Ora che inizio a scrivere è il tardo pomeriggio di domenica 13 luglio ed è il primo fine settimana in cui non ho niente da fare da mesi. Ed è un niente che sa di vacanza anche se non sono realmente in vacanza, anche se tra ieri e oggi ho sistemato casa, ho fatto le pulizie, sono stata da Ikea, ho fatto varie lavatrici. Ma è un niente che sa di vacanza perché per la prima volta dopo mesi ho potuto prendermi cura degli spazi che abito, intervallando il tutto con assopimenti sul divano cullata solo dai rumori ovattati degli appartamenti vicini, le voci lontane, le posate poggiate sui piatti prima di portarli in cucina, l’aspirapolvere occasionale. È un niente che sa di vacanza anche se non ho mai smesso di lavorare perché negli ultimi mesi sono spesso stata fuori Parigi il fine settimana, o abbiamo avuto visite o, soprattutto, abbiamo cercato casa. Due mesi fa abbiamo pure firmato un contratto di affitto e in mezzo al tumulto del lavoro e delle visite di amici e parenti, abbiamo pure fatto un trasloco. Come se tutto ciò non fosse abbastanza, anche quest’anno ho lavorato ad un’edizione particolarmente scoppiettante del festival Dolcevita-sur-Seine e, in particolare l’ultimo mese prima del festival, o traslocavo, o lavoravo per la Maison de l’Italie nei miei orari consueti e per il festival in tutti quegli altri. La fine del festival e il ritorno ad un solo lavoro, concluso il trasloco, mi hanno regalato la leggerezza delle ferie.

Quindi sì, negli ultimi due mesi ho fatto due lavori, un trasloco, ho avuto molti ospiti in casa e varie attività serali. Per Dolcevita ho gestito gli spostamenti di ospiti a tratti più impegnativi di quelli degli scorsi anni, uno sciopero dei trasporti di due giorni e la chiusura momentanea della ferrovia Milano-Parigi proprio nei giorni del festival. Ho fatto una fatica, soprattutto mentale, infinita che ho avuto chiara per davvero solo quando il giorno dopo la fine del festival sono tornata alla Maison de l’Italie e la pur vasta mole di lavoro mi è sembrata rilassante. Mi sono però anche sentita orgogliosa di lavorare con donne che sono anche esempi di volontà, creatività, tenacia, leggerezza, flessibilità e forse anche un po’ di pazzia e, come ha detto una di noi la sera in cui ci siamo presentate tutte dal palco: liberté, fraternité, sororité. L’ho già scritto più volte, lo so, ma forse ancora non mi capacito delle cose che vedo fare a tutte le meravigliose donne che ho incrociato a Parigi.

Dall’ultima volta che ho scritto siamo state a Bourges a Pasqua in quello che forse è stato l’unico fine settimana veramente piovoso dall’inizio alla fine da fine febbraio. Siamo andate timorose che tre giorni fossero troppi, è andata a finire che alcune delle cose che abbiamo visto erano talmente belle che ci siamo tornate più volte. La cattedrale intanto, una delle poche con cinque portali, enorme, con le sue decorazioni in facciata, le sue vetrate minuziosamente decorate, la sua cripta che nasconde altre storie. Quel che resta delle fortificazioni gallo-romane ossia una sorta di città nella città che si scopre varcando una porta semi-nascosta. Il palazzo gotico-rinascimentale di Jacques Coeur, figlio di un pellettiere, diventato poi tesoriere di Carlo VII. Le paludi che resero tanto difficile la conquista della città da parte dei romani e che ora costituiscono un sistema di orti separati da canali dal quale guardare la cattedrale che si staglia nel cielo di questa enorme regione centrale della Francia fatta soprattutto di prati, boschi, vigneti e basi militari.

