Mi interrogo spesso sul senso di scrivere questo blog, a parte dare ai miei genitori, a mia sorella e ai miei manzoniani lettori notizie che spesso già sanno. Anche se qui magari sono scritte meglio rispetto a una frettolosa chat. Quando ho iniziato a scrivere, a fine luglio, l’idea era di raccontare la scoperta della città; col tempo, invece, questo blog è diventato una sorta di diario in cui racconto molti più stati d’animo di quanto previsto all’inizio. Non li racconto tutti e anche quelli che racconto sono spesso edulcorati ma, col passare dei mesi, il contenuto mi pare più incentrato sulle mie riflessioni e su di me, che per l’appunto mi trovo a Parigi, e non su me a Parigi. È una distinzione sottile e credo legata soprattutto alle circostanze, ma c’è. Nonostante lo scostamento tra idea iniziale e idea in itinere però, prendo tutte le parole che ho riversato su queste pagine virtuali come un modo per tenere traccia di quel che è stato questo tempo perché certe cose, quando le vivi, manco te ne accorgi, è solo guardandoti indietro che vedi l’entità del percorso.

Qualche giorno fa ho riletto i post di agosto, volevo ricordarmi come avessi descritto il mio primo incontro con Morgane (non ne scrissi pressoché niente) e come avessi invece raccontato il pomeriggio al bois de Vincennes (la ragazza brillante e rapida di pensiero cui accennavo era proprio lei, e pure quella che si fece fotografare a seno scoperto). Però mi sono presa il tempo di leggere anche il resto delle mie prime settimane parigine e quel che mi ha colpito è quanti passi avanti abbia fatto da allora, quanto sia meno spaesata, quanta sicurezza abbia acquisito nel muovermi (in senso letterale e figurato). Mi sono sentita quasi angosciata rivedendomi tramortita dal Covid a Bussy-Saint-Georges, oppure pensando a tutto quello che dovevo ancora imparare. Eppure allora non ricordo questa stessa pesantezza, so che non era facile ma sapevo anche che non potevo fare altro che avere pazienza e guardare al giorno per giorno. Mi sembra quasi più faticoso pensare di rifare tutto adesso che aver già fatto tutto quel che ho fatto. Ma forse la vita è questa cosa qui, una serie di piccoli passi che solo guardandosi indietro assumono la loro reale dimensione.

Ho anche rivisto alcune foto di me nelle prime settimane dopo la morte di Morgane e mi sono chiesta come fosse guardarmi per gli altri. Sapevo di essere triste ma non pensavo di avere così dipinto in faccia quel senso di sgomento totale in cui versavo. Di fatto in alcune di quelle foto vedo un corpo senza vita. Non in tutte ma ce ne sono alcune che mi hanno proprio trasmesso lo stesso stato di sospensione e vuoto di allora.

Ma basta con l’immancabile momento lutto e vengo a Parigi, alla mia casa che chiamerò “la fabbrica della polvere” per la velocità con cui si produce e che mi rende folle per quell’aria di sporcizia senza soluzione, incurante della quantità di volte in cui passo l’aspirapolvere (ma a quanto pare la proliferazione della polvere è un problema di questa città). Alla mia casa in cui il silenzio serale è previsto per domenica e lunedì, in cui da martedì a giovedì le persone lasciano i bar intorno alla mezzanotte e il fine settimana in cui prima delle due non se ne parla. Alla mia casa in cui, al posto delle allodole, alle 8 c’è il martello pneumatico dei lavori del gas nella via sottostante. Alla mia casa che altrimenti è in una strada piuttosto silenziosa di giorno (lavori a parte), ravvivata dal cinguettio di uccelli e tubare di piccioni. Però, da quando domenica con Elio e i suoi genitori abbiamo portato gli ultimi elementi mancanti da loro gentilmente forniti, da quando abbiamo fatto un piccolo aperitivo a base di Pringles e Coca Cola, mi è sembrata finalmente la mia casa, non solo un tetto sulla testa.

Ecco, per tornare al confronto con la me di agosto che aveva tutto da imparare e da conoscere e quella di ora che, benché sia stata rasa al suolo dagli eventi, è ancora a Parigi e ne sa molto più di quel che sapeva in estate, rispetto ad allora ci sono tutte quelle persone che ho incontrato per strada e che mi danno la sensazione che ho una forma di rete che mi possa raccogliere prima dello schianto. Che sia la mia amica Giulia con cui ho fatto il liceo e che trovo molto romantico e rassicurante aver ritrovato qui o che siano i nuovi incontri, sono comunque circondata da persone che non possono fare le cose per me ma averle intorno aiuta a ritrovare la speranza e la forza per continuare.

