Durante tutto lo scorso anno, quando dichiaravo di non aver mai avuto grossi problemi con i trasporti, ero molto rapida ad aggiungere che forse, semplicemente, non dovevo usarli tutti i giorni e in orari di punta. Alla mia terza settimana di lavoro con trasporti presi quotidianamente e in orari di punta non posso che confermare la mia intuizione.

Il mio tragitto casa-lavoro sulla carta non è terribile per essere in una grande città ma la RER B che mi lascia di fronte alla Cité Universitaire è fedele alla fama con cui l’ho conosciuta prima ancora di doverla prendere. Spesso insopportabilmente piena (quando si riesce a salire), quasi sempre con l’aria condizionata fuori uso e qualche volta con problemi sulla linea (il mio primo treno ritardato a causa di un guasto elettrico a Gare du Nord!).

In queste prime settimane di settembre caratterizzate da un caldo fuori norma, credo di aver affrontato i trasporti con quieta rassegnazione nonché con l’unico modo per non soccombere a ire senza soluzione. Certi giorni mi sono trovata a ridurre al minimo le mie facoltà vitali per non sprecare la flebile quota di ossigeno riservata ai passeggeri; mi sono rassegnata alle chiazze di sudore comparse sulla mia maglietta e alla sensazione di umido ovunque la mia pelle toccasse il tessuto degli abiti che indossavo; mi sono rassicurata sull’impossibilità di cadere perché eravamo talmente stretti nello scompartimento che non ce ne sarebbe stato nemmeno lo spazio. Per completezza di informazione devo aggiungere che a volte e in maniera per me del tutto aleatoria visti i miei immutabili orari, invece il tragitto è stato percorso con serenità e dopo una fermata trovando anche posto a sedere, al ritorno talvolta pure due vicini, uno per me e uno per la mia collega.

Al di là di questi piccoli inconvenienti e dell’invidia che spesso mi hanno fatto le persone munite del must-have dell’estate parigina (un piccolo ventilatore portatile), mi dà una grande soddisfazione arrivare ai tornelli delle stazioni e aprirli con l’imposizione del mio abbonamento. Ancora di più mi darà una sensazione di stabilità farlo col mio abbonamento annuale con prelievo mensile automatico dal conto (francese!) che, in caso di smarrimento, potrà essere recuperato. Mi piace anche ascoltare musica, leggere, avere il tempo per svegliarmi la mattina e chiacchierare con la mia collega che abita troppo lontano per fermarsi a fare aperitivo post lavoro al ritorno. A volte mi piacerebbe anche sentirmi in grado di seguire il mio istinto che mi dice che no, non è disdicevole ballare e cantare a pesce nel treno, ma il mio pudore continua ad avere la meglio.

Quel che sicuramente ho imparato da queste tre settimane sui mezzi è che sì, c’è una ragione se i parigini si preparano sempre all’ultimo a scendere dalla metro o dal treno e che no, non è possibile rimanere profumati quando si viaggia in treno o metropolitana perché le temperature nelle carrozze o nelle stazioni sotterranee possono tendere al tropicale. Salvo poi essere rapidamente abbattute da alcune gallerie di collegamento fra linee o uscite delle stazioni che sembrano delle gallerie del vento. Io intanto ho deciso che in questa stagione di mezzo uscirò in maniche corte finché mi sarà possibile, anche alle 8 del mattino e con una sottile pioggerellina, che di sudare più del necessario proprio non mi va.

Del lavoro invece penso sia più corretto parlare poco visto il suo carattere pubblico e incentrato soprattutto su vite che non sono mie e ben riconoscibili visto il luogo circoscritto in cui si svolgono ma vado volentieri, prendo piano piano il ritmo e ho finalmente capito perché a volte negli uffici non risponde nessuno e perché, poco prima dell’orario di chiusura, non risponde proprio nessuno mai: nel primo caso per evitare di essere distratti quando si sta facendo altro, nel secondo perché non si sa mai quanto durerà una telefonata. Posso però dire che, da quando ho un lavoro, ho comprato la Nutella e sono entrata in una boutique di cibo italiano e mi sono comprata del prosciutto crudo. Ma non solo, ovviamente.

