicurante sapere di avere dei percorsi da fare a portata di trasporti regionali. Che il Bois de Vincennes mi piace tanto ma mantiene un po’ una dimensione di passeggiata quasi urbana e anche molto affollata, senza l’idea del viaggio.

Ieri invece sono andata a Noisiel, periferia triste (a detta di un’amica che la conosce meglio di me) dell’area metropolitana parigina. Con l’amica in questione siamo andate prima al mercato a comprare pani e galette arabe, circondate da un’umanità totalmente differente da quella della Parigi intra-muros, poi abbiamo passeggiato tra il grande parco cittadino e i bordi della Marne, un lungo affluente della Senna costeggiato da un sentiero in mezzo a rigogliosa vegetazione. Lungo la Marne c’è anche quel che resta (invero molto) della vecchia fabbrica di cioccolato Menier, una delle più grandi al mondo a cavallo di Ottocento e Novecento, finita poi per essere acquistata dal gruppo Nestlé che fino a tre anni fa aveva ancora là la sua sede sociale. Adesso su tutta l’area è in corso una riprogettazione per aprire i luoghi al pubblico con la creazione di una città del gusto.

Sono stata anche al Jeu de Paume a vedere una mostra del fotografo Frank Horvat con una collega e ho passeggiato per le strade di Parigi con un’amica di passaggio in città che, arrivata dalla torrida Firenze, credeva di vivere in un sogno. Sono rientrata a casa alle due di notte dopo un babysitteraggio serale di Elio e, per quanto arrabbiata perché era saltata una corsa, ho realizzato che quando penso alle cose che devo fare a Firenze, le persone da vedere, sono sempre in difficoltà sul fronte dei trasporti, mi sento persa senza Bonjour Ratp, la bibbia locale che suggerisce i percorsi. Qua so che in qualche modo a casa ci arrivo coi mezzi pubblici.

Quel babysitteraggio serale di Elio è stato anche l’ultimo, avrei dovuto rivederlo la settimana dopo ma all’ultimo è andato dalla nonna e non ci siamo salutati. Il messaggio in cui la mamma me lo ha comunicato e la mia risposta hanno segnato la conclusione di un ciclo e conseguente piantino. Senza di loro forse avrei trovato altre soluzioni ma è innegabile che abbia avuto in Elio e la sua famiglia un punto di riferimento quest’anno e spesso sono stati loro a tenermi ancorata alla normalità quando intorno a me di normale non c’era niente.

La fine di questa fase della mia vita parigina non è stato l’unico momento di tribolazione, ce n’è stato un altro decisamente più duro per quanto poi di relativamente breve durata. Un paio di mesi fa avevo colto l’occasione del suo compleanno per rifarmi viva con una delle amiche di Morgane. Non ci vedevamo da prima di Natale e, dopo un breve augurio per il nuovo anno, non avevamo più avuto alcun tipo di contatto. Il distacco non era legato a inimicizia o disinteresse, è stato un allontanamento fisiologico, per entrambe uno dei modi di affrontare quella morte assurda è stato di spingere via tutto ciò che riguardasse Morgane. Sette mesi dopo quell’ultimo incontro però, ci siamo viste per una bevuta. Abbiamo girato intorno all’argomento a lungo, poi al terzo bicchiere ci siamo arrivate ed è stato di una dolente bellezza perché per poco è stato come riportare in vita Morgane. Ma, un po’ come Orfeo, questa vita è durata poco ed è stata sopraffatta dalla tristezza. Mentre C. mi raccontava che aveva affittato la casa non ho potuto fare a meno di tornare lì e rivedere nitidamente tutto ciò che era successo in quelle mura tra il 23 e il 24 ottobre e ci sono stati momenti in cui ho voluto che smettessimo di ricordare perché è tornata a mancarmi una persona che, dopotutto, neanche avevo davvero conosciuto ma le cui descrizioni non facevano altro che confermarmi che sarebbe stato un incontro proficuo, quale ne fosse la natura. Ho avuto l’impressione che, per quanti strati di tempo e di cose ci abbia accatastato sopra, la morte di Morgane è ancora lì, col suo rumore sordo di qualcosa che il cervello fatica a comprendre, come se non fosse possibile, queste cose non succedono per davvero, è tutta una messinscena e Morgane uscirà dalle foto e tornerà a fare battute, ad attaccare discorso con sconosciute sedute sole al bar, ad avere un punto di vista inedito sulle persone e sulle cose.

Ero pronta alle conseguenze di questo incontro ma un po’ mi ha sorpreso come per le 24 ore successive mi sia sentita nuovamente come durante l’ultimo inverno, ad immaginare futuri impossibili, cosa sarebbe successo se fosse uscita dal bagno? Cosa ci saremmo dette? Cosa avremmo fatto? Ci sarebbe stato un dopo o ci saremmo fatte una risata e saremmo diventate due buone amiche? Domande senza risposte perché sono arrivata alla fine della storia, the end, senza neanche la possibilità di un finale aperto.

