Ho iniziato a scrivere questo post una settimana fa ma senza troppa convinzione, prova ne è il fatto che quel poco che avevo scritto lo avevo pure cancellato, lasciando solo la bozza col titolo nella sezione “bozze” del blog. Eppure, una volta pubblicato l’ultimo, mi ero fatta una lunga lista di cose di cui avrei potuto scrivere anche dall’Italia. In Italia, però, ho fatto vacanza nel vero senso del termine, staccando completamente da Parigi, e il rientro in Francia due settimane fa è stato particolarmente scombussolante.
Sono arrivata un martedì mattina soleggiato cominciato troppo presto, con una sveglia alle 5 del mattino per permettermi di attraversare il nord della Sardegna e arrivare ad Olbia in tempo per prendere il volo diretto per Parigi. Mentre l’aereo completava le ultime virate prima di allinearsi con la pista di atterraggio ho realizzato che l’ultima volta che avevo visto l’aeroporto di Orly senza nuvole era il giorno del mio primo arrivo a luglio dello scorso anno.
Aspettando i mezzi per tornare in città ho chiarito le idee a confusi turisti italiani appena arrivati come una esperta del luogo ma, una volta salita sul tram prima e sulla metropolitana poi, mi sono sentita totalmente sperduta. Dopo tre settimane in una tranquilla e silenziosa lottizzazione vacanziera sarda, non ero più abituata a tutte quelle persone così diverse, così a volte probabilmente anche abbattute dalla vita. Sono arrivata a casa e da un lato mi sentivo come se non fossi mai partita e avessi già cancellato la Sardegna, dall’altro come se fosse la mia prima volta a Parigi e dovessi imparare tutto di nuovo. Mi guardavo intorno e non sopportavo niente, la sporcizia, gli scaracchi per terra (che però mi schifano anche in mezzo alla felicità), la confusione, il francese, i francesi, i supermercati brutti e costosi, il dover far la spesa in tre posti diversi per trovare tutto quello che mi serve, le confezioni pensate per famiglie e non per single, lo scaldabagno che perde, il pavimento della cucina sempre sporco, avere solo due placche per cucinare, gli spazi angusti, il caldo senza il mare, tutto. A completare il quadro, poi, c’era tutta la preoccupazione derivante dai nuovi inizi per gli affetti dalla sindrome dell’impostore come me: due giorni dopo il mio rientro avrei cominciato un nuovo lavoro e non ero più abituata all’idea di un nuovo lavoro da imparare, full-time e a lungo termine dopo un anno e mezzo decisamente poco inquadrato sugli orari. E non che Dolcevita-sur-Seine non avesse comportato una discreta quantità di cose da imparare in fretta ma lì le responsabilità erano diverse, una cosa era proporre soluzioni di viaggio agli invitati di un festival che dura una settimana, un’altra è partecipare al buon funzionamento di una residenza universitaria con le sue cinquanta stanze occupate tutto l’anno.
Vengo quindi al mio nuovo ruolo: segretaria e responsabile dei progetti culturali alla Maison de l’Italie, la residenza legata all’Italia alla Cité Universitaire di Parigi. Ho nel cuore la mia collega a cui faccio continuamente domande ma dopo i primi giorni in cui mi sono sentita decisamente sperduta, inizio piano piano a capire dove sono e cosa devo fare. C’è da dire che intorno a me sento molta pazienza e fiducia e dopo i primi giorni di spaesamento, la mattina esco di casa con piacere. Ok, una volta superato lo shock della sveglia alle 7.
Così ogni giorno poco dopo le 8 esco di casa, prendo la metropolitana, se sono in testa al treno e me ne ricordo, quando alzo la testa tra Stalingrad e La Chapelle, vedo la chiesa del Sacro Cuore stagliarsi sulla collina di Montmartre. Io scendo a La Chapelle e inizio a combattere con gli odori del tunnel di collegamento fra la stazione della metro e Gare du Nord dove prendo la RER, la linea dei treni che collegano periferie lontane passando per il centro di Parigi. A quell’ora, però, è soprattutto una questione di odori, miseria e sigarette di contrabbando. Al ritorno, invece, laddove finisce il territorio della stazione dei treni e inizia quello della metropolitana, non è infrequente vedere un notevole dispiegamento di forze della sicurezza dei trasporti, della gendarmerie e a volte anche dell’esercito. Il tutto intorno alle 18, non di più.
Per quanto la direttrice sia italiana, la mia collega e il resto del personale sono francesi, pertanto la lingua del lavoro è quella locale. I residenti sono a idioma variabile: gli italiani, soprattutto i neo arrivati, mi guardano con sollievo quando capiscono che sono italiana e che spiegherò loro il funzionamento della Maison in italiano. Per il resto si fa in francese e in inglese cercando di combattere la frustrazione per cui ci sono tutta una serie di parole che talvolta fatico a trovare in lingue che non siano il francese e per cui se vedo una parola scritta in francese, automaticamente e senza accorgermene sarà quella la lingua in cui parlerò.
