A Parigi piove pressoché incessantemente da settimane. Ogni tanto vengono concesse non più di 24 ore di seguito asciutte ma, come leggevo ieri su Le Monde, in Francia la pioggia caduta tra il 18 ottobre e il 16 novembre ha raggiunto livelli record sui trenta giorni e l’unico modo per affrontare questo meteo avverso è la quieta rassegnazione per cui la vita continua anche sotto la pioggia.

Situazione mattutina in stazione, la densità di persone era la stessa lungo l’intera banchina

Io, di fronte a pioggerelline lievi, lascio l’ombrello nello zaino, soprattutto se la metropolitana mi aspetta onde evitare di avere un ulteriore ingombro in vagoni spesso traboccanti perché a volte anche il mio solo corpo pare essere un ingombro. E non perché sia particolarmente ingombrante ma perché nelle ultime settimane, quando per motivi meteorologici non ho preso la bici, ho vissuto situazioni al limite della decenza. Tipo riuscire a salire (con difficoltà) solo sul terzo treno entrato in stazione. Oppure assistere a quasi svenimenti per il troppo caldo e le troppe persone. O che dire delle spinte per salire su treni già stracolmi creando teatri dell’assurdo di lamentele, stupore, interazioni tra lo sconcertato, il comico e l’innervosito e la capacità di stringersi sempre un po’ di più di quel che si credeva possibile. Ma così va la vita in questa città per cui bisogna armarsi di pazienza e di quel senso di inevitabilità per cui l’unica cosa da fare è respirare e aspettare di arrivare alla stazione in cui, se non scendi tu, scende buona parte del vagone.

Più passo del tempo a Parigi e più mi rendo conto di quanto venga da una città (ma forse da un paese) provinciale. Un paio di settimane fa ho avuto una cistite molto fastidiosa. Talmente fastidiosa che, dopo una notte pressoché insonne, ho deciso fosse opportuno vedere un medico al più presto. Non ho un medico curante qua (sono ancora in una sorta di limbo sanitario per cui aspetto notizie dall’Assurance Maladie a cui ho mandato i documenti che mi richiedevano circa un mese fa) ma attraverso l’applicazione Doctolib ho potuto prenotare una visita alla cifra di ventisei euro e cinquanta. Ovviamente il medico è stato scelto a caso e solo in base alla disponibilità in giornata e alla compatibilità con i miei orari di lavoro. È stato così che mi sono ritrovata a Belleville, in uno di quei palazzoni post guerra anonimi e dall’aria trasandata. Lo studio medico sembrava uscito dagli anni ’70, come se il dottore non avesse cambiato niente da quando lo aveva aperto per la prima volta dopo l’abilitazione. La sala d’attesa con la moquette per terra, i colori tristi, poche riviste, non c’era niente del clima asettico che ci si aspetta da uno studio medico. Il dottore è uscito poco dopo per chiamare la paziente in attesa prima di me. Con la sua barba bianca, la sua kippah, sembrava un rabbino dallo sguardo dolce di un nonno. Sono rimasta sola nella sala d’attesa per pochi minuti prima che arrivasse una paziente che, ho scoperto dopo, lo conosceva da quarant’anni. Le due che invece l’hanno seguita avevano l’aria sperduta di chi, come me, aveva scelto a caso sulla base di luogo, orario e disponibilità di un appuntamento. La visita è stata breve, cordiale, gentile come ci si aspetterebbe da un medico e terminata con una ricetta che sono andata a depositare in una farmacia in cui due farmaciste su tre erano cinesi. Credo che il mio candido stupore di fronte a questo giro del mondo medico sia stato indice del mio provincialismo per cui una cosa che qui è normale a me, abituata all’autarchia medica che ho sempre conosciuto a Firenze, è sembrata esotica.

Quando ho iniziato a lavorare in un ufficio con la tastiera francese, l’ho subito odiata. Dopo quasi tre mesi la situazione forse è peggiorata perché non ho ancora la rapidità che ho sempre avuto su quella italiana ma in compenso, quando torno a casa e uso il computer con la tastiera italiana, ho bisogno di un po’ di tempo prima di recuperare gli automatismi. Al di là di questo conflitto perdurante con la tastiera però, il lavoro procede bene. Ci sono, certamente, un infinità di particolari da imparare ancora ma più passa il tempo e meno mi sento un’ospite nei corridoi della Maison de l’Italie.

Se la scorsa settimana era stata un po’ sottotono, questa che si appresta a finire ha avuto decisamente pochi tempi morti, a partire dalla domenica sera che l’ha preceduta.

