Sergio Staino è morto sabato 21 ottobre 2023. Dal 2010 però, per me non è Staino o Sergio Staino, è semplicemente Sergio. Per dodici anni sono stata la sua assistente e ho vissuto buona parte del dietro le quinte di quel che la maggior parte delle persone vedeva sui giornali, in tv e ovunque Sergio comparisse. È stato a tratti entusiasmante, a tratti noioso, a tratti difficile, è stato il mio lavoro ed è stato anche un privilegio, tanto che per molti anni ho risposto con molto pudore alla domanda “che lavoro fai?”. Ieri sono stata alla commemorazione pubblica, non sono riuscita a leggere il mio ricordo ma questo è quello che avevo scritto. Assolutamente non esaustivo perché Sergio era tante cose diverse che sarebbe stato impossibile condensare in pochi minuti.

È da quando Ilaria mi ha scritto che Sergio è morto che cerco di riordinare le idee. Che cerco di dividere il Sergio privato da quello pubblico. Che cerco di separare i momenti in cui non l’ho sopportato da quelli che invece mi porto dietro.

Perché ho lavorato con Sergio fianco a fianco per dodici anni e sarebbe ipocrita dire che è stato tutto meraviglioso. 

C’è chi riceveva le sue telefonate di chiamata all’azione per una raccolta firme, per organizzare una manifestazione, per fare una vignetta a favore dei migranti, per scrivere un articolo sicuramente fondamentale per le sorti dell’Italia. 

Io, invece, ricevevo telefonate in orari extra lavorativi perché magari c’era da mandare una newsletter molto urgente, se potevo andare da lui immediatamente e no, non poteva aspettare l’indomani 2 di gennaio. 

Sergio però era un uomo intelligente e consapevole di questa sua attitudine. Per i miei 33 anni mi disegnò in croce con la sigla « INRI » sostituita dalla scritta « Staino ». 

Quando abbiamo smesso di lavorare insieme e sono partita per un viaggio di tre mesi e mezzo, mi ha allungato delle banconote dicendomi: « Per tutte le volte che in questi mesi ti romperò sicuramente i coglioni ».

Penso sia superfluo precisare che lo ha fatto.

Ma Sergio non era solo un rompicoglioni. Sergio era soprattutto un uomo generoso e innamorato oltre misura del talento. Se durante la notte alla radio sentiva una canzone di un’artista a lui sconosciuta, l’indomani trovava il modo di recuperare un suo contatto, a costo di telefonare a tre persone diverse, solo per poterle dire che aveva scritto una cosa meravigliosa. 

Quante volte arrivando la mattina mi diceva: « Scrivi a Laura, la sua vignetta oggi era bellissima ». Non c’è mai stata invidia in Sergio, solo il sincero riconoscimento del valore di un’opera altrui e la voglia di comunicarlo.

Sergio preferiva la collaborazione alla competizione.

Quando ho iniziato a lavorare con Sergio ero all’alba dei 24 anni e racconto sempre di come dal basso della mia post adolescenza potessi avere l’ultima parola su una sua vignetta. Doveva essere un’ultima parola ben argomentata ma mi ha sempre colpito il modo in cui ascoltasse le critiche di quella che in fin dei conti era ancora una ragazzina. 

Ma Sergio ha sempre seguito con interesse quel che si muoveva a livello giovanile, consapevole che i giovani non erano solo una categoria di cui riempirsi la bocca nel dibattito pubblico ma erano, soprattutto, il futuro che la sua generazione non rappresentava più.

Si definiva un « cartoonist » ma dietro ogni disegno, ogni vignetta, c’era un mondo che andava dalla storia dell’arte alla storia tout court, dalla scienza politica alla cultura popolare, alla letteratura, al teatro, alla musica e a qualunque cosa potesse servire. Nell’opera di Sergio tutto si mescolava, cultura alta, cultura bassa, una conversazione con la parrucchiera, una col sindaco, il passaggio per casa dei nipotini, tutto poteva essere usato graficamente o letterariamente e diventava qualcosa di nuovo, qualcosa di suo e di tutti quelli che lo leggevano e ridendo di Bobo ridevano un po’ anche di se stessi.

Ho sentito Sergio dare innumerevoli interviste sui temi più svariati ma c’è una risposta che mi è rimasta impressa più di altre. Disse che secondo lui una delle ragioni del successo di Bobo stava nella sua sincerità, in quella di Bobo e in quella di Sergio che lo aveva creato. Credo che fosse questa sincerità a far sentire i suoi lettori un po’ meno soli.

L’ultima volta che ci siamo sentiti è stato quasi un anno fa ormai, un paio di giorni prima del suo ricovero in ospedale. Era tornato da poco dal Tenco, era contento di come fosse andato ma lo avevo sentito molto stanco. Io gli avevo raccontato della storia assurda e tristissima in cui mi ero appena ritrovata. Era però stata una telefonata leggera, tra due amici, non tra un’assistente e un capo e avevo riattaccato felice.

Da poco più di un anno vivo a Parigi. Sono partita un po’ allo sbaraglio e con un curriculum molto difficile da far capire ai francesi. 

Ho sempre pensato che la mia competenza lavorativa fosse legata alla presenza di Sergio, al mio essere un’esecutrice delle azioni che lui non riusciva ad eseguire a causa dell’incipiente cecità. Ho scoperto andandomene che in realtà un po’ mi sbagliavo, che con Sergio ho imparato a camminare anche sulle mie gambe e che quel che mi porto dietro di questi dodici anni va ben oltre la conoscenza del concetto dei livelli di Photoshop. 

Credo però e soprattutto, che quello che mi porto dietro di Sergio sia un modo allo stesso tempo profondo e leggero di stare al mondo. Probabilmente spesso anche perdente ma con la coscienza che l’alternativa non è un’opzione.

2 pensieri riguardo “Ricordo non esaustivo di quel signore di Scandicci

  1. Beh sicuramente il tuo ricordo è il più vero. Non ci sono eufemismi né dorature ma l’odore di una convivenza strettissima con un protagonista del dibattito politico italiano. Un abbraccio

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