Ieri, durante la videochiamata più o meno settimanale che faccio con i miei genitori e mia sorella, mio padre mi ha fatto notare che non sto aggiornando il blog. Mio padre ha ragione e io non ho grandi giustificazioni se non l’assenza di voglia e settimane in cui, quando non ero impegnata dal trasloco, sostanzialmente mi sembrava di vivere un tempo che non lasciava alcuna traccia. Non che sia restata chiusa in casa per tutto l’ultimo mese ma mi sembra di vivere ancora una realtà che per la maggior parte del tempo è impalpabile, esiste solo nel momento in cui la sto vivendo e sparisce poco dopo. La maggior parte della mia realtà, inoltre, è stata caratterizzata dall’ansia per una situazione lavorativa che non si sblocca, dall’ansia per l’aumento dei costi in termini di affitto e di spesa perché i supermercati parigini sono più cari di quelli delle Lilas e dal dover decidere se ho voglia di camminare per tre quarti d’ora o comprare il biglietto della metro per andare da Elio laddove fino a due settimane fa ero a poche centinaia di metri. Sono state settimane in cui ho messo in discussione la mia presenza a Parigi, in cui mi sono interrogata a lungo sul senso di essere qua e in cui l’unico vero attaccamento alla città che ho sentito è stata la sensazione che il problema non era la città, ero io, e che di fatto mi sarei posta le stesse domande ovunque mi fossi trovata.

Sono state anche settimane in cui mi sono chiesta più volte se la tristezza che mi porto dietro è legata all’insicurezza economica, alla precarietà, all’incertezza, oppure se sono ancora gli strascichi dell’assurda morte di Morgane. Ho sempre trovato strana l’attenzione che poniamo al passaggio del tempo da eventi che consideriamo importanti, poi ne ho vissuto uno che mi ha letteralmente sconquassata ed eccomi qua a pensare che oggi sono passati sei mesi esatti dal giorno in cui ho avuto per la prima vera volta cognizione del dolore. Sei mesi che divido in quattro mesi in cui ho vissuto in un mondo parallelo in cui l’unico obiettivo era sopravvivere e ritrovare il senso delle cose; e due mesi in cui ho ripreso il mio cammino ma con fatica, a fasi alterne, senza sapere mai con certezza se una giornata positiva sarà seguita da una altrettanto se non felice almeno tranquilla. Le persone a cui racconto per la prima volta quel che mi è successo rimangono ancora genuinamente sconvolte, io invece ne parlo ancora senza emozione, al limite cercando di contenere le crepe nella voce. La verità è che spesso mi ritrovo a Saint Denis la notte fra il 23 e il 24 ottobre 2022 e continuo a trovare la mattina del 24 ottobre troppo irreale per essere realmente accaduta e quindi pensata. Penso anche a traumi ben più grandi del mio, mi interrogo su come sia stato sopravvivere alla Shoah, su come vivano gli ucraini sotto gli attacchi russi, le persone che hanno subito gli attacchi del 13 novembre del 2015 a Parigi, o quelle che magari non hanno i mezzi per sapere che esiste la sindrome da stress post traumatico ma la vivono sulla loro pelle. Penso anche però che ridimensionare non cambia quel che è accaduto e che non c’è nessuna gara a chi ha il diritto di soffrire di più.

Ma basta col solito resoconto di stati d’animo tristi su cui potrei probabilmente dire pure molto di più e un po’ di notizie di cose che ho fatto nelle ultime settimane.

Primavera alle Lilas

Intanto ho cambiato casa. Ho salutato la familiare atmosfera di una casa con giardino nelle tranquille Lilas per spostarmi nel X arrondissement di Parigi in un appartamento di 30 metri quadri da condividere con molte più cose di quante non pensassi di avere. Partita da Firenze con una valigia e uno zaino, otto mesi dopo ho spostato una cassettiera, un paio di piccoli mobili, una valigia, due zaini da 50 litri (era lo stesso svuotato e riempito per il secondo viaggio), uno zaino della Eastpack, una busta Ikea, tre scatole e qualche altra busta. Ho avuto la fortuna di poter contare sulla macchina dei genitori di Elio e sulla manodopera di un’amica mia e di una loro. Il viaggio all’Ikea per recuperare un ordine invece l’ho fatto da sola e penso di poterlo mettere fra le esperienze estenuanti della mia permanenza francese. Un’esperienza in cui l’Ikea è stata la parte tranquilla perché l’avevo fregata, non ero andata con una lista di oggetti da cercare ai quali se ne sarebbero aggiunti altri messi nel carrello solo secondo impulsi eterodiretti dalla grande madre svedese. Ero andata solo a ritirare un ordine che avevo effettuato metodicamente online, nel corso di più giorni e più revisioni seguendo un unico mantra: è assolutamente indispensabile?