Ho conosciuto Morgane ad uno dei tavolini esterni del Bar’Ouf un sabato di inizio agosto 2022. Mi ero seduta a quel bar perché di fronte a quello accanto in cui volevo davvero andare, La Mutinerie, le donne mi sembravano tutte vestite troppo bene, delle vere tipe giuste, mentre io stavo combattendo contro il mio disagio e la paura di entrare da sola un sabato sera in un locale lesbico. Le avventrici del Bar’Ouf mi sembravano più rilassate e avevo trovato il coraggio di entrare. Da quando è morta Morgane ho evitato quel tratto della Rue Saint Martin in ogni modo. Solo nell’ovatta delle 48 ore che hanno seguito il decesso sono riuscita ad entrare con due amiche e prendere una birra. Nei mesi successivi, le poche volte che mi sono avvicinata, il mio stomaco ha iniziato a ribellarsi. Domenica sera, invece, ho visto un’amica che mi ha proposto due luoghi queer in cui vedersi: uno era chiuso e l’altro era lontano. Io ho suggerito La Mutinerie che invece sapevo essere aperta di domenica. Così ci siamo viste per una birra in quella parte di mondo che per un anno mi ha angosciata e che da una settimana è tornata ad essere una parte di mondo con un ricordo ma in cui poterne costruire di nuovi.

Sto decisamente meglio da quel punto di vista lì e ormai ci sono giornate in cui pensare a Morgane quasi mi sorprende. Non tutte, ma alcune sì. È però anche vero che non tutte le giornate sono neutre ancora e può capitare di vedere degli infermieri che si occupano di una persona che ha avuto un malore in stazione e di passare accanto cercando di bloccare la visione esattamente come ho fatto nelle ore trascorse a casa di Morgane ogni volta che la coda dell’occhio cadeva sul suo corpo steso a terra.

Oppure può capitare di trovarmi alle Lilas, di passare davanti alla casa in cui abitavo quando Morgane è morta, di soffermarmi sull’albero di Liquidambar che ho guardato dalla mia finestra per tutto l’inverno e risentirmi per un attimo dov’ero un anno fa, proferendo qualche parolaccia tra me e me di fronte al ricordo.

Oppure può capitare come oggi di approfittare di una rara domenica di sole dalle temperature quasi primaverili per andare al bois de Vincennes e, come ogni volta, camminare un po’ a caso ma arrivare comunque in alcuni dei luoghi in cui eravamo state insieme a Morgane, il suo cane e altre due amiche, e improvvisamente rivedere alcune scene di quel pomeriggio di agosto prendere vita davanti a me. Perché va meglio, certo che va meglio, ma alcuni passaggi sembrano proprio incisi nella memoria inconscia, pronti a prendere vita anche in una giornata di sole alla fine di una settimana piena di vita.

Settimana di vita che mi ha vista alternarmi tra bar queer scarsamente illuminati e dal pavimento in cemento, eventi (alcuni lavorativi, altri no) al Consolato generale d’Italia, alla Maison de l’Italie e all’Istituto italiano di cultura, babysitteraggi serali last minute, per arrivare al venerdì con l’unico desiderio di andare a letto e dormire senza limiti.

Prima di chiudere l’ennesimo post più lungo di quanto avrei pensato, una conferma che mi ha rimesso un po’ nei ranghi: la polizia fa le multe anche ai ciclisti. È capitato una mattina sul Petit-Pont-Cardinal-Lustiger, appena dopo la prefettura e di fronte a Notre Dame, la pista era occupata da due poliziotti che fermavano ciclisti che, se ho ben capito, avevano ignorato il semaforo rosso 50 metri prima. Semaforo che, a dire il vero, è molto facile bucare visto che la strada sulla destra è un senso unico da cui non ho mai visto arrivare macchine. Io, da brava cittadina, mi sono messa ordinatamente in fila salvo poi realizzare che potevo fare come tutti quelli che stavano passando dopo di me: potevo evitare la pista ciclabile per quei pochi metri e ringraziare il fatto che io a quel semaforo mi ero fermata, ero solo ripartita appena prima che diventasse verde ma la signora, che era già in corsa, è passata prima di me.

E così se ne sono andate altre due settimane a Parigi, la città dei miserabili che ormai ti sei fatta una maledetta corazza di indifferenza perché sennò è impossibile arrivare a fine giornata ma anche la città in cui esistono gruppi Facebook in cui vengono vendute delle scarpe a 580 euro (ma lei le ha pagate 695 e ci ha messo anche 100 euro di lavori extra) come se fosse normale spendere quelle cifre per delle scarpe. La città in cui c’è credo almeno una manifestazione a settimana a cui non partecipo quasi mai ma quella del prossimo sabato contro la violenza sulle donne non voglio perderla neanche sotto il diluvio perché, anche se non lo scrivo sui social, sono sempre più piena di rabbia.

3 pensieri riguardo “Sous le ciel de Paris / 40

      1. Anche io comincio ad abituarmi al grigio del cielo belga. L’unico mese che mi scombussola ancora è novembre. troppo grigio e nero allo stesso tempo. Grazie per la risposta!

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