Una caduta a causa dei marciapiedi scivolosi di Parigi non è questione di se, è questione di quando, ne sono sicura. Ho ormai perso il conto delle volte in cui le suole delle mie scarpe hanno glissato più velocemente di quanto non avessi previsto mentre mi muovevo per la città. Non saprei dire se sono le scarpe lisce, la reazione tra pioggia e marciapiedi di Parigi o il semplice fatto che non ho mai camminato così a lungo in città bagnate avendo sempre beneficiato di una macchina o di un motorino per muovermi, fatto sta che la mia propriocezione è spesso messa in dubbio e, considerando i chilometri che macino a piedi, aspetto il momento in cui dovrò rialzarmi umida e sporca da terra.

Quando mia sorella si trasferì a Londra raccontava che andava in università a piedi tutti i giorni, in fondo non era così lontano, con una quarantina di minuti se la cavava. Ai tempi ricordo il mio sconcerto davanti a tempi di percorrenza che mi parevano infiniti, adesso quaranta minuti a piedi per me indicano un luogo vicino e mi trovo a percorrerli spesso nel corso della settimana.
Camminare ha i suoi vantaggi, non solo economici o salutari, camminare è anche il modo migliore per scoprire nuovi angoli, capire la geografia della città, le reali distanze tra i luoghi e la crescita urbanistica tutta peculiare di Parigi che ha seguito un andamento a guscio di chiocciola. Di fatto Parigi è un’unione di agglomerati pre esistenti che mantengono la loro identità: se vivi in un quartiere, la tua vita finirà per svolgersi tutta lì dentro, anche se prima abitavi in un quartiere di poco distante. La cosa che mi colpisce in particolar modo è il senso dei francesi per i mercati alimentari: ogni quartiere ha il suo, nelle piazze, nei giardini in mezzo ai grandi boulevard, il mercato mi sembra quasi un rito. Uno dei meno cari della città è quello di Belleville e, a quanto pare, ci sono persone in fila a sgomitare già mentre i commercianti montano i loro stand.
Come ho già scritto più volte, Parigi non è solo la città della Tour Eiffel, degli appartamenti bohémien, dello charme di cui l’hanno rivestita anni di cultura popolare, Parigi è anche la città dei miserabili. Mi diceva la mamma di Elio che loro hanno abitato tanti anni nei quartieri più popolari di Parigi prima di spostarsi alle Lilas e che uno dei motivi era che era diventato difficile vedere tanta miseria quotidianamente senza poterci fare niente. Mi ha raccontato che quando qualche anno fa ci fu una grossa ondata di immigrazione e di accampamenti in città, loro andarono ad aiutare ma che poi l’impressione era di svuotare l’oceano con un secchiello e non tutti hanno lo spirito di abnegazione necessario per non demoralizzarsi.
Capisco bene la sensazione: nel percorso tra casa mia e Les Lilas incrocio quello che dorme a poche decine di metri dal mio portone, quello accanto alla boulangerie, quello di fronte ad un’agenzia immobiliare, l’altro fisso davanti al McDonald’s, la famiglia con vari bambini probabilmente Rom in luoghi vari della via principale delle Lilas. E poi ci sono quelli che non vedo perché sono dall’altro lato della strada, o quelli che si vedono ogni tanto, la signora contenta di ricevere 20 centesimi e una barretta alle noci e miele, l’altra a cui dare cibi abbandonati da ex inquilini ancora buoni e sigillati, quella a cui comprare un pezzo di pane. Poi ci sono le persone mangiate dal crack, i genitori coi bambini piccoli sulla metro, giovani, anziani, coi loro cartelli, i loro annunci a voce alta a tutto il vagone. La miseria di questa città mette davvero a dura prova.

Per la miseria di molti, la mia vita, invece, pare riprendere un percorso meno accidentato e anche questa settimana, nonostante poco sole e molto umido, mi ha vista più nel mondo dei vivi che in quello dei sopravvissuti. Sono riuscita finalmente a scrivere un discorso che mi soddisfi per un matrimonio a cui non potrò partecipare, a finire la revisione di un libro in attesa dell’ultima rilettura post accettazione dei miei commenti da parte dell’autrice, a fare un colloquio un po’ improvvisato come assistente personale per un nome grosso e che mi piacerebbe molto, ad addormentarmi stravolta dalla stanchezza dopo una giornata infinita, a iniziare una piccola collaborazione sulla logistica di un festival che dopo la prima riunione avevo la testa che mi scoppiava dalla quantità di informazioni ma che voglia di capire e partecipare, a invitare un’amica a casa, ad accarezzare il karma aiutando una sconosciuta in difficoltà a portare il suo pacco pesante e ingombrante fino a casa, a parlare estensivamente con i genitori degli amici di Elio al parco, a leggere infinite pagine di contratti bancari per scegliere con chi aprire un conto in Francia, a decidere di aprire la partita Iva locale (che non ha praticamente niente a che fare con quella italiana), a iniziare a reperire i documenti per la procedura di iscrizione all’Aire e ufficializzare la mia presenza Oltralpe.
Al momento è ancora tutto mescolato in un calderone e magari si tratterà di sbarcare il lunario ancora per qualche mese, ma mi sono messa in deciso movimento. Sarà che la prossima settimana farò un passaggio di 48 ore in Italia per di più per il concerto di Bruce Springsteen, sarà che il tempo cura davvero, ma sono dieci giorni che mi sembra di essere tornata “quella di prima”.
Rispetto a prima, però, so anche che sono stata in grado di superare il mio inverno (s)perduta in terra straniera.