Io sono stata anche in Sardegna, nuovamente fuori stagione e nuovamente in un fuori stagione che ha deciso di presentare il suo volto più freddo e ventoso, in cui il bagno era solo per persone molto motivate, come del resto io sono stata, ma il cui ardire è stato ripagato da bagni rigeneranti dai quali era difficile uscire, soprattutto perché faceva più freddo fuori che dentro l’acqua.

Rientrata a Parigi c’è stata la visita di un appartamento un po’ tanto per vederlo, perché costava un po’ di più di quanto volessimo spendere, ma poiché era un sabato a metà mattina e non prevedeva fare le corse in pausa pranzo, siamo andate lo stesso. Era, ovviamente, l’appartamento per cui avremmo firmato il contratto qualche giorno dopo.

Quindi abbiamo cambiato casa. Abbiamo ridotto la metratura, abbiamo perso la stanza in più e il divano-letto aperto (ma anche solo lo stendino) evidenzia ancora di più il restringimento degli spazi. Però abbiamo guadagnato un appartamento che ci somiglia di più, in un quartiere, al confine fra Bercy e Bel-Air, in cui quando usciamo di casa abbiamo voglia di stare. Abbiamo lasciato un viale impersonale e ne abbiamo trovato uno con piccoli commerci, con degli alberi sotto i quali i bambini giocano a Campana o disegnano coi gessi sul marciapiede. Abbiamo lasciato un palazzo di vite che sembrano silenziose, ricche e perfette e ne abbiamo trovato uno di cui non sappiamo ancora molto ma in cui le persone che abbiamo incrociato per le scale potevamo essere anche noi.

In questi tre mesi c’è anche stata in visita la suocera, seguita da mia sorella e mio cognato per una visita a Disneyland costellata da un paio di attrazioni più avventurose di quanto io non mi senta realmente e non mi stancherò mai di essere grata per il treno che collega Parigi e Londra in poco più di un paio d’ore che mi permette di vedere mia sorella più volte l’anno.

Siamo state a Lille a vedere Bruce Springsteen in un concerto che mi ha fatto capire anche l’importanza del pubblico che si ha intorno e che sì, l’acustica di uno stadio è importante e che ancora una volta l’organizzazione è stata più che deludente costringendoci ad una lunga passeggiata verso l’albergo perché il bus diretto non passava. Ci sono stati i consueti giorni di strane feste francesi (Ascensione e Pentecoste) da dedicare al trasloco. Ci sono stati i festeggiamenti per la Champions League vinta dal PSG che ci hanno toccate solo di striscio. C’è stata la partecipazione alla festa per i 25 anni della Chorale Popénguine sénégalaise de France in cui canta una delle signore delle pulizie della Maison de l’Italie e neanche il trasloco poteva impedirmi di immergermi nei suoni, nei colori brillanti, nella gioia di una comunità che non è la mia. C’è stata una mia amica in visita per 48 ore e molta birra e un amico di amici per un fine settimana in cui ci ha viste molto poco perché siamo partite con gli ultimi carichi di scatole e scatoloni. C’è stato che ho guidato a Parigi molto di più di quanto avrei voluto e ho potuto apprezzare ancora di più la serenità di una vita in cui la macchina nel quotidiano non serve.

Mentre scorro la galleria fotografica alla ricerca di ricordi di questi ormai tre mesi realizzo che non ho solo lavorato o traslocato. È però vero che ho riposato molto poco perché c’era sempre qualcosa da fare, al punto che, mentre nel pomeriggio a Lille aspettavamo che spiovesse per andare allo stadio, ci siamo finalmente addormentate come due persone che potevano farlo solo perché in albergo non c’era altro da fare se non dormire.

