In questi giorni mi è capitato di rileggere alcuni dei miei post del periodo tra dicembre e gennaio. Non cercavo niente in particolare, giusto la curiosità di ripercorrere con la memoria un pezzo di questo inverno di cui, di fatto, non ricordo praticamente niente, mi sembra tutto grigiastro e opprimente come il cielo di Parigi a gennaio. Ho rivisto delle foto e mi sono ricordata dell’amica che mi diceva quelli erano i colori di Parigi fino alla fine di aprile. So di per certo che ci sono state giornate di sole limpido e aria tersa ma davvero, questi mesi mi paiono una massa informe e grigia come l’unico meteo di cui ho realmente ricordo. Questa settimana, ad esempio, è stata prevalentemente grigia e incredibilmente umida, ho fatto una lavatrice lunedì mattina e ho finito di ritirarla giovedì. Ci sono stati giorni in cui ho dovuto accendere il riscaldamento e non c’è stata una sola sera in cui sia andata a letto senza piedi freddi desiderosi di una borsa d’acqua calda che non possiedo e di cui non ho mai avuto bisogno alle Lilas visto che tenevamo 18 gradi fissi in casa. Il sole ha fatto capolino qualche volta ma mai con la sensazione di aver voglia di restare. Martedì nel tardo pomeriggio però si è mostrato per un paio d’ore prima di perdersi nel crepuscolo, dando a questo nuovo angolo di città una sfumatura più accogliente.

L’altro ieri, nei miei troppi minuti persi sui social, sono incappata in un post sul lutto in cui una donna raccontava che non ricordava il 90% dell’anno successivo alla morte del padre, che aveva traslocato in un nuovo appartamento e per mesi non era stata in grado di disfare i bagagli. Fortunatamente alcuni amici se ne erano resi conto e, senza avvisarla, si erano presentati a casa sua con tutto il necessario per aiutarla. Questa storia è stata utile per me per ripensare a come ho vissuto io questi mesi e credo che il sentimento più presente e doloroso sia stato il senso di solitudine fisica legato alla distanza fra Parigi e Firenze e alla scarsità di contatti di amicizia profonda che ho qui. Di fatto ho perso anche tutti i contatti con le amiche di Morgane, ognuna di noi probabilmente travolta dal proprio dolore e troppo labile la nostra conoscenza pregressa per portarla avanti. Forse è anche per questo che sono generalmente fiera di me stessa e di come ho affrontato questo tornado che mi ha travolta. Poi certo ci sono anche la frustrazione di non riuscire ad essere quotidianamente al meglio, la paura di affrontare l’ignoto laddove un anno fa sembrava essere l’unica cosa che mi interessava, l’insicurezza di pormi davanti a un potenziale nuovo datore di lavoro che non può conoscere lo sforzo che mi costa “vendermi” quando è già qualcosa che sia riuscita a presentarmi al colloquio nonostante la nebbia in testa. Però questa è la mia realtà, sto vivendo alcune delle esperienze più destabilizzanti per un essere umano, le sto vivendo in contemporanea e le sto vivendo quasi sola. Quindi ci sono giorni che vanno meglio di altri e altri che al momento di andare a letto mi chiedo cosa abbia fatto tutto il giorno. Ma sono ancora qua, non ho abbandonato la nave, e un applauso me lo voglio fare.

Piccole gioie expat

Martedì invece è stato un giorno partito con le premesse dell’inutilità per poi trasformarsi in un pomeriggio con almeno un po’ di speranza e non solo perché mi sono convinta ad andare alla Lidl a prendere altri due pacchi di Pan di Stelle tarocchi per i momenti di bisogno. Martedì era il 25 aprile e mi sono trascinata fuori per affrontare due timori: essere sola in mezzo a persone che non conosco e farlo al Père Lachaise, luogo in cui ero stata l’ultima volta a fine novembre in occasione del funerale di Morgane. Però era al Père Lachaise che il circolo PD di Parigi ha pensato di organizzare una piccola commemorazione degli antifascisti Piero Gobetti e i fratelli Rosselli e, poiché il 25 aprile è una delle festività che preferisco e il cimitero è a pochi chilometri da casa, mi sono sforzata e sono andata. Se il tratto di strada tra casa mia e la metro Belleville è a predominanza cinese, quello tra Belleville e il Père Lachaise è invece prevalentemente arabo, non solo nessuna prostituta ma anche pressoché nessuna donna in giro. Nel mio percorso di avvicinamento, mentre superavo vetrine che esponevano fine pasticceria araba e datteri o mini market, ho sentito tutto l’opprimente peso dell’ultima memoria legata al luogo.