L’ormai predominanza del francese nella mia vita fa sì che quando torno a casa e ripasso mentalmente le cose da fare lo faccio in francese ma anche che anche quando scrivo in italiano non è raro che la punteggiatura mi sfugga in francese, con lo spazio prima di ogni segno di interpunzione doppio e temo il momento in cui inizierò a parlare quella lingua ibrida in cui si usano in italiano parole che in francese hanno tutt’altro significato. Ad esempio dire normalmente pensando al significato di normalment che in francese significa di solito. O come pensando di dire siccome, in francese comme.
Ciò a cui non mi sono ancora abituata ed è fonte di veri e propri errori di sistema, è la tastiera del computer di lavoro che è azerty, con molte lettere altrove, punteggiatura e caratteri speciali spostati ma, soprattutto, la priorità data a quest’ultimi anziché ai numeri. Quel che però sta lentamente accadendo è che quando torno a casa la sera e mi capita di mettermi al mio computer qwerty, inizialmente pigio tasti che non danno i risultati pensati. A livello culturale invece sto sempre più padroneggiando l’incipit di ogni incontro o telefonata o scambio di messaggi con i francesi:
– Bonjour, ça va?
– Ça va et toi?
– Ça va.
E solo allora poter iniziare la conversazione.
Avere un lavoro con uno stipendio fisso a fine mese è ovviamente fonte della non indifferente serenità per cui una birra post lavoro con un amico non crea indicibili ansie. Se poi si scopre che, entrambi fiorentini e coetanei, abbiamo visto una quantità considerevole di concerti insieme senza conoscerci, come non celebrare con una seconda birra?
Avere un lavoro con uno stipendio fisso a fine mese rende più facile anche l’apertura di un conto in banca nonché, contestualmente, poter fare un abbonamento ai trasporti annuale con domiciliazione sul conto e l’abbonamento per il servizio di bike sharing. Non avere paura ogni mese di superare il plafond di spese che posso fare all’estero e, sembra una sciocchezza ma non lo è, risparmiare sulle commissioni bancarie perché i bonifici, se li fai dall’home banking, sono gratuiti. Decidere che il conto italiano rimane per pagare la macchina ma tutti i miei nuovi guadagni li voglio qui, in un conto che parte da zero.
Insomma, dopo il rientro un po’ traumatico, mi sento di nuovo serena nella mia vita parigina. Ho rivisto Elio e famiglia e dopo un intero pomeriggio passato da loro ho faticato ad andare via; ho rivisto una collega di Dolcevita e anche da lì sono andata via perché mi stavo addormentato dopo una settimana di lavoro e avevo 40 minuti di trasporti davanti a me. Ho passato un pomeriggio a casa di C., l’amica di Morgane che avevo visto prima di tornare in Italia. Se allora il nostro incontro mi aveva scombussolato un po’ (comprensibile, non ci vedevamo da sette mesi ed era stato inevitabile riprendere in mano il motivo per cui ci conoscevamo), ieri ci siamo viste con più leggerezza. Era a casa con un’amica sua e di Morgane e il rottweiler di Morgane che non vedevo dal giorno in cui era morta. Quando sono arrivata Nobelle mi ha fatto delle grandissime feste, mi ha leccata copiosamente e, quando mi sono seduta sul divano, non mi si è messa accanto nello spazio preparato per lei, si è proprio seduta su di me. Dato il mio rapporto non esattamente appassionato coi cani è stato un po’ surreale ma è stato anche buffo e un po’ commovente pensare che si ricordasse di me. Oltre ad avermi dato voglia di rivederla.
Quindi il pomeriggio è andato bene e con C. siamo rimaste d’accordo che sabato prossimo, se non ho cose più importanti da fare tipo recuperare il mio bancomat in agenzia, la raggiungo alla casa di Morgane che lei ha ereditato e che sta cercando di affittare a lungo termine. Gliel’ho proposto io di raggiungerla, come fosse un modo per me di affrontare il luogo del trauma, rivederlo e smettere di chiedermi come sarà se dovessi mai ritrovarmi in quelle stanze, smettere di immaginarle. Allo stesso modo vedere C. perché ci piace la nostra reciproca compagnia e non perché abbiamo domande in sospeso o un dolore da condividere. Far vivere luoghi e persone in un presente e futuro da costruire e non in un passato tumultuoso.
Nel frattempo ho fissato un appuntamento dal parrucchiere perché ormai che son qui è faticoso tenersi la parrucchiera di fiducia in Italia (soprattutto se è andata in pensione) e sbuffo se la persona davanti a me cammina troppo lentamente come una parigina qualsiasi.
Quando però sono andata a fare il mio primo aperitivo post lavoro con la persona che sto sostituendo, siamo andate nella eno-osteria di una sua amica toscana. Al primo sorso dell’ottimo Syrah della Val di Cornia che mi è stato consigliato me lo sono chiesto chi me lo avesse fatto fare di lasciare la Toscana. Penso sia una domanda che molti italiani si pongono quando vanno a fare la spesa ma una risposta che ho sentito dare spesso dagli italiani espatriati è che quando arrivano iniziano a sentire profumo di civiltà. Soprattutto, quel che li tiene la qua è il senso di libertà.