Quello che seguirà fa parte dei post che scrivo più per scrivere (e dare a mio padre qualcosa da leggere) che perché ho realmente qualcosa da dire sulla città. O forse è perché sto iniziando a scrivere domenica sera col mio corpo che mi implora di andare a letto e io, che non so quando altro scrivere sennò, sto strenuamente lottando con la palpebra calante per lasciare qualche parola. Da venerdì, infatti, mi sono buttata a capofitto nel lavoro, senza peraltro ancora sapere se potrò portarlo a termine o se il colloquio che ho fatto giovedì pomeriggio è andato bene e quindi saluto l’équipe temporanea per buttarmi in qualcosa potenzialmente a più lungo termine. E sì, è vero che c’è stato il fine settimana, ma credo di aver capito di non essere brava a pormi dei limiti e che, quando c’è qualcosa da fare, non esiste l’orario di lavoro, esiste il portare a termine il lavoro. Quindi mi trovo a fare piani di viaggio altrui dopo cena, insegnarmi q.b. per quel che devo fare di Illustrator con le palpebre calanti, inviare il risultato di un sabato sera su inDesign a mezzanotte (sì, la mia vita sociale non è brillantissima), uscire la domenica pomeriggio e pensare che quando arrivo a casa devo rimettermi al lavoro. E non sono sicura di doverlo fare con questa abnegazione, so però che la mia mente non si staccherà dal pensiero di doverlo fare finché non lo farò. Ma cosa sto facendo?
Sono stata imbarcata nell’équipe che organizza Dolcevita-sur-Seine*, una festa del gemellaggio tra Parigi e Roma che si manifesta attraverso un festival di cinque giorni dislocato all’Istituto Italiano di Cultura, alla Maison d’Italie, alla Mairie del 9° arrondissement, in alcune sale cinematografiche ma, soprattutto, lungo la Senna. Mi occupo principalmente di aspetti logistico-organizzativi e dei viaggi degli ospiti ma, di fatto, faccio un po’ quel che mi viene chiesto, tipo cambiare i colori dei loghi o impaginare un programma ad uso interno degli sponsor o correggere le traduzioni automatiche del sito. Sia quel che sia, so che mi aspetta un mese intenso ma è da mesi che aspetto un mese intenso e sono contenta di andare a letto finalmente stanca. Soprattutto, sto collaborando a qualcosa che mi piace, a qualcosa in cui mi sento parte di un tutto e non assistente di un unico. Infine, sto facendo un lavoro in cui mi sento di utilizzare competenze che ho acquisito lavorativamente in passato ma in cui ci sono anche tante cose da imparare e mi sembra di avere un senso. Non che fare la babysitter non ne abbia, adoro Elio, quando guardo le foto o i video di lui che ho sul cellulare mi squaglio quasi fosse figlio mio, mi ha salvata quest’inverno, ma mi rendo conto che il mio posto lavorativo, quello in cui mi sento più completa, non è coi bambini e ho bisogno di parlare anche con gli adulti. Cosa che peraltro faccio quando porto Elio ai giardini: lui sparisce a giocare con gli amici e io mi ritrovo a chiacchierare con gli altri genitori. Ma non è la stessa cosa, manca quell’obiettivo comune da raggiungere.

A Parigi continua ad essere estate, quando esco continuo a vedere almeno tre donne che indossano capi di abbigliamento che vorrei possedere, quel che mi circonda mi piace ma io ancora non ho voglia di vivere tutto ciò da sola. O più che non avere voglia, ho difficoltà. Sono un animale molto più sociale di quanto non pensassi e quando venerdì mattina sono andata al Pôle Emploi credendo di avere un appuntamento con la mia consigliera e invece mi son trovata in un evento di gruppo, mi è dispiaciuto dover andar via prima perché avevo una giornata di lavoro Dolcevita-sur-Seine che iniziava poco dopo. Ho una sorta di sete atavica di novità, di conoscenze, ma ho anche un’altrettanto atavica pigrizia.