Mentre di fronte all’ingresso principale aspettavamo di essere tutti, circa una quindicina di persone, ho iniziato a parlare con un ragazzo piemontese appena sbarcato in città per ricongiungersi con la compagna parigina. Non ci siamo detti cose particolarmente trascendentali, io gli ho raccontato cosa ci facessi a Parigi, lui mi ha raccontato cosa ci facesse lui, ma in quel parlare del più e del meno passeggiando tra le tombe è stato come levare al luogo la pesantezza di un unico ricordo e darmi la possibilità di crearne altri ed è stato liberatorio. Finita la piccola celebrazione mi sono fermata a bere una birra col gruppetto che non è rientrato subito a casa, cercando di combattere il temibile spirito dell’inadeguatezza perché la mia conoscenza storica e politica era molto più superficiale della loro. Però, come tutte le spesse volte in cui mi capita, ascoltavo e intanto mi ripetevo come un mantra che non si può sapere tutto di tutto e che se mi interessano di più altre cose non è una colpa, che paragonarsi agli altri e leggere la realtà secondo quello che credo essere lo sguardo dominante non serve a niente se non a sentirmi fuori posto.

La passeggiata di ritorno verso casa l’ho fatta accompagnata da Matteo, il presidente del circolo, coetaneo e fiorentino. Nella chiacchierata sotto un cielo finalmente liberato dalle nuvole ho recuperato il senso dell’essere partita e ho scoperto che molti di quelli che atterrano in questa città lo fanno per lo stesso motivo: la speranza. Mi sono sentita accolta, rassicurata, confortata, quando ho imboccato la via di casa mia, la luce del tramonto rilasciava una tinta meno grama e la convinzione che ce la posso fare. Di fatto, rientrando a casa non mi sono sentita sola. Ho realizzato nei giorni successivi, infatti, che la grande città (e l’ansia economica) dilata il tempo tra gli incontri ma nessun uomo (o donna) è un’isola ed è forse questo il mio bisogno primario, le connessioni umane.

L’evento bizzarro della settimana invece porta la data di giovedì, di ritorno da un babysitteraggio estemporaneo di Elio. Di fronte al dilemma “metro o piedi?” ho optato per la seconda opzione, incurante della pioggerellina fine che sembrava non disturbare nessuno. Appena prima di arrivare alla Porte des Lilas bisogna attraversare la rampa di uscita del périphérique, attraversamento di solito regolato da semaforo che però giovedì sera non funzionava. Erano ormai quasi le 21, il crepuscolo stava per cedere lo spazio alla notte e la pioggia non facilitava di certo la situazione. Giunta dall’altro lato mi sono accorta di una signora anziana in difficoltà ad attraversare. L’ho raggiunta per chiederle se avesse bisogno di una mano e mi ha risposto di sì. Dopo aver attraversato le ho chiesto se andasse tutto bene, se avesse ancora bisogno di aiuto e mi ha detto di sì rifilandomi una pesante busta e cominciando così a potersi appoggiare sulla sua stampella che nella semi oscurità non avevo ancora visto. Sembrava confusa, si guardava intorno e borbottava alla ricerca di punti di riferimento geografici per orientarsi verso casa. Mi sono immaginata una povera signora coi prodromi di Alzheimer, mi sono ricordata di mia nonna che a 90 anni andava a fare la spesa e poi si metteva praticamente a fare l’autostop per tornare a casa con le buste pesanti, e l’ho accompagnata fino a casa, senza capire quasi una parola di quello che diceva quando si fermava per farmi una sorta di guida turistica del Pré Saint Gervais e intanto chiedendomi: in che zona sono? È sicuro tornare a piedi al buio da qui? Quanto sta realmente lontana la signora? Sa davvero dove sta andando? Lo sapeva, le ho portato le buste in casa, un terzo piano senza ascensore e quando ho varcato la soglia sono stata invasa da una sensazione di solitudine e incuria, il salotto invaso da oggetti, il tavolo della cucina ricoperto da praticamente una farmacia. Si vedeva che Monique aveva voglia di compagnia ma erano quasi le 22 ormai e io volevo tornare a casa, sapevo che mi aspettavano circa 40/45 minuti di camminata e non avevo realizzato quanta poca strada avessimo fatto. Quello che al passo di Monique aveva richiesto quasi un’ora, io l’ho percorso in dieci minuti.

La cosa che mi colpisce sempre di Parigi è la quantità di umanità diversa in giro, un’umanità spesso straziante da vedere, piena di storie che riconducono alla strada o alla solitudine o a un’immagine meno scintillante di questa città. Che siano le schiere di rider (bengalesi o cingalesi credo) sulla rue de Belleville piena di piccoli ristoranti in attesa degli ordini da consegnare; o che siano le prostitute cinesi portate in Francia con la promessa di un impiego come ragazza alla pari a duemila euro al mese che una volta qui scoprono di essere pagate un quarto e sfruttate e vedono nella prostituzione un mezzo di sopravvivenza e di aiuto alle famiglie rimaste in Cina; o che siano l’immenso numero di senza fissa dimora coi loro materassi, le loro tende, piantati sotto i palazzi, vicini ai supermercati, di fronte ai bar dove la vita scorre su altri binari che incrociano i loro solo il tempo di scostare lo sguardo per non sentirsi invadere dal senso di ingiustizia e di impotenza.

Sotto il cielo di Parigi non tutto brilla e in alcune parti di città la torre Eiffel è solo una candela in lontananza.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...