Raccontata così la serata con C. ha un sapore molto più malinconico di quanto realmente sia stata, C. è una persona divertente col gusto dello scherzo, che mi pare dia il giusto peso alle cose ed è consapevole del fatto che la vita va avanti. Il finale di serata poi ha aggiunto quel tocco vagamente surreale per lasciare la malinconia al giorno dopo. L’ho salutata sulle scale della metro ma appena dopo una dipendente della Ratp le deve aver fatto notare che era tardi e che non c’erano più treni. C. aveva il telefono scarico, io avevo il mio nello zaino e con la suoneria troppo bassa perché potessi sentire la telefonata fatta con l’ultimo briciolo di batteria. Quando ho visto ero già per le scale di casa e il suo telefono definitivamente spento. Lo stesso sono andata alla stazione a cui l’avevo lasciata per vedere se fosse ancora lì ma ho trovato solo la stessa dipendente che a me ha detto che aveva indirizzato una signora che voleva andare a Jaurès alla fermata del bus. C. era lì, a farsi caricare il telefono al baracchino che faceva crêpes e panini in fondo alla rue de Belleville. Siamo rimaste un altro po’ a ridere e chiacchierare, sempre più schiacciate sulla vetrina coperta da una tenda per proteggerci il più possibile dalla forte pioggia che si era abbattuta sulla città. Quando il telefono ha raggiunto una carica sufficiente lei ha chiamato un Uber, quando è arrivato e ci siamo salutate, stavamo comunque ridendo. Sono tante le domande che avrei voluto farle e che invece sono state sostituite da qualcos’altro. Domande che non sarebbe neanche tanto assurdo fare ma che rimarranno ancora senza risposta.

In queste settimane mi è finalmente arrivato il mio numero di partita iva (la procedura si era bloccata perché mancava un documento ma, a quanto pare, la burocrazia francese non ti dice perché una procedura è bloccata, aspetta che sia tu ad accorgertene e a chiederlo) e attendo con trepidazione la famosa sécurité sociale, di fatto quel numero che sancisce il mio definitivo passaggio al sistema sanitario e burocratico francese nonché la possibilità di accedere agli aiuti locali, tipo i contributi all’affitto quando finalmente spero di avere un contratto regolare. Al mio rientro mi attiverò seriamente per aprire un conto in banca e intanto attendo di sapere se il consolato accetta la mia richiesta di iscrizione all’Aire.

La Francia non è perfetta. Il sistema scolastico, visto con gli occhi di chi ha conosciuto quello italiano, è un luogo in cui non esiste la gratificazione ma solo la denigrazione, in cui il massimo dei voti si dà solo ai geni, non a chi ha fatto un compito perfetto, in cui il sentimento prevalente negli studenti è la frustrazione. La Francia è il paese in cui hanno fatto la rivoluzione ma i re li avevano creati loro e la società è ancora fortemente elitista. Parigi è una città in cui, quando compri casa, gli amici ti chiedono se prima ti sei informata sulla qualità delle scuole a cui potrà accedere tuo figlio e poco male se quel figlio è appena nato. Parigi è la città in cui gli italiani, se devono prendere uno/a stagista, pescano tra i conterranei perché lavorano meglio, sono meno sperduti e più attivi. Ma su questo mi chiedo se non giochi un ruolo anche il fatto di trovarsi in terra straniera che inevitabilmente pone le persone di fronte ad una serie di difficoltà da superare che i locali non hanno.

La Francia non è perfetta e Parigi non è la Francia. Il senso di libertà che si respira nella Parigi intra-muros non è lo stesso delle sue banlieues o dei villaggi nel mezzo di un nulla estremamente vasto. Neanche Parigi è perfetta, rimane una città in cui è palpabile la differenza tra chi ha soldi e chi invece si arrabatta, ci sono alcune zone che è meglio evitare la sera perché il crack si è mangiato l’umanità dei suoi utilizzatori, può capitare di essere spinti sui binari della metro senza nessun apparente motivo se non la follia di chi ha spinto. Ieri sera ho visto un film ambientato nelle sue banlieues, Les Misérables (non è un’adattamento del romanzo di Victor Hugo), e mi sono sentita così lontana da tutto ciò, anche un po’ colpevolmente. Lontana e impotente. Il mio senso di libertà, come quello di molte delle persone italiane che ho incontrato, deriva dall’anonimato che dà la grande città. Sarà che a livelli diversi ho incontrato molte figlie di e nipoti di, io stessa nel mio piccolo sono sempre stata qualcosa di qualcuno, ma l’arrivo qui è per molti una ricerca di anonimato che in realtà nasconde forse la costruzione della propria individualità indipendente.

A Parigi sembra ottobre e mi sembra assurdo pensare che tra poco sarò al mare: è fine luglio e non ricordo neanche quando sia cominciata l’estate. Un anno fa, il 27 luglio, posavo le mie due valigie a Parigi. Era una mattinata limpida, di quelle estati calde come devono essere le estati. Decollata all’alba in una sorta di trance credo perché, ripensandoci a un anno di distanza, mi sembra folle il modo in cui sono partita: senza un lavoro, senza una casa in cui potermi stabilire, senza realmente sapere a cosa stessi andando incontro. Di fatto avevo solo l’istinto che mi diceva di partire. Questi dodici mesi parigini si sono rivelati forse i più duri che abbia mai vissuto ma da qualche settimana mi trovo a pensare alle varie cose che vorrei fare qui, a Parigi, in Francia. I dintorni da scoprire, il mio zaino da trekking buono da portare perché vorrei che mi servisse per delle gite, i fine settimana sul mare bretone o normanno, tutto in me è sempre più proiettato su attività che abbiano in Parigi il loro punto di partenza.

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