Gli ultimi dieci giorni però non sono stati solo lavoro, caldo e treni, gli ultimi dieci giorni sono stati anche densi di vita e di emozioni e hanno avuto la loro concentrazione maggiore nel fine settimana che, dopo lungo tempo, è tornato ad acquisire la sua naturale spensieratezza e fuoriuscita dall’ordinario. Fine settimana in cui poter ricevere la mattina un invito a vedere la partita di apertura dei mondiali di rugby (Francia-Nuova Zelanda, giocata a Parigi) a casa di Elio e famiglia e passare una serata di compagnia e leggerezza, con la tranquillità del tempo libero e non con la stanchezza di un rientro a fine giornata di lavoro. Una serata un po’ italiana ma soprattutto francese, in cui Elio si rivolgeva a me in italiano come previsto dal nostro passato rapporto di babysitteraggio ma io parlavo più facilmente in francese, anche con la sua italianissima madre. Una serata che ho vissuto un po’ anche come un’esperienza culturale, soprattutto nel momento in cui alla fine della cerimonia di apertura è stata data la parola a Emmanuel Macron e lo stadio lo ha subissato di fischi. Macron che, a differenza di quanto si sia a lungo pensato in Italia, non è affatto di sinistra.

L’evento forse più significativo di queste prime settimane di settembre, però, sta nel mio essere tornata a casa di Morgane a quasi un anno di distanza dalla sua morte. Quando lo avevo proposto a C., la sua amica ormai proprietaria della casa, ero molto più leggera. Quando il giorno di andare è arrivato mi sono sentita molto meno spavalda, complice forse la ricaduta durata 24 ore in cui ero piombata a metà della settimana intercorsa fra la teoria e la pratica.

L’anno scorso, appena arrivata alle Lilas, mi ero iscritta a un’associazione di libero scambio di saperi. Il funzionamento era semplice: tu metti a disposizione il tuo tempo per insegnare qualcosa gratuitamente e potrai approfittare del tempo che altri membri dell’associazione mettono a disposizione. L’età media era più quella dei miei genitori che la mia però avevo trovato persone molto affettuose e che mi aveva fatto piacere aver incrociato nel mio passaggio alle Lilas. Ebbene, la scorsa settimana, appena prima di andare a letto ho ricevuto una mail che comunicava le brutal décès, la morte improvvisa, della presidente dell’associazione, non giovanissima ma non ancora settantenne in ogni caso. L’aggettivo brutal è stato per me quel che si può definire un trigger moment che ha avuto come conseguenza una notte agitata e un risveglio con tutte le pressioni del mondo sullo stomaco. Finché, una volta al lavoro, la mia collega non mi ha dato dei fiori di Bach che stava provando per vedere se funzionano e una breve chiacchierata sulle cose del mondo fuori dalla mia testa che mi ha distratta e fatta tornare sulla terra e operativa.

È stato quindi con il ricordo di questo stato d’animo, di una fragilità imprevedibile ancora pronta ad esibirsi, che sabato dopo pranzo ho iniziato il lungo viaggio verso Saint-Denis.

23 ottobre 2022, ore 18.00.11

Ora, non sono sicura che la colonna sonora del tragitto, Hai paura del buio? degli Afterhours, sia stata la più saggia delle scelte vista la capacità che quell’album ha di risvegliarmi tutto il risvegliabile, fatto sta che mentre raggiungevo quella periferia parigina che pare una terra straniera, il mio stomaco ha iniziato a sentire il peso del momento e io a chiedermi se stessi facendo la cosa giusta per me. In realtà sotto sotto ne ero piuttosto convinta ma non ero preparata al ribollire delle mie viscere mentre ripercorrevo la via che mi aveva portato da Morgane le due volte che ero stata a casa sua lo scorso ottobre. Mi ricordavo ancora tutto. L’indirizzo, la fermata della metro, la fermata del tram, il péripherique visto dal cavalcavia da cui avevo scattato una foto alle 18 precise del 23 ottobre, la domenica senza orari di una disoccupata che stava cercando di farsi delle nuove amiche e che poco più di dodici ore dopo si è trovata catapultata in un universo parallelo che le sembra incredibile aver attraversato perché averlo attraversato significa che è successo davvero.

Sono arrivata a casa sua sotto il caldo e abbagliante sole delle tre, io che avevo visto quella strada di sera, di notte, nel tardo pomeriggio e in una mattina grigia e senza alcuna consistenza. La bandiera del Pride era stata staccata dal balcone e quando C. mi ha aperto ci siamo salutate come se fossimo in un luogo qualunque. Ma che non fosse un luogo qualunque l’ho capito come ho varcato la soglia e, soprattutto, come l’occhio mi è caduto sull’angolo in cui avevo visto Morgane per l’ultima volta, stesa per terra e coperta da un lenzuolo bianco.

