Quando ho iniziato a scrivere della mia vita parigina ero appena arrivata in città e non avevo un lavoro a tempo pieno. Avevo dei coinquilini con cui passavo poco tempo e una rete amicale piuttosto ristretta intorno a me. Quando ad agosto 2023 ho iniziato a lavorare alla Maison de l’Italie, erano quasi tre anni che non conoscevo il lavoro a tempo pieno. Il tempo non mi mancava mai, anzi, il problema era cosa farne di tutto questo tempo. A dirla tutta, il mio primo anno a Parigi è stato talmente violento psicologicamente, che me ne mancano ampi stralci. Ne ricordo però alcune sensazioni, le giornate chiuse in camera dalla quale uscivo solo per mangiare e andare in bagno. La solitudine. La malinconia senza fondo. La fatica quotidiana per riempire le ore e il vuoto. Adesso invece a volte vorrei dei pezzi di quelle giornate là, quelle in cui affidavo alla chitarra la mia tristezza, quelle in cui le riflessioni riempivano le pagine e gli avvenimenti avevano modo di sedimentare le loro tracce. Adesso quando torno a casa non sono più sola, dopo lavoro sono spesso o molto stanca o impegnata in faccende casalinghe o, più semplicemente, in chiacchiere meno addormentate di quelle appena sveglia al mattino. Le mattine del fine settimana poi, i risvegli sono lunghissimi e non è infrequente che le giornate inizino di fatto all’ora di pranzo. Se fino ad un anno fa erano la scrittura e la musica ad accompagnare le mie giornate spesso casalinghe, adesso sono state le prime ad essere spazzate via dalle mie rincorse quotidiane. A me lavorare piace e mi piace il mio lavoro ma è vero che lascia poco tempo per l’espressione di sé e la vita sembra spesso ridursi ad un ritaglio di tempo.

Quando ho iniziato a scrivere questo post era metà novembre e trovavo che ci fosse qualcosa di accogliente nell’autunno, nelle giornate sempre più corte, nelle nuvole costanti che avvolgevano la città, nelle tazze di tè o tisana che si susseguivano nei rari momenti di rilassatezza casalinga, nelle vetrine che sembravano chiamare come sirene. Poi è arrivato dicembre, l’inverno, il freddo vero ma anche le giornate che riprendono ad allungarsi e l’ottimismo che la primavera non è poi così lontana.

Questi ultimi quasi tre mesi di silenzio ormai, come quelli che li hanno preceduti, sono stati fitti di impegni, di questa vita che a Firenze non riuscivo a fare, incrostata com’ero nella mia pigrizia e nelle mie abitudini decennali. Partire invece ha significato anche costruirsi una nuova routine. Essere in una città in cui l’offerta culturale è superiore rispetto alla capacità di chiunque di fruirne e accompagnarsi ad una persona con la curiosità di esplorarla, significa che almeno una volta a settimana si finisce per essere in un qualche luogo di produzione culturale. Ci siamo godute Nick Cave coi Bad Seeds comodamente sedute e con una visuale accettabile alla Accor Arena di Bercy; due settimane dopo abbiamo invece odiato la Défense Arena che ospitava Paul McCartney per cui abbiamo visto il concerto in piedi dal fondo della sala perché nessuno dell’organizzazione aveva verificato che gli accessi seguissero l’ordinata fila e non il pericoloso tappo che si era creato sulla passerella che collega l’arco della Défense con l’arena. Nel mezzo siamo andate in un locale da giovani alternativi per sentire un duo rap di cui un membro è cantante e chitarrista de La Rue Ketanou, gruppo che ha animato le serate degli alternativi francesi fin dai primi anni 2000, come facilmente intuibile dall’età media del pubblico.

Per il nostro primo anniversario volevamo regalarci una gita fuori porta. La scarsa collaborazione delle ferrovie francesi che rendevano inutilmente complesso raggiungere Chartres e la stanchezza che ci ha fatto desistere da ogni treno che prevedeva due metropolitane per essere raggiunto, ci ha fatto ripiegare su Pontoise, scelta aprendo un sito con le dieci migliori gite fuori porta a portata di abbonamento dei mezzi. La città, per quanto lungamente frequentata da Camille Pissarro, non si è rivelata indimenticabile e, come molte città francesi, alternava costruzioni antiche alle più orrende espressioni dell’edilizia popolare. Mentre passeggiavamo per le vie deserte, ci siamo chieste più volte se i rari turisti che incrociavamo avessero letto il nostro stesso articolo.

