Ora che inizio a scrivere sono in attesa che arrivi l’ora per iniziare il lungo viaggio che mi porterà all’aeroporto di Orly da cui decollerò in direzione Roma dove domani mi attende il concerto di Bruce Springsteen al Circo Massimo.
Al momento sono in casa mia dopo aver passato un paio di notti a casa dei genitori di Elio che, in pratica, da quando sono qua si stanno occupando di me e io di loro e della loro famiglia: nella lunga lista di cose improbabili per chi mi conosce che mi son trovata a fare nell’ultimo anno e mezzo posso aggiungere anche la cat-sitter. Nella loro casa con giardino, in una Parigi primaverile e soleggiata, mi sono sentita quasi in villeggiatura. Bicchiere di vino in mano, Jeff Buckley in vinile, una casa luminosa e dagli spazi aperti, il silenzio totale notturno, ho pensato che non fosse male questa vita. Ho però anche realizzato quanto sia importante per me stare in città in questo momento: i rumori della città mi fanno compagnia.
Ieri sera, prima di dormire, ho sfogliato l’ultimo numero di Sotto il vulcano, la rivista letteraria curata da Marino Sinibaldi che conteneva una sezione dedicata ai sopravvissuti ad opera di Paolo Giordano. Il tema dei sopravvissuti mi interessava molto, è quello che mi sono sentita per tutto l’inverno, ed è stato curioso e rassicurante leggere l’introduzione di Giordano e ritrovare sensazioni simili alle mie benché lui parlasse del suo rapporto di sopravvivenza rispetto alla pandemia da Covid-19 mentre io quella l’ho quasi dimenticata vista la vita che ci ho costruito intorno e mi sento una sopravvissuta al lutto. Giordano raccontava la perdita di pudore legata allo stato di sopravvivenza, io mi sono trovata spesso a riflettere sulla mia tendenza a dire forse più del dovuto, oversharing direbbero gli anglofoni, come se avessi perso la barriera della vergogna delle mie debolezze, dei miei segreti, un po’ di tutto. Mi ha un po’ confortato scoprire che anche questo, probabilmente, era normale.
Per mesi ho raccontato quello che mi era successo senza alcun filtro praticamente a chiunque, come se un’entità autonoma avesse preso il controllo di quel che dicevo. Da qualche settimana, invece, ho perso quel bisogno di dirne qualcosa in qualunque conversazione, riesco a mantenermi su un vago “inverno difficile” e solo a domanda ineludibile rispondo. Durante il colloquio che ho fatto dieci giorni fa ho parlato come se quest’inverno non fosse mai esistito, non mi è stato chiesto quando sono arrivata a Parigi e cosa abbia fatto nel frattempo, io non ho sentito alcun bisogno di raccontarlo. E anche quando ne parlo perché le domande che ricevo un po’ rendono difficile scansare l’argomento, ho iniziato a valutare il contesto prima di decidere se restare vaga o meno. Quando mi trovo a parlarne apertamente, mi sento spesso a disagio per chi deve ascoltarmi parlare di una morte così assurda. Con tutto questo non voglio dire che ho cancellato Morgane, mi capita ancora di rivedere o pensare ad alcuni momenti, ma se prima tutto ciò provocava uno spostamento d’acqua pari ad un masso lanciato in uno lago, adesso sono solo gli schizzi di pietre più leggere a schiaffeggiarmi.

L’ultima settimana è stata allo stesso tempo rilassante e movimentata. Sabato scorso ho fatto una di quelle cose capaci di rendermi piuttosto fiera di me stessa: sono andata fino a Montreuil a sentire un concerto da sola. E sì, ok, sono andata a recuperare di persona i numeri di telefono degli organizzatori della serata, conoscevo sia il musicista in apertura di serata (Alessandro D’Alessandro) con cui ho chiacchierato con piacere sia prima che dopo, sia la figlia di mia cugina che lavorava alla cassa della parte gastronomica e che nelle pause poteva darmi relazione, però uscire da sola il sabato sera continua a sembrarmi un atto piuttosto coraggioso. Come coraggiosi (ma forse è una questione culturale) mi son sembrati quei genitori che si sono portati i figli piccoli appresso alla Marbrerie di Montreuil dove hanno potuto mangiare e ascoltare italiano per la serata, con attenzione, con rispetto, con curiosità, con partecipazione.
Uscire il sabato sera con la metropolitana mi crea sempre una sorta di confusione temporale perché sui treni, nelle stazioni (soprattutto quelle di interscambio), è mezzanotte ma il numero di persone in giro è tale che pare giorno. Ovviamente mi rassicura di più l’affollamento notturno rispetto alla solitudine e penso che avere la libertà di spostarsi la sera senza dover prendere un mezzo proprio sia impagabile.
Di impagabile c’è anche il profumo delle boulangerie quando ci passo davanti, loro son sirene e io un Ulisse coraggioso che passa avanti senza cedere alle tentazioni.

Il tempo in Ile de France è stato probabilmente più clemente di quello in Italia. A parte una giornata infame lunedì, gli altri giorni sono stati primaverili ed io ho potuto esplorare la Butte Bergeyre, una collinetta che pare un mondo a parte, con le sue strade silenziose e la collina di Montmartre in lontananza. Mi sono poi allungata verso il parco delle Buttes Chaumont che in una domenica pomeriggio di sole non poteva che essere affollato di famiglie con bambini, amici a fare picnic nell’erba, coraggiosi corridori che mi chiedo la fatica mentale di correre dovendo scansare la folla.
Mi sono nuovamente trovata a giocare a calcio con un babbo, Elio e altri bambini al parco e i loro occhi spalancati, i meravigliati “mais vous êtes forte, madame”, gli azzardati paragoni con Cristiano Ronaldo e un Elio che mi chiede eccitato se posso insegnargli a giocare, sono valsi tutta la paura di inciampare nell’erba troppo alta e nei vestiti da mettere a lavare anzitempo. Mi piace l’idea che i bambini di dieci anni di oggi sappiano che anche le signore sanno giocare a calcio. Quando il giorno dopo sono andata a prendere Elio al Centre des Loisirs, avevo le mie scarpe da calcetto e un pallone, ci siamo fermati al campo da calcetto aperto ed è stato buffo, poche ore dopo, vederlo spiegare a un amico gli stessi concetti che gli avevo insegnato io prima.
Nell’ultima settimana mi pare di aver vissuto varie vite possibili: quella che esce da sola il sabato sera, quella che comincia le procedure per diventare auto entrepreneuse, quella che rimane al coro di genitori e figli cui partecipa Elio per aiutarli a perfezionare la pronuncia di “Bella ciao” inviando poi dei precisi messaggi vocali perché si esercitino a casa, quella che chiacchiera coi genitori degli amici di Elio al parco, la cat-sitter che però fa le foto come una gattara qualunque, quella che va a correre al parco perché la pista di atletica è chiusa, la lavoratrice nella logistica di un festival, la passeggera di aereo, la fan.
Nell’ultima settimana ho nuovamente realizzato quanto io non sia più solo “quella cosa che mi è successa” ma anche e soprattutto tutto il resto.