Quando ho pubblicato il post precedente ero decisamente triste, lo stress legato alla ricerca di una nuova casa mi aveva avvolta rendendomi un gomitolo attorcigliato e sfilacciato. Al di là della comprensibile preoccupazione però, l’evento poteva essere visto anche come un’opportunità e, a prescindere dalle notti insonni e dal continuo rimuginare sul mio conto in banca, è in questo senso che ho deciso di prenderla.
La prima conseguenza è stata che sono stata costretta a muovermi, a rompere un equilibrio e a darmi una smossa. In particolare, per non pensare alla necessità di cercare un alloggio, mi sono concentrata su altro e ho ripreso a inviare curriculum con una certa costanza, finalmente in pace con la consapevolezza che per indole e deformazione professionale probabilmente dentro me c’è un’assistente di qualche tipo. Sarà che dodici anni da assistente personale mi avevano svuotata dalla mia voglia di assistere chiunque ma ho realizzato che affronto il lavoro di babysitter probabilmente con lo stesso rigore, attenzione e ricerca di semplificare la vita altrui con cui ho vissuto il mio impiego come assistente di Sergio Staino e forse è passato sufficiente tempo dalle mie dimissioni e ho sufficientemente bisogno di un lavoro a tempo pieno per prendere in considerazione questa via con più convinzione.
La seconda è che in questa ricerca non mi sono sentita sola. Dalla mia amica Giulia che ha riportato le mie ansie a un livello accettabile, ai genitori di Elio che hanno offerto tutta la loro collaborazione, ho potuto contare sull’appoggio morale e concreto di persone in loco in carne ed ossa.
Al momento dunque il fronte lavorativo tace ma almeno ho trovato una soluzione abitativa, temporanea ma idealmente a lungo termine. O meglio, la soluzione abitativa ha trovato a me. Fin da quando ho lasciato l’Italia l’estate scorsa so che la cosa più importante da fare quando si va all’estero è crearsi una rete, ed è grazie a questa rete che domani vado a prendere le chiavi del mio nuovo appartamento. E quando dico rete intendo un processo che nel mio caso, ad esempio, è andato così: ad agosto una cugina di mio padre mi mette in contatto con una persona che ha conosciuto quando viveva a Parigi vari anni fa, a inizio ottobre questa persona mi mette in contatto con la mamma di Elio, a fine febbraio, tramite i genitori di Elio, conosco un po’ casualmente una loro amica che una decina di giorni fa mi mette in contatto con una sua amica che sta cercando qualcuno di fiducia a cui subaffittare il suo appartamento. Tutto questo avviene mentre i genitori di Elio sono alle prese col loro trasloco e si liberano di varie cose di cui il mio appartamento è invece manchevole.
Apparentemente è al cosiddetto réseau, la rete, che devo fare appello anche nella ricerca di lavoro: il mercato del lavoro francese è molto inquadrato e il mio profilo è decisamente atipico ma conoscendo prima me del mio curriculum, è più probabile darmi una chance. È così che ho ricominciato timidamente il mio processo di networking trovandomi anche in situazioni forse un po’ surreali come andare alla proiezione di un film, trovarmi a chiacchierare col presidente (con cui ero stata messa in contatto) dell’associazione che aveva organizzato la serata, mentre lui si distraeva continuare la conversazione coi suoi amici e poi, senza sapere bene come, finire a cena con loro, più perché ho seguito il flusso che perché mi fossi realmente sentita invitata ufficialmente. Ne è venuta fuori una serata divertente, con un gruppo di gay di mezza età (categoria a me di fatto sconosciuta, se mi si passa il termine “categoria”) e una consigliera comunale, una serata in cui ho potuto ritrovare un po’ di quella consapevolezza che non sono così male, che sono in grado di stare con le persone e che ho pure delle cose da dire. Che sì, lo sapevo anche prima ma un po’ tendo a dimenticarlo facilmente, un po’ lo stress post traumatico ha spazzato via intere collezioni di certezze ed è sempre bene aver modo di ricordarselo.
Il giorno prima lo avevo trascorso interamente con mia cugina e sua figlia di cui un tempo sono stata la babysitter e ora è al secondo anno di università a Parigi. Abbiamo preso un caffè in uno dei bar affacciati sul belvedere di Belleville mentre Silvia svuotava lo zaino per mostrarmi il contenuto del mio “pacco da giù” (qualche vestito, olio, confetti, ovetti di cioccolato, alloro, la mia tisana della sicurezza, delle Gocciole extra dark). Poi, tra una chiacchiera e l’altra, la fame ha preso il sopravvento e Anna ci ha portate a Belleville in un piccolo ristorante cinese dall’atmosfera familiare specializzato in pasta fatta a mano. Con ancora il sapore dei bao più buoni che mi sia capitato di mangiare abbiamo deciso di sfidare la fila dell’Orangerie per la mostra dedicata a Matisse. Uscite dalla metro ed entrate nelle Tuileries, la primavera si mostrava in tutte le sue caratteristiche: temperature miti, un sole splendente sulle magnolie fiorite e un cielo plumbeo sulla Torre Eiffel in lontananza. Abbiamo fatto una piccola pausa digestiva approfittando di questa usanza tutta francese di mettere a disposizione numerose sedie all’interno dei parchi, alcune delle quali con lo schienale reclinato per potersi meglio godere il sole. Infine una buona ora e mezzo di fila che ci ha lasciate con appena una mezz’ora da dedicare all’esposizione. C’è una cosa che mi stupisce sempre dell’arte (in senso ampio) ed è la sua assenza di barriere, la sperimentazione, la presenza di alcune nozioni che però ogni artista combina a modo suo per creare qualcosa di diverso. Vale nelle arti grafiche ma non solo e ogni volta mi sorprende come, a partire dagli stessi elementi, i risultati possano poi essere così diversi. E sì, non mi dispiacerebbe avere un’opera di Matisse in casa.