Uno dei tratti distintivi della mia vita di coppia, e forse della mia vita di coppia in una città come Parigi, è che sembra esserci un evento imperdibile (che sia per lavoro o per diletto) quasi ogni settimana. Che sia il Trittico di Puccini all’Opera Bastille con la scoperta del soprano Asmik Grigorian o la Berenice di Romeo Castellucci interpretata da Isabelle Huppert al Théatre de la Ville, passando dal libanese Wajdi Mouawad, dall’italiana Marta Cuscunà e dalla francesissima Laure Calamy, la Noémie di Dix pour cent (in Italia Call my agent) straordinariamente brava nella commedia musicale Peau d’homme, tratta dal fumetto dallo stesso titolo, e attesa alla fine della rappresentazione per invitarla al festival gemello romano di Dolcevita-sur-Seine, Nouvelle Vague sul Tevere. Per chi fosse curioso/a: ci ha pensato su ma un paio di settimane dopo ha accettato.

È venuta anche mia madre, a trasloco finito, per aiutarci con le rifiniture ma soprattutto per spingerci a svuotare e sistemare anche gli ultimi scatoloni prima del suo arrivo. È venuta durante i primi giorni di Dolcevita-sur-Seine e, nonostante le innumerevoli e un po’ stressanti telefonate o messaggi per riportarla sulla retta via quando si perdeva nelle sue esplorazioni solitarie di Parigi, sono stata contenta di averla a casa e di poterle mostrare cosa fossi venuta a fare qua.

Sabato pomeriggio è venuta una coppia di amici a vedere la nuova casa. Poi siamo andati a prendere un gelato in centro, seguito da un manouché libanese. Siamo andati a mangiarlo seduti sulle banchine della Senna, di fronte all’Ile de la Cité, parlando un misto di italiano e francese. Il sole lentamente tramontava dietro la processione di bateaux mouches e chiatte che ci passavano di fronte salutando gli astanti e ci è sembrato di essere la summa di uno degli aspetti di Parigi. Intanto nessuno di noi era parigino, eravamo due italiane e un francese del centro-sud, ma stavamo cenando in maniera del tutto informale in riva al fiume e, almeno noi italiane, ancora ci sorprendevamo per la luce delle dieci di sera che nella nostra percezione indicava invece l’ora dell’aperitivo.

Poco prima del tramonto abbiamo proseguito verso le banchine della Senna di fronte al Musée d’Orsay. È lì che è stata spostata la mostra fotografica che fino alla scorsa settimana stava alle Arènes de Lutèce dove si teneva Dolcevita-sur-Seine. Mentre ci avvicinavamo al crepuscolo mi sono ricordata di quando tre anni fa, circa dieci giorni dopo il mio arrivo a Parigi, sono finita su altre banchine della Senna un sabato sera e tra le folle che mangiavano seduti per terra, c’era una mostra fotografica di cui non ricordo più il tema, La dolce vita, forse, sicuramente organizzata nell’ambito di questo festival chiamato Dolcevita-sur-Seine. Stavo facendo passare il tempo che mi serviva per trovare il coraggio di andare a sedermi da sola in un bar queer e mi ero osservata minuziosamente tutti i pannelli. Ancora non sapevo quanta Italia avrei trovato in città ma incrociare un pezzo di Italia a Parigi mi era sembrato rassicurante. Finita la mostra e la passeggiata in riva al fiume avevo proseguito per il bar queer in cui avevo conosciuto Morgane. L’estate successiva, su quelle stesse banchine, avrei lavorato proprio per quel festival e conosciuto la persona con la quale attualmente convivo.

Sarà per questo che ogni volta che vedo le strutture della mostra sulla Senna un po’ mi emoziono e penso a quella che è la mia vita a Parigi. Su come partendo allo sbaraglio con uno zaino e una valigia sia arrivata ai complimenti per procura dell’Ambasciatrice per un lavoro o, ad esempio, ad avere la mia prima vera conversazione del mattino con Valeria Golino per l’altro. Ci penso e mi sembra irreale che questa vita così diversa da quella che conducevo a Firenze sia proprio la mia, anche se poi mi sembra una forzatura paragonare queste due vite, forse perché alla vita non si fa caso quando si è occupati a viverla.

Lascia un commento