L’estate sta decisamente finendo, i pantalonicini del pigiama hanno lasciato lo spazio a un pantalone leggero ma lungo e, soprattutto, l’assenza di persiane è irrilevante perché quando suona la mia sveglia fuori è ancora buio. Per quanto in ritardo rispetto all’Italia, inoltre, anche la sera arriva prima di qualche settimana fa e me ne sono accorta la scorsa settimana quando andando a cena da Elio e famiglia sono uscita di casa e il crepuscolo era già inoltrato. Il meteo, per quanto rinfrescato, rimane gradevole (pure troppo per la stagione) e anche certi risvegli grigi riescono ad avere una loro sfumatura poetica con le loro nuvole cariche e allo stesso tempo evanescenti sospese a mezz’aria.

La mia vita procede principalmente su binari piuttosto regolari fatti di lavoro, rientri a casa ad orari molto sani, sere in cui mi distraggo e prima delle otto ho già la cena in tavola e fine settimana che finiscono prima di potermi realmente accorgere che siano cominciati. Niente di particolarmente straordinario ma quello del lavoro a tempo pieno è un ritmo a cui non ballavo da molto tempo e avevo dimenticato quanto potessero essere brevi i fine settimana. Paradossalmente però, quelli che mi sono sembrati più brevi sono stati quelli in cui ho fatto meno cose. Come se, una volta arrivata la domenica sera, mi fossi chiesta: ah, e cosa ho fatto questo fine settimana? In realtà ogni fine settimana ha avuto almeno un elemento di eccezionalità ma dopo fine settimana che mi avevano travolta nella loro interezza, ho avuto un po’ la sensazione di non aver fatto tutto quello che avrei potuto o voluto fare.
E invece ho avuto mia sorella in visita per un paio di giorni con la quale ho esplorato soprattutto ristoranti; sono stata a cena con mia cugina e sua figlia che vive a Parigi; dopo più di due mesi ho rivisto la quasi totalità dell’equipe organizzatrice di Dolcevita-sur-Seine e mi sono sentita parte di qualcosa come non mi capitava dai tempi delle più unite squadre di calcio in cui ho giocato condividendo le partite più stremanti fisicamente e mentalmente. Ho trovato la forza di andare all’Ikea un sabato pomeriggio. Una domenica sera sono andata con C. a una serata di sole donne su una peniche colorata accanto al Pont Alexandre III, ma poi abbiamo finito per chiacchierare tra di noi e mi piace il modo che ha di normalizzare cose che mi sembrano difficili e di smontare i miei momenti fuori dalla realtà. Sono stata a una festa in cui il mio calice era spesso pieno ritrovandomi sul balcone, bicchiere di vino in una mano, sigaretta nell’altra, la colonna di piazza della Bastiglia a due passi, nella più totale pienezza del momento a dichiarare che ero esattamente dove volevo essere ed ero felice. E il fatto che lo stessi dicendo con una sigaretta in mano non è per me secondario perché non sono una fumatrice abituale e la voglia di nicotina è per me direttamente proporzionale non solo all’alcol che ho in corpo ma anche al rilascio sereno dei freni inibitori. L’ultima sigaretta intera che avevo fumato risaliva alla serata con Morgane.


Morgane, il suono del suo nome diminuisce di intensità, è sempre più flebile il ricordo eppure capace di far stringere gli occhi, muoverli rapidamente e farmi chiedere come sia stato possibile. Come se quella vasca di dolore fosse stata nel tempo diluita dalla vita che ha ripreso a scorrere ma una traccia fisica inconscia rimane, una forma di memoria che il mio corpo trattiene. E sarà che tra pochi giorni sarebbe stato il suo trentaseiesimo compleanno, sarà che fra poco meno di due settimane sarà passato un anno dalla sua morte, ma ho la sensazione di essere ancora in un luogo in cui sono serena ma non del tutto felice e a volte arranco ancora un po’.
Mi viene in mente una filastrocca inglese che ho sempre interpretato come un elogio romantico alle vite un po’ storte e imperfette.
There was a crooked man, and he walked a crooked mile,
He found a crooked sixpence against a crooked stile;
He bought a crooked cat which caught a crooked mouse,
And they all lived together in a little crooked house.*
E io mi sento ancora così, un po’ sghemba lungo il mio cammino storto, a volte più di altre ma cercando di ricordarmi che probabilmente il passaggio del tempo è più lento del mio desiderio di tornare a una piena normalità. Penso che questo sia stato il sentimento che mi ha accompagnato per tutti questi mesi e ora, dopo un anno ormai, quel che mi risulta più difficile è capire dove finiscono gli strascichi degli ultimi dodici mesi e dove cominciano quelle che poi sono la mia vita e la mia indole a prescindere dalle sfide che Parigi mi ha posto davanti.