Siamo state a teatro a vedere Re Chicchinella, uno spettacolo di Emma Dante, il mio primo, per cui ho capito perché si va a teatro a vedere gli spettacoli di Emma Dante. Siamo state al cinema, abbiamo riso durante il surreale Miséricorde, apprezzato senza stracciarci le vesti Leurs enfants après eux e faticato a tenere gli occhi aperti durante Ernest Cole, photographe, non perché fosse brutto ma perché quando si ha sonno, i documentari che sono soprattutto lunghe sequenze di foto non sono consigliabili. Siamo state anche all’anteprima parigina di Diamanti, l’ultimo film di Ozpetek, dove io operavo in veste di volontaria per la proiezione organizzata dalle meravigliose donne dietro a Dolcevita-sur-Seine ed è stato elettrizzante per una sera ritrovarmi in quell’atmosfera di tanti ingranaggi che devono incastrarsi perché l’evento funzioni. A casa abbiamo finalmente trovato la giusta posizione al proiettore e una sequenza di serie che ci hanno tenute sul divano in più di una serata casalinga: Disclaimer, Bad Sisters, Slow Horses, Hanno ucciso l’uomo ragno.

Siamo state ostaggio del Louvre e della sua mostra Figures du Fou dedicata alla figura dei buffoni nell’arte dal Medioevo al Romanticismo per quasi quattro ore tanto era densa e ho attraversato la città per andare a sentire il coro senegalese in cui canta una delle due meravigliose donne delle pulizie della Maison de l’Italie, riempiendomi dell’allegria del pubblico (tra cui molte suore) che in certi momenti si alzava, e danzando raggiungeva lo spazio libero di fronte alla prima fila.

Una domenica di inizio anno sono stata a vedere il Soweto Gospel Choir alle Folies Bergère con la mamma di Elio, in un’esperienza parigina totale: concerto, bicchiere di vino nell’intervallo sotto gli stucchi Belle Epoque, ristorante nei paraggi dopo lo spettacolo.

Un fine settimana, nel giro di tre giorni ci siamo godute cioccolate calde brasiliane seguite da una sosta di fronte al Musée d’Orsay su cui erano proiettati diversi brevi progetti di video mapping dedicati a Caillebotte in occasione della mostra a lui dedicata che purtroppo non siamo riuscite ad andare a vedere prima della chiusura. Il giorno dopo ho accompagnato un’amica a cercare abiti da sposa, bevuto un bicchiere di vino con lei e un’altra sua amica mai vista prima, tornata verso casa per fare spese natalizie prima di scappare al cinema. Il giorno dopo siamo finite al ristorante dell’Institut des cultures de l’Islam con delle cugine di mio padre in visita commosse dal cibo che ci siamo ritrovate nel piatto. Abbiamo poi lasciato il vivace quartiere della Goutte d’Or, una sorta di viaggio tra Africa, gallerie d’arte associativa e di quartiere e spazi di creazione culturale più di strada, per dirigerci invece in quello che forse era quasi la sua antitesi: la messa di riapertura al pubblico di Notre Dame. Nel giro di un’ora siamo passate dai rumori, gli odori, i colori di un mercato frequentato soprattutto dalle comunità dell’Africa sub-sahariana, alla comunità locale fatta di famiglie molto bianche, vestite di tutto punto e che intratteneva i figli piccoli con giochi a tema biblico. Al di là della iniziale sensazione di straniamento, è stato emozionante rivedere la cattedrale liberata dalle impalcature e riportata al suo colore originario, chiaro, che nessuno aveva mai visto, prima di scappare verso una cena con amici.

Ci siamo anche messe a cercare casa ossia l’attività più sfibrante che la città possa offrire che prevede selezionare fra numerosi annunci accomunati soprattutto da costi spropositati per 38 metri quadri male organizzati. La volta in cui si trova un appartamento dall’aria vagamente visitabile nonostante dalle foto già si veda che la cucina è provvista di soli due fornelli e il concetto di cucina separata dal salotto non abbia preso piede in questa parte di mondo, inviare una richiesta. Se va bene si verrà contattate per andare a vedere l’appartamento in un orario comodo solo per chi lavora tra le 18 e le 12 o è un libero professionista (attenzione però, perché l’assenza di un contratto a tempo indeterminato potrebbe influire negativamente sull’attribuzione dell’alloggio) e si avranno poi meno di 24 ore per decidere se si vuole affittare l’appartamento a partire da praticamente l’indomani. Il contatto telefonico iniziale spesso prevede domande sul tipo di lavoro svolto, il contratto, l’importo degli stipendi e commenti sul fatto che si stia cercando casa in tutt’altro quartiere rispetto a quello in cui si è ora. Se va bene, l’agente immobiliare si accontenta di queste risposte per acconsentire alla sola visita, se va male richiede l’invio del famigerato dossier composto da una sequela di dati personali tra cui: documenti di identità, contratto di lavoro, dichiarazione dei redditi (preferibilmente francese, alcuni manco prendono in considerazione candidati con dichiarazioni estere), ultime tre buste paga, ultimi tre bollettini di pagamento dell’affitto attuale. In una città fondata sulla truffa immobiliare, la voglia di inviare la documentazione prima della visita di un appartamento presumibilmente deludente è pari allo zero. Detto questo, i pochi appartamenti che riusciamo a vedere ci aiutano sicuramente ad alimentare il nostro sconforto ma anche ad affinare la ricerca e imparare come districarci nel terribile mercato parigino. A volte però la ricerca è anche stata occasione di scoprire nuove zone della città come quando dopo aver visitato un appartamento in una torre di trenta piani, raggiunta incrociando soprattutto persone cinesi, siamo restate nell’atmosfera andando da Tang frères, il supermercato-istituzione della comunità cinese parigina.

