Ultimamente mi sono presa molto tempo tra un post e l’altro. Fondamentalmente o avevo altro da fare o avevo poco da raccontare, per quanto le due cose possano sembrare in antitesi. Avevo però iniziato a scrivere questo post pochi giorni dopo il precedente, in seguito alla diramazione della massima allerta terrorismo sulla Francia, perché pensavo che il momento richiedesse un testo più immediato. Alla fine però il quotidiano ha preso il sopravvento e mi ritrovo a raccontare le ultime settimane in ritardo.

Intanto le racconto da una casa non mia (e pertanto ben riscaldata) in cui mi trovo questo fine settimana a fare la cat-sitter. A Parigi non fa ancora del tutto freddo, c’è solo stato un abbassamento delle temperature durato meno di una settimana e poi è tornato ad essere un piovoso autunno dalle temperature più miti del dovuto. Il mio portafoglio e la mia sensibilità al freddo non vorrebbero lamentarsene ma la preoccupazione di quel che queste temperature insolite vogliono dire a livello climatico mi interroga certamente.

Il clima non è l’unica questione di attualità che mi interroga, penso che per non porsi domande in questo momento storico si debba essere prede di un grado di inconsapevolezza sconsiderato. Confesso il mio peccato, ogni volta che provo a leggere qualcosa della questione israelo-palestinese il mio cervello si inceppa perché mi sembra di trovarmi di fronte a qualcosa di inconcepibile e che è andato troppo in là per poter essere riparato. Eppure penso anche che non si possa restare indifferenti e che se non una posizione, almeno un dubbio vada espresso. Ebbene, ogni volta che mi confronto con la questione palestinese mi interrogo fortemente sulla legittimità di quel che lo Stato di Israele impone al popolo palestinese e la risposta è principalmente: no, non è legittimo. Non credo particolarmente all’indignazione social e mi trovo molto a disagio nel condividere contenuti in cui non sono io a dire esattamente quel che penso ma trovo anche difficile stare qui a scrivere quanto sia bella o meno la mia vita a Parigi mentre non così lontano da me sta accadendo qualcosa che mi disarma e addolora allo stesso tempo. In Francia poi, il conflitto è molto più vicino di quanto non sembri.

Come ho scritto più volte la Francia non è perfetta. E’ un paese che dà molte opportunità a chi si conforma senza problemi alle sue norme ma non riesce a gestire chi invece sta ai margini di questa assimilazione a tratti forzata.

Penso che l’argomento sia ben più grande di me e che non ho intenzione di addentrarmi in elucubrazioni su temi che non conosco sufficientemente per poterne scrivere con piena cognizione di causa ma, se ho ben capito tra una chiacchiera e un’altra, uno dei problemi della Francia è che ha voluto imporre la sua cultura in maniera forzata a tutti quelli che sono venuti da fuori anziché accettare le diverse comunità come altre da sé. L’altra questione è che, almeno a Parigi, la Francia ha preso ogni sintomo di disagio e, anziché provare a risolverlo, lo ha relegato insieme a tutti gli altri disagi nelle periferie, creando di fatto polveriere che aspettano solo la miccia giusta per esplodere.

Io so che la mia Parigi è diversa alla Parigi di altre persone che, come me, sono venute da fuori. Diverse le nostre storie, diverse le nostre reti, diverse le nostre aspettative, diverse le percezioni che di noi hanno i francesi.

Ho vissuto i primi giorni di allerta terrorismo con un certo timore, chiedendo a espatriati di lunga data come fossero state le precedenti allerte. C’è stato chi mi ha detto che non cambia molto se non la possibilità delle forze dell’ordine di fermare e controllare chiunque senza particolari mandati ma che non ho esattamente il profilo che crea sospetti. Inoltre, l’allerta fa aumentare l’attenzione e quindi dovrebbe essere più facile intercettare azioni violente. Qualche giorno dopo invece ho avuto conversazioni più preoccupate e quindi mi rimane il dubbio che la prima versione delle cose sia stata prodotta ad uso e consumo del mio bisogno di essere un po’ rassicurata. Come dice mia sorella però, quando abiti in una grande città prendi anche in considerazione l’ipotesi di trovarti coinvolta in un attentato. Come ho imparato quest’anno, si può morire di qualunque cosa in qualunque momento e a qualunque età, quindi ho adottato la tecnica locale: fare come se niente fosse (per quanto non tranquilla al 100%) e, quando possibile, prediligere la bicicletta ai trasporti in comune che è una cosa che dio solo sa perché mi dà sicurezza visto che per andare a lavoro passo per il pieno centro di Parigi (place de la République, Notre Dame, Sorbona, Pantheon) e la bicicletta può essere pericolosa anche in sé. Però a me rassicura dover pensare alle tante altre biciclette, ai pedoni e alle auto che ho intorno anziché agli altri passeggeri che ai miei occhi ansiosi potrebbero essere tutti potenziali terroristi.

