Sono diventata adulta un limpido e gelido venerdì di dicembre. Quella sera in macchina con me c’era una ragazza di quasi 16 anni, io ne avevo circa il doppio. Verso l’ora di pranzo la notizia aveva iniziato a diffondersi sui giornali e in alcune delle chat di Whatsapp di cui facevo parte: un uomo aveva ucciso la moglie. La ragazza in macchina con me quella sera era la figlia maggiore della coppia e io ancora non sapevo cosa esattamente sapesse lei dei particolari che avevano appena sconvolto la sua vita. Addirittura non ero neanche sicura che sapesse che la madre era morta. Tra andata e ritorno trascorremmo circa un’ora e mezzo in macchina, l’ora e mezzo più difficile della mia vita o almeno, l’ora e mezzo più difficile della mia vita fino ad allora. Solo sulla via del ritorno ad un certo punto la ragazza alzò gli occhi dal cellulare e mi disse che la madre era morta e lei lo aveva appena saputo da un messaggio.

Dico sempre che quello è stato il giorno in cui sono diventata adulta perché nessuno mi aveva preparata a una situazione simile e l’unica cosa che avevo potuto fare era stata imparare istante dopo istante ad affrontare una situazione più grande di me. Penso adesso che quello sia stato anche il giorno in cui ho iniziato ad essere arrabbiata e questa rabbia, negli ultimi anni, è diventata sempre più condivisa. Perché sì, vivo da sola, viaggio da sola, torno a casa la sera da sola ma, in quanto donna, non do mai per scontato il fatto di poter fare tutto ciò in sicurezza. In quanto donna, c’è sempre un pensiero più o meno latente che mi ricorda che devo fare attenzione. E come l’ho io questo pensiero, lo hanno tante altre donne. Penso che sia stato in nome anche di questo bisogno di condividere una rabbia comune, di non far finta che mi vada tutto bene, che il 25 novembre sono scesa nelle strade di Parigi. Quello che invece non è condiviso per me è il patrimonio musicale delle manifestazioni che, con una certa frustrazione, mi è ignoto a queste latitudini.

Ciononostante, nel primo vero freddo di Parigi ho seguito il corteo da place de la Nation a place de la République. Con un’amica e dei suoi amici ci siamo mescolati alla folla di viola vestita cercando di non perderci nessuno dei vari gruppi che partecipavano alla manifestazione. O forse, loro non si perdevano niente, io li seguivo passivamente, con gli occhi svuotati e la sensazione di non riuscire a cogliere niente, come se la vita mi attraversasse senza farmi alcun effetto. Perché sì, ormai è un anno che scrivo di Morgane, della sua morte, del mio modo di affrontare una quotidianità che è stata sconquassata da questo lutto. E’ un anno che ne scrivo e sono mesi che dichiaro essere sulla buona strada per superare il trauma. La verità è che le ultime settimane hanno portato una buona e una cattiva notizia sul tema. La cattiva è che ci sono episodi totalmente scollegati da qualunque cosa possa avvicinarsi a Morgane in grado di gettarmi in uno stato psicologico che non ha niente di diverso da quello in cui ho galleggiato lo scorso inverno, non tanto per una causa comune ma perché l’effetto, per tre giorni, è stato identico a quello da cui ho faticato ad uscire per mesi ed è così che stavo il fine settimana del 25 novembre.

La buona notizia, invece, è che una mattina mi sono svegliata in un letto non mio e la notte non era venuto a trovarmi nessun fantasma. Né quella notte, né quelle che sono seguite perché forse davvero siamo fatti per continuare a vivere e le cicatrici destinate a perdersi sotto strati di nuova pelle. Sia quel che sia, le mattine in cui non mi sono svegliata nel mio letto bensì ai piedi della torre di Montparnasse, la torre da cui si dice si gode della migliore vista di Parigi soprattutto perché non si vede la torre di Montparnasse stessa, ho alzato gli occhi verso il suo profilo così scollegato dall’impianto urbanistico circostante e mi è sembrata bella pure quella.

Tour de Montparnasse

A Parigi è arrivato davvero l’inverno. Un giorno sono uscita in bicicletta la mattina ed era autunno, quando durante la pausa pranzo sono andata a passeggio per la Cité Universitaire la stagione era definitivamente cambiata e lo dico con un certo sollievo. Ci sono state poche giornate limpide e fredde alternate alle tipiche giornate parigine grigie e plumbee con tanto di nevischio ma ora pare di essere nuovamente più in un autunno inoltrato che nelle settimane che precedono il Natale.

Due settimane fa sono andata al cinema a vedere il mio primo film in francese senza sottotitoli da quando sono qua. Il film non mi ha particolarmente entusiasmato, ho avuto l’impressione che mi mancassero troppi punti di riferimento storico-culturali per poterlo apprezzare veramente. Mi sono però sentita pienamente integrata nella vita locale. Quando ho raccontato l’episodio ai genitori di Elio mi hanno confermato che sì, ero diventata pienamente parigina: ero andata al cinema, avevo visto un film con Marion Cotillard e, come una parigina qualunque, ne ero uscita pensando che non fosse un granché.