Lo scorso inverno ho preso in prestito un libro di Catherine Meurisse, una disegnatrice di Charlie Hebdo che il 7 gennaio del 2015 è arrivata in ritardo alla riunione di redazione ed è così scampata alla sparatoria in cui sono morti alcuni dei suoi colleghi. In una delle tavole la protagonista, Meurisse stessa, apre la porta a un amico (o forse all’ex compagno, non ricordo), lo abbraccia e si liquefà nelle sue braccia dicendo che avrebbe voluto essere viva, come prima, esprimendo quello che poi è stato l’unico desiderio che riuscivo ad avere per mesi. E forse questa assenza di contatto fisico, di abbracci in cui scomparire è stata quella che più mi ha fatto sprofondare in questo anno. Creare legami intensi di amicizia dopo una certa età è sempre più difficile, creare legami che non abbiano paura del contatto fisico lo è ancora di più.
Ma sto bene a Parigi, questa città la cui immagine patinata non corrisponde affatto alle sue molteplici realtà che però sono molto più interessanti della sua immagine. Una città difficile se sei a mobilità ridotta e mai gratitudine fu più grande di quella di madri sole con passeggini che ricevono aiuto da altri passeggeri su e giù per le scale delle metropolitane. Una città in cui le cimici dei letti non sono arrivate oggi che qualcuno ha postato dei video sui social creando una psicosi collettiva. Ma anche una città che negli ultimi anni ha avuto il preciso progetto politico di togliere le auto private dal centro e restituire alla popolazione alcuni spazi come i lungo Senna che ora sono luogo di passeggiate e sport. Una città in cui è stato fatto un grosso lavoro per creare piste ciclabili e favorire l’uso della bicicletta. Una città che chi abita qui da anni ha visto cambiare e rendere più moderna e vivibile. Se non usi la macchina privata.
Questa settimana sono andata al lavoro un paio di volte in bicicletta e, una volta superato lo stress di trovare una bicicletta del bikesharing funzionante, è stato quasi romantico vedere il gran numero di ciclisti in pista. Romantico e frutto di invidia, soprattutto per chi aveva l’aria di avere biciclette decisamente più leggere e performanti di quelle su cui ero io.
Dunque ho fatto l’abbonamento al servizio principale di bikesharing locale perché, in caso di sciopero o problematiche dei trasporti, è sempre bene avere un’alternativa (che immagino useranno in molti). E poi è un’occasione per fare un po’ di movimento, soprattutto visto il peso delle biciclette e perché Parigi, non mi stancherò mai di scriverlo, presenta molti dislivelli che neanche le biciclette elettriche (o almeno quelle che trovo io) riescono a rendere meno faticose.
Ho fatto la mia prima uscita domenica mattina, un giorno giusto per testare il tragitto casa-lavoro senza la paura di non arrivare in tempo. Peccato che abbia selezionato il percorso in macchina sul navigatore e che mi sia resa pienamente conto dell’errore solo quando la svolta a destra prevedeva salire sulla circonvallazione riservata alle macchine. E’ stata però un’occasione per visitare una zona misconosciuta della città, la banlieue sud che a tratti pareva di essere a Londra coi suoi grattacieli nuovi e quelli in costruzione stagliati su un cielo limpido. Cielo limpido non caratteristico di Londra, lo so.
Mi sto dilungando ma ci sono due ultime cose di cui vorrei scrivere. La prima riguarda le donne che ho conosciuto da quando sono qui. Non quelle delle applicazioni di incontri perché sono molto difficili se non impossibili da incontrare ma quelle che ho incrociato per un motivo o per un altro e che mi hanno dato un’immagine così lontana dall’angelo del focolare o oggetto che paiono essere l’unico destino della donna da millenni. Le donne che ho incontrato sono spesso (ma non sempre) madri, spesso (ma non sempre) mogli ma sono soprattutto tutto il resto. Donne colte, intelligenti, solidali, battagliere. Donne animate da passioni smisurate, voglia di fare per sé e per gli altri. Donne capaci di guardare il mondo con leggerezza e di dare alle cose il loro giusto peso. Donne imperfette e donne che per me sono rappresentazioni di quel che è possibile fare e a cui voler tendere. Donne che, mi ha confessato una di loro, possono essere tutto ciò perché vivono in un paese in cui è possibile esserlo, in cui non dover scegliere se essere madre, moglie o tutto quello che erano prima perché possono essere tutto in contemporanea.
L’ultima cosa di cui vorrei scrivere è che ho preso i biglietti per tornare a Firenze una settimana a dicembre. E proprio questo rientro mi pone di fronte un elemento di cui forse ho già scritto in passato e che credo colpisca tutti coloro che vivono in un paese diverso da quello in cui sono nati e cresciuti: la sensazione di essere continuamente a metà tra due vite, quella che si sta vivendo e quella che si è lasciata. Penso a quanto sia strano per me quando torno a Firenze e mi trovo circondata da persone che parlano con l’accento locale, con quello che poi è anche il mio per quanto edulcorato dalla disabitudine al suo suono. Penso alle vite degli altri che vanno avanti in parallelo alla mia senza toccarla per mesi, salvo qualche rado messaggio. Penso a come sia tornare ogni volta in un mondo che si frequenta senza di me, che ha le sue regole, i suoi rituali che per me sono ormai inevitabilmente lontani. Allo stesso modo chi è rimasto nella mia vita passata vede distanti ed impalpabili cose come i tentativi di evitare di dover cambiare a Châtelet che invece condivido con più o meno chiunque si trovi a sgomitare quotidianamente tra le sue scale mobili ingolfate di persone, i suoi tappeti mobili non funzionanti e i suoi lunghi e tortuosi dedali.
E allora mi rendo conto di quanto il quotidiano permei certi rapporti, di quanto sia delicato trasformare il quotidiano in eccezionale, di quanto si possa cambiare nella distanza. E’ difficile restare attaccati a un luogo che si è lasciato ma forse è anche inevitabile allontanarsi, soprattutto se si è scelto consapevolmente di farlo. Senza dimenticare o sputare sul passato ma osservandolo come un vecchio innamorato a cui non si aveva più molto da dire e allora è stato meglio lasciarsi e che non incontrarsi mai.
*C’era un uomo storto e ha camminato un miglio storto,
ha trovato una moneta storta da sei pence su una scaletta storta.
Ha comprato un gatto storto che ha catturato un topo storto.
E vissero tutti insieme in una piccola casa storta.