C. mi ha detto di prendere il mio tempo, di fare come mi sentivo, lei ormai era tornata più volte in casa e non le faceva più quell’effetto dirompente che invece stava avendo su di me. Perché forse si può definire affascinante il modo in cui alcuni aspetti dell’esistenza siano totalmente fuori dal nostro controllo e io, mentre calpestavo nuovamente quei pavimenti, mi sono sentita lo stomaco risalire in gola e le lacrime a bagnare gli occhi senza alcuna possibilità (e voglia) di controllarmi.

Mentre C. riempiva due bicchieri d’acqua, una delle prime cose che ho voluto vedere era la finestra del bagno da cui avevo visto Morgane distesa, incastrata tra il gabinetto e la porta. Alle 7.30 di quel mattino mi ero issata sulla ringhiera della scala che scendeva in giardino aggrappandomi alle sbarre della finestra per cercare di capire come mai non mi stesse rispondendo quando la chiamavo e bussavo alla porta. In questo pomeriggio di settembre, rivedendo quei luoghi, mi sono chiesta come avessi fatto, in che stato di trance e concentrazione fossi per pensare che quella fosse la cosa giusta da fare perché probabilmente era stato più pericoloso di quanto non avessi percepito allora.

Ci siamo accomodate nel salotto, C. sul divano, io sulla poltrona in cui ero seduta quando la dottoressa mi aveva comunicato il decesso. Abbiamo parlato un po’ di quella mattina lì, ripercorso gli eventi e il passaggio di quel tempo senza tempo. Poco dopo è arrivata una potenziale affittuaria della casa e C. si è concentrata su di lei e c’era qualcosa di così surreale nel sentirla presentare la casa con sicurezza mentre io ero nel pieno del mio raccoglimento e subbuglio. Surreale ma forse anche utile a togliere il senso di solennità un po’ pesante che il momento rischiava di avere. Mentre visitavano il seminterrato lasciandomi sola, sono entrata in ogni stanza, l’ho guardata con l’attenzione che non avevo avuto modo e tempo di dedicarle nelle mie due visite in occasione del compleanno di Morgane e della sua ultima sera in vita. Ero stata talmente distratta da altro che non avevo neanche memorie del grosso televisore e del ritratto kitsch del suo cane in salotto. Sono tornata in giardino, sono andata in bagno e mi sono seduta esattamente dove si era seduta Morgane dopo avermi detto le sue ultime parole. Ho sentito lo scorrere dell’acqua della cassetta del gabinetto che avevo sentito nel silenzio del mattino pensando che fosse la doccia. Camminavo e scuotevo la testa ancora incredula proferendo tra me e me parole di dubbia eleganza nei confronti dell’evento.

Rivedere quei luoghi è stato doloroso, immensamente, soprattutto all’inizio. È stato come un’esplosione uscita dall’antro più recondito in cui avevo riposto il mio dolore in questo quasi anno. E non è stata tanto l’esplosione a colpirmi quanto la sua intensità, non pensavo che l’impatto sarebbe stato così forte. Poi però C. è tornata con la potenziale affittuaria, abbiamo scambiato qualche parola ridendo, la donna è andata via ed è arrivato J.C., il vicino di Morgane con cui avevo scambiato qualche parola la mattina della morte e che aveva terminato la sua deposizione in commissariato proprio mentre io cominciavo la mia. J.C. è un pensionato bretone che credo aiutasse Morgane nei lavori di casa. Se c’era da tagliare una siepe, sistemare una finestra, era a lui che chiedeva aiuto o consiglio. J.C. aveva anche le chiavi di casa e immagino fosse una figura che, nella vita di Morgane, andasse oltre il factotum alla bisogna.

Abbiamo preso un caffè, chiacchierato, ci ha raccontato ridendo alcuni episodi dei suoi lavori in casa di Morgane ma non solo. J.C. però aveva un accento molto difficile da seguire per me e quando è andato via è stato un vero sollievo: ero stremata dall’impegno profuso per capire cosa stesse dicendo. Quella mezz’ora però è stata fondamentale per normalizzare la casa, per farla continuare a vivere, per toglierle l’aurea di tristezza che si portava dietro dal 24 ottobre.

C. mi ha detto che se volevo prendere un oggetto dalla casa avrei potuto ma che oggetto si prende di una persona che si è conosciuta appena? Mi sono allora trovata a cercare fra i libri negli scatoloni in cantina qualcosa da portarmi via. Ne ho scelti vari ma poi ho rimesso tutto a posto, mi sono tenuta solo un Paris pour les nuls, uno di quei libri della serie for dummies di cui Morgane aveva gli scaffali pieni. Quando andai da lei per la prima volta, trovare nella stessa casa quella collezione di libri dall’estetica così insignificante e scialba e una raccolta di poesie di Baudelaire sul tavolo da caffè, mi aveva causato un vero e proprio errore di sistema ed è per questo che alla fine ho scelto quel libro brutto ma dopotutto simbolico.