Se il passaggio dentro l’Ikea è stato rapido e indolore, il problema è stato sì arrivare ma, ancor più, rientrare in città. L’esteticamente orrida banlieue parigina, il périphérique intasato di traffico, il limite di 30 km/h in città, la paura di distrarsi un attimo e superare anche di un solo km/h il limite di velocità, il gran numero di semafori rossi una volta rientrata a Parigi, dover percorrere il boulevard de Belleville a fine mercato, il tutto a cavallo del pranzo che si era ridotto a una banana e a una barretta di cioccolato nocciolato trovata fortunosamente nello zaino. Ma ho finito il trasloco, mi mancano solo alcune cose che devo recuperare dai genitori di Elio e un secondo passaggio da Ikea dopo aver capito attraverso l’esperienza cosa ancora manchi ma ormai sono parigina parigina.

Se Les Lilas erano una tranquilla zona residenziale, il quartiere Sainte-Marthe è situato in quella parte di Parigi ancora popolare. La mia metro di riferimento è Belleville e i 700 metri che mi separano da casa sono principalmente riconducibili alla comunità cinese con negozi di cui ignoro i contenuti (soprattutto alimentari) in vendita, non solo perché non li ho mai visti ma anche perché le scritte sono in ideogrammi. Di cinese c’è anche un discreto giro di prostituzione. Inizialmente pensavo fosse il mio sguardo malizioso ma in realtà più persone mi hanno confermato che no, quelle signore non necessariamente discinte che vedo a tutte le ore del giorno e della notte non stanno aspettando un’amica o chiacchierando fra di loro lungo il viale. Paradossalmente la loro presenza mi dà la sicurezza di non essere mai sola quando torno a casa la sera.

Il Canal Saint Martin a un dieci minuti da casa

C’è un mercato il mercoledì e sabato mattina ma per ora non ho ancora avuto modo di frequentarlo e le strade perpendicolari a quella in cui abito mi è parso di capire che pullulino di botteghe artigiane dalle vetrine colorate. Dico “mi pare” perché quando ci sono passata ho sempre visto tutto chiuso ma forse ho sbagliato orari. A poche centinaia di metri da me c’è la Lidl che a riprese regolari prevede una settimana dedicata a prodotti italiani col marchio Italiamo pensato apposta per la Lidl. Ho ancora 24 ore per decidere se voglio andare a farmi uno stock di Pan di Stelle dopo che quelli acquistati sabato hanno superato il mio controllo qualità.

Sono ancora in una fase esplorativa, in cui soppeso continuamente pro e contro ben sapendo che per gli standard parigini vivo nel lusso considerando quanto spendo e dove sono localizzata.

Tra i pro c’è l’essere più proiettata verso la città, raggiungere posti, soprattutto a piedi, è molto più veloce quindi è più facile per me continuare a imparare la geografia della città. È vero che vivo da sola ma sentire la vita intorno per le strade mi fa sentire meno isolata di quanto non mi sentissi alle Lilas. Posso cucinare e mangiare serenamente al telefono o davanti a un film senza il problema di dover liberare la cucina, un rotolo di carta igienica può durare anche una settimana anziché un giorno o poco più. Se non fossi preda dell’ansia economia di fatto sono al centro di una delle zone più vivaci della città.

