Se la scrittura è soprattutto un esercizio, un qualcosa che si impara attraverso la pratica, le premesse di questo post che mi appresto a scrivere non andranno in controtendenza. E’ infatti con approccio da compito in classe, da impegno a non far passare altri due mesi, che mi dedico al blog in quelli che probabilmente saranno vari momenti.

Ora che inizio a scrivere è un lunedì sera. Sono tornata a casa, o meglio, dovrei dire alla mia casa acquisita sotto la torre di Montparnasse, a piedi. Stamattina sono uscita senza casco per la bicicletta e dimenticando che avevo spostato i guanti dalle tasche del cappotto a quella dello zaino. Dopo dei giorni eccessivamente caldi per la stagione, oggi le temperature erano più fresche e delle nubi sparse impreziosivano il cielo principalmente sereno riflettendo i colori del tramonto. Non avevo voglia di prendere il treno e la metropolitana, né di tentare la sorte (e il freddo alle mani) con una delle poche biciclette a disposizione nella stazione Velib accanto alla Maison de l’Italie: le biciclette erano sei, troppo poche per una stazione in cui molto spesso gli attacchi non funzionano e non riesco a sbloccare un mezzo per tornare a casa. Ho deciso quindi di andare a piedi fino alla stazione di Denfert-Rochereau ed eventualmente prendere la metropolitana da lì. La temperatura però era piacevole e io venivo da una domenica pigra e rilassata fra brunch casalinghi, pizze ordinate a casa ad orari quasi inglesi e film guardati sul divano, senza mai uscire di casa. Avevo voglia di stare all’aria aperta, di approfittare del tempo per poter imparare a navigare un’altra parte di città, senza dover ricorrere al gps. Se la primavera scorsa, spinta dal risparmio sui biglietti dei trasporti, ho imparato a conoscere un po’ le strade che dal nord-est di Parigi portano verso il centro della città, quest’anno, tra bicicletta, lavoro e frequentazioni, sto esplorando il centro-sud con qualche puntata ad est dove ho la psicologa. Non so se mi annoierà mai lo stupore di fronte alla giustapposizione che sembra senza senso fra palazzi di epoche diverse, fra un certo gusto architettonico e blocchi di cemento senz’anima. Ancora non riesco a guardare con l’indifferenza del quotidiano i casermoni che spiccano nel cielo grigio delle periferie, quasi fossero dei corpi estranei.