Non parlo mai dei genitori di Elio, di cosa facciano, di come si chiamino, è una scelta precisa legata alla privacy, però le brevi chiacchiere che ci facciamo quando tornano a casa sono state per me momenti preziosi in questi mesi. È in loro (ed in Elio) che ho trovato la mia principale riserva di leggerezza, nel loro non fare un problema di niente e di offrire soluzioni o proposte di soluzioni a tutto. E, sembra un po’ un paradosso ma, benché qualche tempo fa la madre mi abbia detto che col marito ogni tanto si chiedono come faranno senza di me, ad oggi la più grande procacciatrice di offerte di lavoro interessanti a cui candidarmi è proprio lei. Potrei continuare ancora a lungo a decantare la loro generosità e disponibilità e la gratitudine che provo quando penso al fatto di averli incontrati ma non lo farò, basti sapere che sono un po’ disorganizzati, spesso mi dicono le cose all’ultimo minuto, si sa quando partono ma mai quando rientrano, lavorare con loro è stata prova di adattabilità, flessibilità, inventiva, iniziativa, ma sono anche la cosa più vicina ad una famiglia che abbia trovato a Parigi e il loro essere talvolta estemporanei sugli orari non è mai stata un peso, piuttosto un oggetto di battute. A dirla tutta, poi, mi son sempre sentita a casa da loro, talmente a casa che ormai a volte mi muovo proprio come se quella fosse casa mia e Elio non è un bambino da portare semplicemente alle varie attività, nutrire e controllare in attesa del ritorno dei genitori, Elio è un bambino a cui proporre un modello educativo. Quindi stare attenta a quello che dico, a quello che faccio, a non fare commenti figli di un patriarcato introiettato da cui liberarsi, a non sembrare affatto sorpresa se un fumetto che ama molto ha come protagonista una bambina, a dirgli che mi piacciono le donne come fosse la cosa più normale del mondo perché, in effetti, per lui è normale, e non l’ho mai visto tanto arrabbiato con me quanto la volta in cui ho scambiato un suo amico coi capelli lunghi per una bambina.

Ieri, mentre mi dirigevo verso la visita gratuita dell’Opéra Garnier (una cosa imponente, che ti fa venir voglia di andare a vedere il primo spettacolo proposto per il solo gusto di stare lì dentro, cullata dalla mistica di un luogo d’arte storico), C., la madre di Elio, mi ha invitata a pranzo (ovviamente all’ultimo), per propormi un lavoro con l’associazione di cui fa parte. Una cosa di pochi mesi e non pagata tantissimo ma per me il modo ideale di rientrare nel mondo del lavoro, peraltro in un contesto (l’organizzazione di eventi) che mi interessa moltissimo. Dopo che sono andate via le altre due collaboratrici mi son fermata un po’ a chiacchierare con lei e ho riflettuto su come mai sia ancora a Parigi, sul senso di libertà che ancora mi trasmette, lontana dai pregiudizi sulla mia persona (un po’ goffa, impacciata, disadattata, attendista, timida, per non parlare del il mio rapporto con la cucina, per dirne alcuni) e su come a volte un cambiamento di scenario possa in realtà tirare fuori lati ignoti di una persona, quelli probabilmente nascosti o dimenticati nel tentativo di essere l’immagine che gli altri hanno di sé. Per dire, io non sono mai stata un angelo del focolare, C. mi ha detto ridendo che ai loro occhi apparivo invece una vestale della casa e io avevo tutti gli elementi per capire come mai lo pensassero. E anche nel mio rapporto con Elio e con la sua famiglia ho avuto modo di focalizzare tratti della mia personalità a cui forse non avevo mai dato peso quando lavoravo con Sergio ma che invece probabilmente dicono molto del perché sarei un’ottima persona da assumere e dovrei avere più fiducia in me stessa quando vado ai colloqui.

Chiudo con Elio e famiglia, aggiungo solo che li ho incrociati tramite un contatto che mi ha dato una cugina di mio padre che ha vissuto a Parigi qualche anno fa. Era un giorno di fine settembre o inizio ottobre quando ci siamo sentite al telefono con F., il contatto in questione. Al telefono mi aveva detto che aveva un’amica alle Lilas alla disperata ricerca di una babysitter, se ero interessata anche temporaneamente. Quando le ho dato il via libera a inviare a C. il mio numero di telefono, F. ha aggiunto che credeva negli incontri tra persone e nel fatto che da cosa nasce cosa, non si sa mai. Ebbene, ieri al pranzo le ho detto che aveva ragione e che se c’è una cosa che ho imparato in questo quasi anno a Parigi è che non bisogna aver paura di scalare i gradi di separazione.

Ero molto fiera di aver cominciato a scrivere un post pochi giorni dopo la pubblicazione dell’ultimo con l’idea di poter uscire col successivo senza accumulare troppe cose da scrivere. Mi sbagliavo perché ancora non ho abbordato il tema della manifestazione del primo maggio.