L’elenco dei contro invece è più lungo: la casa sembra sempre sporca anche appena fatte le pulizie, è più fredda e, poiché i termosifoni sono vecchi e consumano molto, li accendo molto poco per paura di superare la soglia di consumo inclusa nelle spese d’affitto; i supermercati sono più cari, l’épicerie dove trovavo molti prodotti di qualità a prezzi di cooperativa è decisamente lontana per frequentarla con regolarità. Il bagno non ha fonti di riscaldamento e sfrutta il radiatore della cucina che però è dal lato opposto rispetto alla porta, la doccia ha bisogno di qualche miglioria. Gli spazi in generale sono più ristretti. La zona vivace può essere anche un contro e se le voci in strada non mi disturbano più di tanto, la musica a tutto volume fino alle 4 di notte il sabato sera invece mi ha fatto rimpiangere amaramente le case silenziose in cui ho in fin dei conti sempre abitato. Al futuro sapere se si sia trattato di un una tantum o se i miei sabati sera saranno ormai caratterizzati da musica commerciale per nostalgici più o meno della mia età o poco meno fino a notte inoltrata. Credo però che, come per tutto, ci sia bisogno di una prima fase di assestamento per capire dove sono e, non avendo coinquilini esperti del quartiere, devo orientarmi da sola.

Londra nell’unica scala in cui la si immagina (ma ho visto anche il sole)

Questo aprile di silenzio però non è stato solo tristezza ed esplorazione (peraltro minima) del nuovo quartiere. Sono stata qualche giorno a Londra da mia sorella. Un affascinante viaggio in bus ai confini dell’Unione Europea, dove giunti al porto di Calais i passaporti dei passeggeri vengono ritirati dall’autista, mostrati a non so bene chi, restituiti prima di proseguire per la tappa successiva: il controllo bagagli, una poco espressiva dogana francese e una più loquace e amichevole dogana inglese (del resto sono loro quelli che vogliono sapere chi sei, dove vai, quanto stai, da dove arrivi) per poi giungere all’imbarco. E se Parigi sembra grande quando si arriva da Firenze, Londra è fuori misura anche per chi arriva da Parigi. Ma avevo bisogno di questi giorni di stacco dalle mie ansie, di ingresso nel mondo dei drag king con punte militanti, di passeggiate nel placido Oxfordshire, di lauti pasti al pub seguendo lo spirito del “si vive una volta sola” e di cene da McDonald’s mangiate in treno a mezzanotte. Quando sono tornata a Parigi poi mi sono sentita nuovamente a casa e con la sensazione di essere partita per mesi e non per quattro giorni.

La mia Pasqua non è stata affatto tradizionale: sono stata ad una visita guidata gratuita al Pompidou con le due signore con cui faccio conversazione in italiano, ci siamo poi fermate in una creperia per pranzo e nel bar gestito dal figlio di una di loro dopo. Alle Lilas mi aspettavano una festicciola ispanofona dei miei coinquilini per salutare la casa e la mia ultima notte allo “château”.

La Pasquetta invece doveva essere dedicata all’ultima fase del trasloco che comprendeva andare a prendere alcune cose e la macchina dai genitori di Elio ma poi è diventata una rapida collaborazione a caricare mobili in macchina per il loro trasloco e un pomeriggio nella loro nuova casa con i loro amici (alcuni dei quali mi hanno peraltro poi aiutato con le ultime scatole). Ho preso complimenti per il mio francese che a me non sembra mai abbastanza e ho trascorso un pomeriggio divertente e leggero a discutere, tra le altre cose, di Bertrand Cantat (cantante dei Noir Désir, band di culto del rock impegnato francese, che nel 2003 uccise l’allora compagna nel corso di una lite e che causò una sorta shock collettivo, io ad esempio so che pecco quando ascolto i Noir Désir che ho amato immensamente) e di altre cose varie ed eventuali che, effettivamente, non hanno niente di leggero nei temi ma molta umanità nel modo di parlarne.

La scorsa settimana ho preso il mio primo Noctilien (così si chiamano gli autobus notturni) e in mezzo a un discorso ho usato la parola “safe” (“sicuro”) in inglese come fossi una francese qualunque. A quanto pare, dopo anni di ostracismo verso gli inglesismi, il francese d’oggi ne prevede in gran numero, a tratti pure a sproposito. L’anno scorso una delle mie host, francese rientrata dopo 40 anni negli USA, notava l’uso dell’aggettivo “full” anziché “busy” per dire che si era impegnati e lei aveva sempre l’impulso di chiedere “full of what?”.