La scorsa settimana ho partecipato a una serata di tavole rotonde sul futuro immaginato per la Cité Universitaire. L’incontro era stato organizzato all’interno di un elegante salone all’interno della Fondation Nationale, l’edificio principale della Cité. Io mi sento ancora nuova in questo contesto dalle molte regole e sfumature, ho difficoltà ad immaginarmi il futuro di qualcosa che conosco poco però ho anche pensato che forse una delle ragioni per cui conosco poco l’entità superiore all’interno della quale è collocata la Maison de l’Italie è proprio che esco di rado dal perimetro della Maison in cui lavoro. La serata è stata invece un’occasione per vedere meglio il tutto di cui faccio parte, che faccia hanno direttori e direttrici di altre strutture, che idee portano residenti di altre nazionalità e altre Maison. Forse mi sarebbe piaciuto poter scambiare qualche parola anche con miei consimili, dipendenti che non hanno ruoli direttivi, ma la partecipazione non era obbligatoria e sospetto che tra i presenti fossimo in pochi a non avere un alloggio all’interno della Cité.
Sono state due settimane a fasi alterne. Dietro una certa serenità emotiva e personale, si è spesso nascosta una certa agitazione pragmatica: ho iniziato a capire sempre di più quello che diceva mia cugina su Parigi. Che era vero che l’offerta culturale fosse enorme ma il costo della vita non è proporzionato alla maggior parte dei salari e che si passa talmente tanto tempo nei trasporti, che se non si è fortemente motivati le giornate finiscono senza aver potuto fare molto al di là di lavorare o studiare. Io forse passo relativamente poco tempo nei trasporti ma capisco perfettamente le risorse sproporzionate all’offerta.
E’ però vero che a Parigi non mancano proposte culturali gratuite e l’Istituto Italiano di Cultura non manca di regalarmi spettacoli che mi fanno tornare a casa contenta di essere andata. Soprattutto sono spettacoli che mi permettono di vivere senza ansia finanziaria l’emozione del momento in cui si spegne la luce e inizia una storia. La scorsa settimana ho visto il monologo “La mascula”, in cui l’autrice e interprete Egidia Bruno racconta la storia di Rosalba, una giovane calciatrice che vive in un piccolo paese del Sud Italia e coltiva la sua passione per lo sport nonostante i pregiudizi dei suoi concittadini.
Come molti italiani in patria o fuori patria, non ho mancato di guardare il festival di Sanremo. Nei ritagli di tempo, il giorno dopo su Raiplay, mai fino alla fine e quasi mai prestandogli la mia totale attenzione. E’ però un fenomeno culturale che mi incuriosisce e mi diverte condividere i commenti. Cosa mi rimane? Soprattutto le canzoni di Mahmood e Ghali. Quelle in gara a risuonarmi in testa con quella ossessività che diventa fastidio dopo qualche giorno; i loro duetti come i momenti forse più intensi del festival.
Ho partecipato anche alla mia prima cena con raclette da quando sono arrivata a Parigi. A casa di C. con lei e alcuni altri amici di Morgane un venerdì sera. Ed è curioso come il tempo alleggerisca i ricordi, quasi che quando si dice “A quello spettacolo andai con Morgane” si presuma che ci si possa davvero tornare a teatro con lei. E invece no e benché abbia aggiunto molta nuova vita a coprire quel ricordo, raccontare alla psicologa alcune immagini di quella mattina mi ha fatto venire di nuovo un po’ voglia di piangere. Senza singhiozzare, senza disperazione ma come per qualcosa che ancora viveva in me. E’ però vero che ancora non credo di aver veramente capito come e quanto viva in me.
Sono stata al cinema a vedere All of us strangers, il film con Andrew Scott e Paul Mescal. Ho pianto a più riprese ma l’episodio di cui ho il ricordo preciso è quello in cui il personaggio di Mescal dice a quello di Scott quanto sia stato bravo, forte, a gestire la morte dei genitori quando aveva dodici anni. Ecco, quella frase e il senso di solitudine di Scott di fronte al lutto mi hanno fatto piangere come forse non mi capitava da tempo.
Le pratiche burocratiche che mi rendono sempre più residente in Francia e sempre meno in Italia sono avanzate nelle ultime settimane. Mentre aspettavo la mia carte vitale (che è infine arrivata) ho anche proceduto ad estinguere il debito con la finanziaria attraverso la quale stavo finendo di comprare la macchina che, per quanto possa sembrare assurdo, ancora ho benché ferma in Italia per la maggior parte dell’anno. Soprattutto ho preso informazioni concrete su come chiudere il mio conto in banca italiano. E non so se sono state le giornate grigie oppure la sensazione che davvero sto chiudendo un ciclo oppure la mancanza di amicizie di lunga data e solide o la fatica di fare piani di viaggio dipendendo unicamente dai trasporti in comune o un misto di tutto quanto ma sono stati anche giorni segnati dalla nostalgia di casa, dal pensare che sarebbe sicuramente stato più facile essere a Firenze, con la mia macchina, senza tutte le incombenze burocratiche che ho dovuto fronteggiare e senza l’impegno di crearsi una vita sociale nuova.
Poi pero’ arrivo alla fine di settimane che mi sono piaciute. Settimane in cui, al di là di ansie finanziarie che un po’ sono vere ma un po’ mi accompagnano da quando sono bambina, sono serena e faccio piani futuri. Settimane in cui realizzo che l’unico cv spontaneo che ho mai mandato era nell’organizzazione eventi e che da quando sono a Parigi quello che faccio per lavoro non vi si discosta tanto. E per quanto il mio ruolo nell’organizzazione sia in appoggio, è pur sempre occasione di osservare e imparare qualcosa di nuovo.
Quindi a Parigi c’è stato l’inverno e improvvisamente è arrivata qualcosa che assomigliava alla primavera solo per essere rimpiazzata dall’autunno. Come nelle città del nord, appena c’è uno spiraglio di sole nel fine settimana, tutti i parigini si riversano nei suoi parchi o per le sue strade ed io non sono stata da meno. Soprattutto davanti ad un meteo che promette e mantiene settimane di grigio e pioggia.

Febbraio sta per finire e marzo è sempre stato il mio mese preferito. Un anno fa sedevo ad un tavolino al sole del mercato delle Lilas con i genitori di Elio e dei loro amici mangiando ostriche col vino bianco e patatine fritte. Lo ricordo come il probabile inizio della lenta fuoriuscita da un’ovatta senza ricordi. La settimana dopo scrissi la prima canzone che in qualche modo parlava di Morgane senza parlare della sua morte e cominciai ad andare ad allenarmi con regolarità alla pista di atletica delle Lilas. Poi ho dovuto cambiare casa e l’appartamento è arrivato tramite un’amica dei genitori di Elio conosciuta proprio quel pomeriggio lì.
Un anno dopo non sono sicura di essere totalmente uscita da quella ovatta senza ricordi ma ho iniziato a vivere fuori dalla mia camera da letto e dal mio appartamento. Proprio ieri ero nuovamente al mercato delle Lilas con un nucleo ristretto legato al festival Dolcevita-sur-Seine che l’estate scorsa mi ha fatto sentire pienamente viva forse per la prima volta dal mio arrivo a Parigi. Anche questa volta c’erano ostriche, vino bianco, patatine fritte e pure un po’ di humus e babaganoush comprate al banco libanese perché al bar del mercato delle Lilas funziona così, alcune cose le prendi al bar ma puoi portarti quel che compri ad altri banchi del mercato. Anziché il sole c’erano pioggia e umido, io però ho lasciato da parte quella nostalgia dell’Italia che a volte mi prende.