I vantaggi della bicicletta

E proprio la bicicletta costituisce la grande novità del mio mese di ottobre, l’ennesima dimostrazione che Parigi è piccola, che la si può tagliare lungo la sua quasi totale interezza da nord a sud in 35/40 minuti di bicicletta capaci di regalare cieli e scorci che la metropolitana e il treno nascondono. Che le sue piste ciclabili sono numerose e che ho sentito una persona lamentarsi che erano troppo affollate. Come tutto, il sistema comunale di biciclette condivise non è perfetto, trovare una bicicletta in buone condizioni e con la batteria carica è una grazia mai scontata e trovarla al primo colpo una necessità visto che nell’abbonamento è compreso un massimo di due percorsi quotidiani non più lunghi di 45 minuti in bici elettrica. Ma finché il mio abbigliamento è adeguato non demordo e quando non piove mi carico la preoccupazione di dover provare più bici prima di trovarne una adeguata, magari a un orario in cui l’unica altra alternativa all’ora e mezzo circa a piedi è il taxi e trovare una bicicletta che voglia staccarsi dal suo supporto sembra impossibile, ma finalmente riuscirci solo per tenere gli occhi aperti in attesa di una ulteriore stazione in cui cambiarla. Però vuoi mettere il centro di Parigi alle 3 di notte sotto un raro cielo stellato del periodo?

Cerco di ricordarmi cosa ho fatto in queste settimane trascorse tra questo e l’ultimo post e ci vedo settimane fatte di tentativi di non chiudermi all’interno del metro, boulot, dodo (metro, lavoro, letto, un modo per indicare un ritmo di vita scadenzato dal trasporto per andare al lavoro, il lavoro e il riposo notturno ma poco altro). Sono andata al vernissage di una mostra all’Istituto italiano di cultura e mi sono ritrovata a chiacchierare con persone incrociate in passato, sono andata a vedere un corto metraggio su Patrizia Cavalli e una mostra dedicata all’illustratrice Tove Jansson di cui non sapevo niente con un gruppo di italiane che si sono date appuntamento tramite uno dei tanti gruppi Facebook di italiani/e a Parigi. Ho continuato a seguire il mondiale di rugby fino alla fine e ho avuto un paio di compleanni da festeggiare. È forse questo l’aspetto più caratteristico del mio tempo a Parigi: la necessità e volontà di cercare attività al di fuori della routine.

Le illustrazioni di Tove Jansson

Ho visto C. due giorni prima dell’anniversario della morte di Morgane perché il giorno stesso non ci sarei stata e forse è bene passare quelle giornate con chi, per quanto con modalità differenti, condivide uno stesso lutto ed è stato bello sentirla finalmente parlare di cosa fosse Morgane per lei, come se avesse finalmente avuto voglia anche lei di parlare e non solo di ascoltare. E io penso che passato un anno, almeno per me, il dolore si è affievolito sempre di più, conservato in uno spazio a cui poter attingere quando vorrò ricordare ma non più un mare denso in cui cercare di stare a galla quotidianamente.

Sono stata 48 ore a Firenze per un funerale a cui non potevo mancare perché tanto di quello che sono lo devo anche al defunto e non riuscivo ad essere completamente triste, circondata com’ero da tutte quelle persone che ho incontrato con reciproco affetto in dodici anni di lavoro. O forse ero nell’ovatta di tutto, di un lutto più comprensibile che però si porta dietro il suo carico di cose che non ci si potranno più dire e di “chissà cosa penserebbe Sergio di questa cosa”.

La mattina dopo il mio rientro dall’Italia, sulla linea 2 della metropolitana come esce dal sottosuolo per sopraelevarsi sulla città, ho rivisto quel cielo basso e quasi opprimente che tanto appartiene a Parigi. Sarà che avevo ai lati i due canali de l’Ourcq e Saint Martin che amo particolarmente e in fronte l’apparizione della basilica del Sacro Cuore sulla collina di Montmartre ma mi è sembrato casa anche il grigio delle nuvole e ne sono stata felice.

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