Sono stata a fare un colloquio a Disneyland per integrare il gran numero di stagionali, la presa di servizio mi è stata proposta per settembre e ho accettato ma di qui a settembre chissà cosa può succedere. Ho provato l’ebrezza di andare ad una serata di drag king locali ma ho realizzato che se non c’è un messaggio politico un po’ più esplicito non ho alcun interesse nel vedere persone vestite da uomo che ballano facendo lip sync per quanto una donna vestita da uomo sia già di per sé un messaggio politico. Mi sono trovata una sera a Montparnasse e l’atmosfera rispetto alla zona in cui abito io non poteva essere più diversa: non particolarmente chic ma decisamente più pulita, ordinata e bianca. Dopo la serata drag, con un’amica siamo andate a mangiarci una crêpe (o piuttosto una galette bretone), scoprendo che Montparnasse è una delle zone in cui si è stabilita la comunità bretone a Parigi. Addirittura, nella strada in cui ci siamo fermate a mangiare c’erano dodici creperie (parola del cameriere). Sono stata ad un incontro letterario alla Maison de l’Italie, un po’ perché ogni incontro può portare idee nuove, un po’ nell’ambito del lavoro di networking che mi è stato suggerito di fare e dopo ho proseguito per il Salone del Libro, più o meno con lo stesso intento. Mentre raggiungevo il Grand Palais Éphémère ho incrociato colei che mi ha messa in contatto con la mamma di Elio ormai circa sei mesi e mezzo fa. Era al telefono e ci siamo scambiate giusto un saluto, mi ha chiesto come andasse, le ho risposto, non ricordo le mie parole precise ma il senso sì, che andava meglio ma se avessi un lavoro andrebbe bene. Per quanto sia terrorizzata dall’idea di cominciare un lavoro nuovo, di dover rientrare in uno schema di vita che ho lasciato da più di un anno, sento anche di aver bisogno di avere una cornice intorno a me perché ora come ora sono piuttosto sperduta.

Mi sono scelta (e un po’ mi è capitata) una vita faticosa ma per ora ancora non riesco ad immaginarne una diversa.

CANZONE DEL DOLORE PER M.
(Cliccando sul titolo dovrebbe aprirsi un link all’audio, provvisorio come tutto e di un buon tono e mezzo sotto quel che sarebbe stato più sensato. È una me di inizio dicembre che canta, con tutto quel che ne consegue)

Chi dice l’importante è finire
non ha mai avuto un foglio 
bianco 
su cui cominciare
Parole
d’amore
d’inizi
Il mio odore
polvere vernice
e gasolio ci hai sentito
Cosa ci siamo dette
non l’ho mai dimenticato
Parole
future
adesso
è andare

Fai di me quello che vuoi
Prendi pure l’insoluto
Il nostro primo e ultimo ballo
il migliore che ho mai avuto
Siamo fiumi senza ostacoli
le parole che si inseguono
Divorarsi poi le labbra
e rifarlo se si acquietano.

Ti sei chiesta mai
che consistenza ha il dolore
se la tristezza è cosa
che si può toccare
con parole
di vuoto
è ingiusto
l’amore
Chi dice che dal male
dopotutto nasce un fiore
non ha mai attraversato
uno stillicidio di dolore
Celare
l’abisso
con cascate
di parole

Ma tu sei nata libera 
o lo sei diventata?
per fuggire dai cancelli
in cui ti hanno incasellata
Una vita senza arte
non può esser gioco serio
Il tuo mondo è un palcoscenico,
tutto è falso, tutto è vero

Tutto quello che pensavi
non accadesse mai a te
è steso
sotto un lenzuolo bianco
che parla
di assurdo
di fine
di orrore
Chi dice che è possibile
condividere il dolore
non ha visto un corpo morto
e sola non lo puoi salvare 
È impotente  
l’amore
È cangiante
il dolore

Fai di me quello che vuoi
Prendi pure l’insoluto
Il nostro primo e ultimo ballo
il migliore che ho mai avuto
Siamo fiumi senza ostacoli
le parole che si inseguono
Divorarsi poi le labbra
e rifarlo se si acquietano.
Tenetevi il mio anello
ma ridatemi i suoi occhi
Così tristi e così liberi
una trappola per sciocchi
Per quelli come me
che non lo hanno mai saputo
il desiderio è sincero
non è mai un atto dovuto

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