Con Anna e Silvia ci siamo salutate in maniera un po’ brusca: loro sono salite in corsa su una metro mentre io, con la mia flemma, avevo deciso che avremmo preso quella dopo. La loro presenza era stata una momentanea requie al mio subbuglio e, una volta sulla 11 che mi portava verso casa, mi sono ritrovata avvolta di tristezza, in più avevo poca batteria nel telefono quindi l’ipotesi di ascoltare musica non era praticabile. Ho supplito con la conversazione di due ragazze italiane sedute di fronte a me che ho trovato talmente interessante che ad un certo punto… mi sono scusata se stavo ascoltando e sono entrata nel discorso anche io. Parlavano di podcast, in particolare di quelli del Post e, in una sorta di triplo senso di comunità (Italia, podcast, il Post), ho avuto un’ulteriore conferma: il piacere delle conversazioni con gli sconosciuti. La nostra è durata poche fermate di metropolitana ma per come stavo, fossimo scese alla stessa e non avessi avuto il mio piccolo “pacco da giù”, sono abbastanza sicura che avrei cercato la maniera di auto invitarmi ovunque stessero andando o comunque di scoprire qualcosa di più su di loro ed informazioni che potevano essermi utili in qualche modo. È questa forse una delle grandi lezioni che la mia esperienza all’estero mi sta insegnando: la scoperta di risorse e di una faccia tosta che non pensavo di avere.
Una cosa che ho imparato dalla folta comunità expat è invece la via più breve per preparare una buona pizza, minima spesa e massima resa: si va alla boulangerie e si chiede se vendono la baguette en pâte (l’impasto insomma). Si torna quindi a casa, si stende l’impasto, si mette in teglia, si condisce, si inforna, si aspetta che cuocia, si ringrazia l’inventore della pizza.

Sono anche andata a far assaggiare i cannoli ad un’amica cinese che un mesetto fa mi ha aveva detto di aver mangiato la ricotta per la prima volta chiedendomi se c’erano altri modi di mangiarla oltre che col pane. Mentre parlavo (in francese) con la ragazza siciliana della boutique ho avuto così chiaro il sentimento di appartenenza a quello che resta il mio paese, quel modo di riconoscersi e di sentirsi parte di qualcosa benché si sia deciso di lasciarselo alle spalle. Dopo pranzo G. mi ha portata a fare una passeggiata nel parco che c’è vicino casa sua, nel diciassettesimo arrondissement, in una Parigi così lontana dall’immagine romantica a cui ci ha abituati la sua rappresentazione in film, libri, televisione. Il parco Martin Luther King è all’interno della Parigi del futuro, fatta di palazzi moderni e in uno stile non rinnegato come quello dell’edilizia popolare. Come accade appena c’è un po’ di sole, il parco si era riempito del brulicare dei cittadini e dei giochi dei bambini.

Purtroppo sono politicamente ancora troppo in Italia per capire appieno e dire la mia sulle proteste sulla riforma delle pensioni ma posso confermare che no, la spazzatura a Parigi non è stata ritirata per lungo tempo e faceva un certo effetto camminare nei quartieri bene tra cumuli di sacchi neri vagamente puzzolenti. Alle Lilas, che fanno comune a sé, invece il ritiro della spazzatura è continuato come se niente fosse.
In queste due settimane c’è stato anche il mio compleanno che mi aspettavo al limite di festeggiare online e invece ho pranzato bevendo vino con una delle mie coinquiline, sono andata a prendere un caffè con la direttrice della Maison de l’Italie, ho cenato a Belleville con un’amica che non vedevo da prima di Natale. La sera ho ricevuto il messaggio sull’esistenza di questo piccolo appartamento da affittare e il giorno dopo due paia di super calzini scelti da Elio. Mi sono sentita una donna fortunata. Che per quanto a volte mi sembri di essere ancora in un mondo parallelo, che questa non è davvero la mia vita, che è passato un intero inverno e non ne ho quasi ricordo, che sto conducendo una vita per certi versi molto più difficile di quella che ho condotto fino a un anno fa, è anche la vita che ho scelto e ancora non ho voglia di tornare indietro.