Le decorazioni di Tang Frères fra le torri del 13esimo Arrondissement

Il lavoro, una volta passato l’annuale evento organizzato dalla Maison de l’Italie in Consolato in occasione della settimana della cucina italiana nel mondo, ha ripreso ritmi più sostenibili. Ritmi che avevo smesso di conoscere da troppi mesi. Del lavoro segnalo anche che il giorno in cui abbiamo organizzato un brindisi per salutare i due ragazzi che hanno svolto il servizio civile europeo da noi per sei mesi, mi sono trovata nella biblioteca della Maison dopo cena, tra un brindisi, una chiacchiera coi residenti e un karaoke da veri italiani all’estero (da Tiziano Ferro a Loretta Goggi passando per i Lunapop e Raul Casadei) e ho sentito quello spirito di appartenenza che, ho realizzato, rappresenta la mia ricerca costante da sempre. La famiglia, la squadra, il gruppo di lavoro, il gran calderone degli expat italiani culturalmente affini. Fino alla tarda adolescenza ho molto sofferto l’impressione di avere origini frammentate, di non sapere mai fino in fondo dove fosse casa mia. A Firenze ci ero nata ma nessuno dei miei genitori era fiorentino. Forse, parafrasando Calvino, semplicemente ero adolescente e mi sarei sentita fuori posto anche se la mia famiglia fosse stata fiorentina da generazioni.

Dopo un anno lontana, sono anche stata a Firenze per Natale. L’anno scorso avevo girato come una trottola per una settimana, tornando a Parigi più stanca di come fossi partita. Questa volta invece, l’ho organizzata più come una vacanza, mi sono presa il lusso di stare a casa alcune sere senza dover per forza vedere qualcuno. Ogni volta che ho visto amici e famiglia, invece, l’ho fatto con il piacere di essere lì e solo lì, cullata dalle mie “G” e “C” che perdevano forza via via che le mie orecchie tornavano a riconoscere i suoni che hanno accompagnato i miei primi 36 anni di vita.

Una mattina ho passeggiato da sola per il centro di Firenze. Sotto un sole pre natalizio ho cercato di percorrerne il più possibile le strade. Piazza Duomo, piazza della Signoria, Borgo degli Albizi, Borgo Pinti, Ponte Vecchio, Piazza Pitti, Piazza della Passera, Piazza Santa Trinita, mi guardavo intorno come vedessi la città per la prima volta e avevo voglia di piangere. Mentre fotografavo il mio liceo dal Ponte Vecchio me lo sono chiesto più volte perché fossi partita. Quando un paio di giorni dopo sono tornata alla Coop per ultimare il rifornimento di viveri per il nord, l’emozione mi creava quasi delle palpitazioni e mi sono obbligata a uscire rapidamente prima di riempire le buste di cibarie che avrebbero appesantito oltremodo le mie già cariche valigie che dovevano salire sui sette treni che nel giro di quattro giorni mi hanno portata a Bricherasio prima e Ventimiglia poi prima di rientrare in una grigia e fredda Parigi.

Credo che il pensiero di tornare a vivere in Italia sia ricorrente non solo in me. Spesso però la suggestione si arena di fronte alla domanda: “Sì, ma a fare cosa?”. Vedo e sento che Parigi non è una città gentile, che è faticosa, che respinge chi non riempie determinati parametri. Però Parigi è anche un mondo, quando addirittura non è IL mondo, con tutte le sue contraddizioni. E’ Francia, è Italia ma è anche Senegal, Marocco, Brasile, India, Cina e tutte le innumerevoli nazionalità che si incrociano in città. E’ arte colta e arte di strada. È farsi dedicare un libro da Zerocalcare al centro sociale il sabato a Montreuil e due battute con Jasmine Trinca al cocktail post proiezione di Diamanti il giovedì con vista sull’Arco di Trionfo. È solitudine e solidarietà (soprattutto della propria comunità). È, soprattutto, la speranza che il futuro possa ancora succedere.

A Parigi è tornato il sole, poi è arrivata la neve, seguita dalla pioggia prima e dal freddo pungente sotto il cielo spesso e bianco che avvolge la città d’inverno poi. Fuori il mondo non è molto più accogliente e non è infrequente leggere le notizie con un misto di sconforto e disarmo. Talvolta mi chiedo se sono le stesse sensazioni che si provavano cento anni fa di fronte all’ascesa di Hitler, Mussolini e Stalin e che non c’è niente da fare se non vivere come se niente fosse e intanto prepararsi ad anni sempre più imprevedibili. Mi chiedo quanto il mio ottimismo privato abbia senso in un pubblico che invece mi fa sempre più paura. Forse però è l’unica cura possibile.

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