Per circa 6 mesi sono stata in un mondo parallelo in cui potevo essere un po’ ovunque (niente aveva particolare senso a prescindere dal dove) però non ho mai realmente messo in dubbio la mia voglia di restare. Ogni volta che pensavo di tornare in Italia mi dicevo “sì, ma a fare cosa?”. Parigi mi piace, sarà che non ho ancora vissuto la metro tutti i giorni per andare a lavorare ma io cammino per strada e son contenta di essere qua, continua a sembrarmi una città dalle molte possibilità. Ovviamente mi capita spesso di chiedermi come sarebbe stato se non fossi stata mangiata dal lutto, che Parigi conoscerei, cosa starei facendo. Però so anche che sono domande senza risposta e che non posso fare altro che vivere la vita che sto vivendo nel presente, precaria, spesso solitaria, qualche volta triste, ma ancora con quella sensazione di essere la persona che voglio essere, nel luogo in cui voglio essere, circondata da persone da cui ho voglia di essere circondata. In una sorta di paradosso, trovo anche estremamente affascinante tutto il percorso personale che ho dovuto fare, il prima e il dopo, una sorta di bignami della gioia e del dolore a cui nessuno è realmente preparato e che si può capire solo se lo si è attraversato.

Ora che riprendo a scrivere è lunedì, ho il pranzo sul fuoco e Elio che mi attende nel pomeriggio ma io so che mi porterò il computer e mentre lui suona o gioca, io lavorerò. Il colloquio di giovedì (era il terzo e finale) è andato bene ma non benissimo nel senso che è stata preferita un’altra candidata ma non perché io non fossi adatta, semplicemente i selezionatori hanno pensato che la prescelta avrebbe avuto bisogno di meno tempo di me (e della terza persona ad essere arrivata fino in fondo) per essere pienamente operativa, soprattutto per quanto riguarda la comprensione del milieu culturale e politico in cui si dovrebbe svolgere il lavoro. Considerando che io conosco molto bene quello italiano ma meno bene quello francese, non mi sento defraudata di qualcosa e penso che sia stato un piacere arrivare fino all’ultima tappa perché per prepararmi al colloquio ho scoperto cose che non conoscevo, ho finalmente visto un film che una delle mie zie consigliava a chiunque quando uscì e poi perché posso sempre dirmi di essere arrivata ad un passo dall’essere l’assistente personale di Yann Arthus-Bertrand che non è l’ultimo arrivato. E poi, in futuro, non sia mai che si apra qualche altra posizione all’interno delle sue varie attività, col direttore della sua casa di produzione cinematografica ci siamo salutati in ottimi termini.
Quindi per ora lavoro sul festival, consapevole che è un lavoro temporaneo ma sto mettendo comunque tasselli per il futuro, per riabituarmi a lavorare dopo un anno e mezzo di inattività e per farlo in un ambito in cui probabilmente posso esprimere tutto quel che già so fare e imparare quel che ancora non so fare. Poi, un po’ come nel fil rouge di quest’anno, da cosa magari nasce cosa e, se non altro, il mio curriculum inizierà ad avere un’aria molto più appetibile e operativa rispetto al passato. Il vero problema ora però è: cosa mi metto per il cocktail in Ambasciata?
* La traduzione in italiano è stata fatta automaticamente da un software, datemi il tempo di controllarla e correggerla
Grandissima Fra andrà benissimo! Ti stai imbarcando su un carrozzone folle ma tu hai già fatto tanta strada in condizioni ben peggiori. Evviva!
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“Carrozzone folle” con tutta l’accezione positiva del caso, non potrei definirlo altrimenti! Ma mi piace e credo sarà difficile annoiarsi quindi… andare!
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Ma il cocktail in ambasciata quand’è?
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Tra un mese
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