Per questioni di riservatezza non racconto quasi mai niente del lavoro, ho però avuto una conversazione molto interessante con la mia direttrice e uno dei nostri residenti italiani. Eravamo tre generazioni, non tanto lontane ma comunque diverse, a confronto. Io raccontavo di come avessi l’impressione di appartenere a quella generazione cresciuta credendo di vivere in un mondo in cui tutto era possibile e che invece si era scontrata con la disillusione del mondo post 11 settembre della precarietà perenne in tutti i campi. Il nostro residente ci spiegava che lui, invece, era cresciuto fin dall’inizio sapendo che se voleva fare qualcosa, doveva andarsene via dall’Italia. E mi sembra uno dei pareri più diffusi nella comunità italiana che ho incontrato qua. Una comunità che si è trovata a lavorare in un mercato del lavoro diverso e ha scoperto che esistono altri modi di guadagnarsi lo stipendio. Che esistono degli orari equilibrati, dei diritti, delle responsabilità date molto prima dei cinquant’anni, la valorizzazione del lavoratore/lavoratrice. Non è ovviamente così dappertutto ma quello che in Italia pare essere l’eccezione, qui è piuttosto la regola (con alcune eccezioni).

Poi basta una conversazione tra francesi per realizzare che quel che per noi italiani sembra un punto di arrivo, per loro è un luogo da cui scappare. Come mi diceva un amico citando Giorgio Bocca (se non ricordo male): i francesi vivono in paradiso credendo di essere all’inferno. E’ vero che tra attacchi terroristici e le imminenti Olimpiadi non è un periodo semplice, i francesi comunque hanno la lamentela come principio fondante della loro esistenza quindi la verità probabilmente sta nel mezzo. Devo però ammettere che quando un Ministro dei Trasporti invita gli abitanti che gravitano su Parigi a prendere ferie durante i Giochi Olimpici per non sovraccaricare i trasporti, c’è più di un elemento che può destare preoccupazione. Considerando lo stato dei trasporti di cui ho vissuto in prima persona problematiche che sono arrivate sui giornali nazionali pochi giorni fa, sono imbarazzata per la macchina organizzativa delle Olimpiadi ma non sorpresa.

Giovedì scorso a Parigi c’era un’aria da apocalisse. All’uscita dal lavoro era già buio, arrivata alla stazione della RER l’atmosfera mi aveva già insospettita. Da un treno in direzione opposta fermo da un po’ al binario arrivavano voci che attraverso le cuffie mi parevano concitate. Poi l’annuncio: in seguito a un guasto sulla segnalazione a livello della RER a Châtelet, il traffico era fortemente perturbato su tutta la rete e la B non avrebbe raggiunto Gare du Nord che invece era la stazione che serviva a me. Ero troppo stanca per cercare una bicicletta nelle stazioni circostanti in cui trovarne è raro e altrettanto ottimista per pensare che ci avrei messo un po’ di più ma che valeva la pena aspettare. All’arrivo del treno ho conquistato il mio spazio vitale e ho aspettato la ripartenza a passo lento verso la stazione successiva. Ormai però avevo deciso: sarei scesa e avrei cercato un percorso alternativo. Più o meno come tutti quelli che dovevano andare dove dovevo andare io. E quindi sono passata dalla B alla 4 e l’unica vera differenza era che il vagone era più vuoto quando l’ho preso ma a ogni stazione si è riempito sempre di più e ad ogni stazione l’attesa prima di ripartire si prolungava e i miei occhi si chiudevano sempre di più e volevano essere a casa. Dopo aver deciso che l’agonia di passare tra i 5 e i 10 minuti ferma ad ogni stazione fosse troppa, mi sono decisa a scendere per cercare una bicicletta. Pioveva, fortunatamente non a scroscio e ho preferito quella alle lunghe attese o ai passi riparata da un ombrello non particolarmente performante. Se sotto terra l’atmosfera era degna degli automi di Metropolis, sopra era la fine del mondo. Traffico, pioggia, biciclette (tra cui un po’ anche la mia) che compievano manovre sconsiderate, sirene di ogni genere, mi sentivo di più in un film catastrofico che nella realtà di un giovedi’ sera. O forse Parigi dieci giorni prima di Natale con i trasporti bloccati è la cosa più vicina a un blockbuster hollywoodiano sulla fine del mondo in cui mi sia trovata finora.

Quando ho iniziato a scrivere questo post volevo raccontare di come la paura degli attentati mi sembrasse scemata, di come avessi smesso di guardarmi intorno sui treni e sulle metropolitane alla ricerca di potenziali pericoli. La verità è che, al di là del fisiologico abbassamento della guardia, probabilmente sono troppo occupata a vivere per aver paura di morire. Mi ricordo sempre un verso di una canzone dei CCCP, la morte è insopportabile per chi non riesce a vivere, e forse è così che ho vissuto l’ultimo mese, in opposizione a questo verso. Con troppe poche ore di sonno e una casa usata più come un punto di appoggio che un luogo in cui vivere ma immensamente più densa dei mesi evanescenti di un anno fa.

Dunque altre settimane sono trascorse a Parigi, una città che ho scoperto avere la stessa superficie di Firenze ma in cui si incrociano una densità di vite incredibilmente maggiore. Una città che sembrano tante città diverse e quando torno a casa mia dopo aver passeggiato per Montparnasse mi sembra incredibile di essere nella stessa città. Una città in cui, come mi ha detto un’amica, tutti trovano il loro posto e forse anche io sento di aver trovato il mio.

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