In Francia, a maggio, le settimane sono praticamente tutte corte. Si comincia con il primo maggio, l’8 c’è la festa della Vittoria, si prosegue con il giovedì dell’Ascensione e si finisce con il lunedì di Pentecoste. Per un paese che ha fatto la rivoluzione, confesso una certa perplessità di fronte alla celebrazione di due festività cristiane inesistenti nella cattolicissima Italia. A dire il vero Ascensione e Pentecoste, essendo legate alla Pasqua, sono feste mobili che però nel 2023 hanno fatto sì che a maggio l’unica settimana pienamente lavorativa sia stata quella da lunedì 22 a domenica 28, ogni altra settimana di maggio ha avuto un giorno di festa. Addirittura, poiché 1 e 8 maggio cadevano di lunedì, il calendario ha dotato i francesi di un maggio con tre fine settimana lunghi e un ponte.

Scrivere oggi è cedere di fronte al mostro della procrastinazione perché dovrei preparare un colloquio ma è da giorni che mi sento tornata in una sorta di turbine vacuo in cui la vita mi attraversa senza lasciare particolare traccia e tutto ciò di cui ho reale ricordo è una grande confusione mentale e una forza invisibile che mi trascina verso terra. Mi chiedo se la prospettiva dell’imminente concerto di Springsteen non abbia in qualche modo drogato il reale stato delle mie questioni interne. O forse semplicemente devo mettermi il cuore in pace e il tempo passato non è ancora del tutto sufficiente.

Sarà che questa settimana, dopo cinque mesi di silenzio, ho approfittato del suo compleanno per riprendere contatti con una delle amiche di Morgane e, anche se per ora non mi ha risposto, ha riaperto una crepa (quella dei contatti con chi la conosceva davvero) che avevo tenuta sigillata in questo 2023. Sarà che ho avuto voglia di rileggere la cascata di parole in cui descrissi minuziosamente le quindici ore più assurde della mia vita finora o sarà che ho sfogliato le pagine del mio diario personale dei mesi che hanno seguito quelle ore. Sarà quel che sarà, questa settimana ho avuto la testa nuovamente quasi esclusivamente lì. Soprattutto, dopo una tre giorni italiana piena di vita e di persone, tornare a Parigi mi ha risbattuto in faccia che sono un po’ sola. Fortunatamente non rientro nel campo degli estroversi e ho un rapporto di antica conoscenza con la solitudine che non mi turba di per sé, alla lunga però diventa alienante e sento molto la mancanza di un gruppo di persone con cui andare a fare picnic nel parco a parlare di niente o sedermi al tavolino di uno degli infiniti tavolini che mi chiamano. Mi sa che sono un po’ un Ulisse al contrario che vorrebbe dei compagni di traversata che gli togliessero i tappi dalle orecchie. E certo, potrei anche sedermi da sola, l’ho fatto tante volte negli anni, è stato così che con Morgane ci siamo conosciute: io ero seduta da sola a un tavolino fuori, lei è uscita dal bar, mi ha vista lì, mi ha fatto una battuta ed è diventata la prima persona che ho conosciuto a Parigi. Ci sono giorni, però, in cui richiede più forza di altri e questi sono proprio quei giorni lì.

A Parigi intanto è arrivata l’estate. Quando sono rientrata martedì sera avevo l’impressione di essere tornata indietro di una (mezza) stagione col mio foulard assolutamente inadeguato, domenica invece indossavo pantaloni di lino, maniche corte e, camminando a passo svelto causa ritardo, sono arrivata a destinazione puntuale ma sudata e accaldata. Inutile dire che le terrasses sono affollate, i giardini pure e io sono contenta perché la biancheria mi asciuga in tempi civili. Quel che mi rende meno felice (a parte le cose realmente infelici di cui ho scritto nel paragrafo precedente) è lo stato del mio guardaroba: non ho niente da mettermi e mi sembra tutto così privo di personalità, per non parlar poi delle scarpe, mio vero punto debole da una vita. Quando esco invece vedo donne con abiti che vorrei indossare, scarpe che vorrei portare, mi chiedo dove li hanno comprati, quanto costano ma, soprattutto, saranno comodi?

Quel che sembra comodo per molti a quanto pare, invece, è usare il marciapiede come sputacchiera. Mi dicono essere un’usanza magrebina e su questo confesso che gradirei davvero un acclimatamento vero alla tradizione locale che non prevede lo scaracchio per strada.