C. ha finito di sistemare la casa e, prima di andare via, mi ha chiesto se avessi impegni per la sera perché aveva due biglietti per il concerto dei Louise Attaque se mi andava di farle compagnia. E così da Saint-Denis abbiamo preso un Uber fino a Pantin, abbiamo portato Nobelle a passeggio, ci siamo ordinate una pizza da asporto (perché mai, oh francesi, mettete l’aglio sulla Margarita che si chiama in realtà Margherita e sulla Quattro Formaggi?) e poi via in metro verso il sud-est di Parigi.

Dei Louise Attaque conoscevo due canzoni che, ai tempi in cui le scoprii, quando cercavo gruppi francesi non conosciuti in Italia di cui vantarmi, mi piacevano molto. A distanza di molti anni invece quelle canzoni appartengono a un genere, una sorta di rock-folk da manifestazioni, che non mi appassiona più di tanto. Ma i Louise Attaque rimangono uno dei gruppi storici del rock alternativo francese e a un concerto non si dice mai di no, soprattutto se si vuole conoscere qualcosa del paese in cui si è deciso di vivere. Anche se non si può passare a casa e togliersi vestiti impregnati di sudore prima di andare.

Siamo arrivate appena prima dell’inizio del concerto in una arena gremita, il palco montato nel centro della sala. Uomini della sicurezza vegliavano affinché ci fosse sempre uno spazio laterale libero per il passaggio di chi doveva muoversi. Il caldo era tale che più di una volta le mie mani si sono avvicinate ai pantaloni con la voglia di toglierli.

Il concerto è stato piacevole e divertente, per me più la seconda parte che la prima con canzoni più vicine al mio gusto ma che, in quanto più recenti, scaldavano meno gli entusiasmi del pubblico nostalgico. Conoscevo solo due canzoni ma ho partecipato come forse nei miei tristi anni post liceo non partecipavo realmente neanche ai concerti di gruppi che ascoltavo quotidianamente. Mentre sorseggiavo una birra, mentre sentivo canzoni per la prima volta, mentre ballavo mi sono più volte trovata a pensare che wow, questa è davvero la mia vita. Non è perfetta ma è tornata ad avere un senso, uno spessore, una consistenza, una voglia e anche gioia di esserci. Ha smesso di essere un susseguirsi di ore, di giorni di cui non avere ricordi.

Ho vissuto tanti anni un po’ così, in cui sembravo spesso depressa ma forse semplicemente ero fuori posto. Ho iniziato a cambiare modo di stare al mondo circa due anni fa, quando un incontro mi ha dato il coraggio di uscire dalla mia comfort zone fatta di qualche alto ma molti piatti. È stato dopo quell’incontro che ho deciso di partire per il viaggio in Workaway ed è stato dopo il viaggio in Workaway che ho deciso di partire a Parigi guidata solo dall’istinto di doverlo fare.

L’ultimo anno è stato duro, frustrante, carico di un dolore di cui ho compreso la reale entità solo via via che il tempo mi toglieva i sigilli dal cuore ma, allo stesso tempo, non mi sono mai sentita dove volessi essere come mi sono sentita a Parigi. Anche se si suda in treno, anche se a volte ci sono i militari col Kalashnikov in stazione, anche se le persone scaracchiano in strada, anche se ho sostituito le certezze della Coop con le chiacchiere nelle épicerie che danno umanità alla spesa ma a volte il supermercato di fiducia è tanto più comodo e veloce anziché dover andare in tre/quattro negozi diversi per trovare tutto.

Il ritorno a una routine quotidiana mi ha ridato un ritmo di cui apprezzo la stabilità e la certezza di essermi meritata il riposo. Sarà che ho i fine settimana organizzati fino a fine mese ma mi sento abbastanza serena, rilassata, e la cosa per me più strana è l’attenuarsi del dolore, come se fosse strano che ad uno stesso pensiero non corrisponda più la stessa intensità dell’emozione di prima, quasi che fosse difficile separarsi dalla sicurezza del dolore. Può sembrare un paradosso ma forse non è così distante dalla paura di uscire dalle comfort zone, anche le peggiori, perché non si sa cosa c’è fuori ed è più rassicurante restare là dove si conosce ogni piega e piaga.

Io però non mi lamento, per quanto il mio dolore mi abbia fatto compagnia negli ultimi undici mesi, penso di potermi abituare alla sua versione sbiadita.

Lascia un commento