Sono in Francia da quasi un anno e ancora non ho ben chiara la battaglia politica intorno alla riforma delle pensioni però, in questa rinnovata curiosità per il mondo e le persone, ho deciso di andare alla mia prima manifestazione in Francia col gruppo del circolo PD di Parigi, un po’ per stare in compagnia e un po’ per cercare di capire. Quel che ho capito è che la riforma viene sintetizzata in maniera troppo semplicistica in: si aumenta l’età pensionabile. Quello che non viene detto è che non è che se si raggiungono prima gli anni di contributi necessari si può andare in pensione già prima, prima dei 64 anni diventerebbe impossibile andare in pensione. In tal senso la norma risulterebbe altamente discriminatoria per chi inizia a lavorare presto, generalmente appartenente alle classi sociali più popolari dando alla riforma un’aurea classista. Poi le problematiche sono molto più ampie e la riforma è più complessa di così e non basta una mezza chiacchierata durante il corteo per comprenderla. Peraltro l’entità delle proteste non è legata soltanto al merito della riforma, anzi, l’entità pare più legata al metodo per farla passare (più o meno l’equivalente della nostra fiducia parlamentare) e al via libera dato alle violenze della polizia. Violenze della polizia che mi avevano un po’ fatto mettere in dubbio la mia partecipazione.

Sono arrivata in Place de la République in un momento di quiete tra un forte scroscio d’acqua e la pioggerellina fine che ha caratterizzato la prima parte della manifestazione. Il clima mi pareva festoso e sorridente, tranquillo e militante. Essere circondata da tutta quella umanità è stata una sorta di scarica di adrenalina. La sola polizia vista era quella nelle vie limitrofe alla piazza e quella molto pacifica che mi ha controllato il contenuto dello zaino prima di entrare nella bolgia. Nel nostro percorso verso Place de la Nation non ho visto niente di violento, niente di votato allo scontro, a dire il vero non ho visto neanche un poliziotto. Varie persone italiane si sono avvicinate felicemente sorprese di vedere che anche a Parigi c’era un circolo PD chiedendo informazioni, una francese ha chiesto chi fossimo e ha ringraziato per la presenza. Una volta arrivati alla fine del corteo il cielo si era aperto, il sole era caldo e il fumo dei lacrimogeni iniziava a infastidire lievemente occhi e gola. Qualcuno del circolo ha distribuito mascherine con qualche goccia di limone, abbiamo cantato un’apprezzata “Bella ciao”, ballato brevemente sulle note di una piccola orchestra di ottoni e poi abbiamo deciso di disperderci: in piazza era arrivato un gruppo di uomini con felpe col cappuccio di nero vestiti. Mentre mi allontanavo ne ho sentito uno dichiarare, in italiano, se non ci vergognavamo a venire in piazza con quella bandiera. Ho fatto finta di niente ribollendo interiormente e ho ripreso la via di casa, per la stessa direzione da cui ero arrivata, incrociando ancora almeno un chilometro/chilometro e mezzo di corteo festoso. Ho poi saputo dopo che quel ragazzo che parlava di vergogna aveva accerchiato, assieme ad altri cinque compari, uno dei membri del PD, lo aveva spintonato o picchiato non so e si era portato via le bandiere. Quando sono tornata a casa e ho visto le immagini di guerriglia urbana provenienti dai giornali e dai social mi sono chiesta a che manifestazione avessi partecipato.

Il Tep

Tornando a casa sono passata davanti al Tep Ménilmontant (Terre d’écologie populaire), un piccolo spazio verde che doveva essere trasformato in un qualche tipo di discarica e che invece, dopo le proteste della popolazione, è diventato un luogo autogestito con un pollaio, un bar, dei tavolini, dei tavoli da ping-pong, un piccolo campo con delle porte per giocare a calcio, degli spazi per atelier, corsi di yoga, letture di poesia e tanto altro (anche un parrucchiere), il tutto a prezzo libero. Questa città mi sembra pullulare di luoghi del genere che danno un’idea di appropriazione dello spazio urbano da parte dei cittadini.

Il sole comparso alla fine della manifestazione è lo stesso che ha continuato a splendere su Parigi fino a venerdì, in una sorta di risveglio della città. Adesso il silenzio del quartiere è rotto solo dal rumore della pioggia e dei tuoni. Ma da martedì i tavolini all’aperto (i nostri dehors che qua si chiamano terrasses) hanno iniziato a moltiplicarsi, i canali e i parchi ad affollarsi di persone a passeggio o semplicemente sedute a chiacchiera in compagnia o sole con un libro ai bordi dell’acqua. Ho scritto una canzone in francese e ho avuto voglia di cucinare in maniera un po’ meno elementare, provando anche nuove ricette. Per la prima volta dopo sei mesi ho avuto l’impressione di aver trascorso una settimana in cui ridere delle piccole e grandi assurdità della vita, degli appuntamenti bizzarri che ho inanellato da quando sono qui, dei lesbodrammi, della mia voce stonata, della gente che si prende troppo sul serio, di quelli che non riescono ad aprire le porte della metro e se ne vanno con un gesto della mano che sembra dire “anvedi ‘sta stronza”. Insomma, per una settimana non mi sono sentita una sopravvissuta ma una vivente. Per una settimana mi sono sentita molto più vicina alla persona che ero quando ho deciso di trasferirmi sotto il cielo di Parigi.


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