Il rientro in Italia è stato breve ma intenso. Intanto la mia preoccupazione maggiore era come arrivare da Fiumicino a San Pietro atterrando poco prima delle 23 e non il fatto di trovarmi a 35mila piedi e senza il controllo dell’aereo. Il volo è avvenuto principalmente sopra una distesa di nuvole dorate, poi via via che ci spostavamo a est sono diventate scure come la notte. Quando in fase di atterraggio siamo scesi sotto l’orizzonte delle nuvole e ho potuto scorgere per la prima volta l’Italia sono stata presa da uno struggimento intenso. Che poi, era buio, probabilmente stavamo sorvolando Civitavecchia, ma per me non era questione di città o regione, per me era questione di paese e sotto di me c’era il suolo natio. Più tardi ho chiesto a mia sorella, che ormai vive all’estero da quasi 14 anni, se anche a lei fa questo effetto tornare. Mi ha risposto che lo ha fatto per i primi anni, poi ha realizzato che ormai la sua vita era definitivamente altrove e ha smesso. Devo dire che, al di là di quegli ultimi 15 minuti prima dell’atterraggio, più che uno struggimento ho provato un senso di essere in un altrove un po’ nebuloso a metà strada fra l’Italia e la Francia ma, un po’ come per mia sorella, per ora la mia vita, famiglia e amici a parte, è a Parigi. Anche se, confesso, trovare la pasticceria con le paste a 50 centesimi, buone, proprio come piacciono a me, e sapere di non avere il suo corrispettivo qui è stato doloroso.

Prima di chiudere con questo post molto poco parigino due parole su Bruce Springsteen. Viste le polemiche sul concerto di Ferrara, quel che mi sento di dire è che le ho trovate un po’ pretestuose e che qualunque cosa avesse detto o fatto sarebbe stata usata contro di lui in qualche modo. Sulla questione dell’incasso da devolvere penso che Springsteen sia un uomo solo, non può salvare tutti gli ultimi della terra. Un po’ come io non posso salvare ogni mendicante per strada. A volte si salva qualcuno, a volte si sceglie di salvare qualcun altro, ci può stare che questa volta abbia scelto qualcun altro. Conoscendo i concerti di Springsteen, però, so che sono una festa e che non c’è più incredibile celebrazione della vita come quella che c’è ai concerti del Boss e a volte serve anche quello.

Confesso che avendo letto che, a differenza del solito, la scaletta era più o meno immutabile a ogni data, ero un po’ preoccupata, mi piaceva l’effetto sorpresa degli ultimi tour a cui ho partecipato, quel non sapere mai se avrebbe finalmente suonato quella canzone che attendo da sempre. Però Bruce è Bruce e come l’ho visto comparire sul palco sono entrata anche io in quel turbine quasi sciamanico durato tre ore. Springsteen e la E Street Band capire tu non puoi se non li hai visti mai in concerto e il Boss è un vero Boss capace di mettere in risalto ogni membro del suo gruppo consapevole che insieme valgono molto di più. A fine concerto, prima di rimanere solo per l’ultimo brano, ha salutato i musicisti uno per uno, come un vero capitano. Ho fatto alcuni video del concerto ma più su richiesta che su reale voglia e credo che nessuno superi il minuto/minuto e mezzo perché poi pensavo sempre “ma che me ne frega di fare questo video, voglio vivere il concerto”.

La parte finale dello spettacolo, dedicata ai veri classici, è stata commovente (il senso di comunità della prima strofa di Thunder Road lasciata cantare al pubblico) e gioiosa con i grandi schermi che alternavano immagini di quel che succedeva sopra e, soprattutto, sotto il palco, i volti degli spettatori abbandonati ad una felicità libera e liberante. Ho cantato, ho saltato, ho riso, ho pianto (galeotta fu Backstreets e il sentirmi nuovamente a Johannesburg, anni 9 probabilmente, a cantar parole di cui capivo solo la musicalità ma non necessariamente il significato), ho partecipato, ho avuto Springsteen a pochi metri da me e credere che potesse guardare proprio me in mezzo alla folla mi ha fatta andare in totale fibrillazione. Sono state tre ore in cui Springsteen ha cantato la gioia, il dolore, l’amore, la morte, i sogni, in fin dei conti la vita. E nonostante un inizio di post un po’ tristanzuolo, il verso che mi accompagna da una settimana proviene dall’ultima strofa di Badlands.

For the ones who had a notion
a notion deep inside
that it ain’t no sin
to be glad you’re alive

Per quelli che hanno una certezza,
una certezza dentro di loro
che non è peccato
essere felici di essere vivi

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