Chi dice l’importante è finire non ha mai avuto un foglio bianco su cui cominciare. Sono i primi versi di una delle varie canzoni che ho scritto quando ancora avevo lunghe ore vuote di fronte a me. In particolare, questa l’avevo scritta nella mia camera alle Lilas un giorno di dicembre di due anni fa. Morgane era morta da un mese e mezzo e io quasi fatico a ricordare come mi sentissi allora. E non perché non me lo ricordi ma perché ci sono giorni in cui sento che in qualche parte del mio apparato digerente, le sensazioni di quei giorni sono conservate con tutta la loro carica di dolore. Che mi sembra anche strano che a distanza di due anni e mezzo e tutto quel che è successo nel frattempo, in una giornata dal meteo variabile, percorrendo in bici la pista sul retro della stazione di Montparnasse e guardando la torre Eiffel con la sua punta protesa verso nuvole dense e grigie, quasi adagiata in mezzo a una foresta verdeggiante di tigli che ombreggiano il viale, possa ritrovarmi in una malinconia quasi senza fondo. E che arrivata a casa, mentre cerco le parole per iniziare questo post, abbia proprio voglia di ascoltare quella canzone e i suoi primi versi che mi tolgono dall’impiccio di trovare un inizio. Eppure ancora succede.

A Parigi quindi è pienamente tempo di andare in bicicletta quanto più possibile. Soprattutto perché uno dei miei regali di compleanno è stata la rimessa in funzione di una bicicletta Lejeune abbandonata da un anno sul retro della Maison de l’Italie. Da quasi un mese, quando non piove (cioè spesso) la mattina indosso casco e gilet catarifrangente e percorro i 4 km di strada che separano il lavoro dalla casa in cui ora abito ufficialmente seppur per poco. Ancora non ho un vero parere su cosa preferisca tra gli spazi ristretti in cui si ammassano persone dagli sguardi addormentati e infelici e gli imprevisti del trasporto pubblico o il nervosismo neanche troppo strisciante causato dalle continue ripartenze provocate da pedoni che non si curano di verificare che sia il loro turno di attraversare, onde rosse di semafori, la concentrazione massima dedicata a prevedere i movimenti di qualunque essere umano a piedi, in bici o motorizzato che possa incrociare il mio percorso e l’impatto quotidiano con la proverbiale e rabbiosa lamentela parigina. Di certo però non arrivo più a lavoro ancora mezza addormentata perché nella ventina di minuti di bici ho dovuto allertare tutti i miei sensi e, soprattutto, posso crogiolarmi nell’illusione che se l’iniziale impulso ad andare a correre dopo lavoro si è miseramente esaurito dopo un mese, sottopongo lo stesso il mio corpo a del movimento quasi quotidiano, a tratti in salita e con una bicicletta che richiede gambe forti per essere mandata avanti. Dico che non ho un vero parere ma la verità è che ogni minuto rubato agli spazi chiusi è un minuto guadagnato e che ho perso un tempo che prima dedicavo a musica o podcast ma il mio corpo ha sicuramente guadagnato la rigenerante sensazione di essere usato.

Le giornate di sole limpido di fine febbraio non sono state una finta. Salvo qualche giorno di pioggia qua e là, gli ultimi due mesi hanno ricordato ai parigini che si può anche essere felici in questa città, che il malumore e l’accidia dei mesi precedenti avevano una causa indipendente dalla propria volontà e che vedere il sole per settimane ha effetti benefici sul corpo e sullo spirito.

Come succede in tutte le grandi città, appena esce il sole le persone si radunano tutte nello stesso posto. Lo avevo già notato in alcuni passaggi al bois de Vincennes, è stato ancora più evidente i due fine settimana di seguito in cui siamo state al parco di Sceaux, nella borghese banlieue sud di Parigi. In mezzo a orde di parigini siamo andate alla ricerca della fioritura dei ciliegi, un tempo luogo di raccolta della comunità giapponese, ora spazio cannibalizzato da Instagram che rende l’ombra di queste enormi masse di fiori bianchi e rosa un via vai brulicante di persone rumorose che hanno avuto la stessa idea e che probabilmente lo comunicheranno via social. E però, nonostante una folla che sotto i ciliegi ricorda più quella di un concerto che di uno spazio verde, nella normalità di un parco, una domenica a qualche centinaio di metri della ressa, sono riuscita ad addormentarmi al sole e pensare che mi fossi rilassata.

Tra l’ultimo post e ora, mentre la luce invernale si trasformava in primaverile e la città si tingeva di verde, rosa e azzurro carico, ho accumulato le solite tante cose fatte, al punto che essere a casa da sole per due sere di seguito e aver di nuovo il tempo di sederci di fronte ad una serie (nello specifico Adolescence) è sembrata una novità inenarrabile. Anche i fine settimana che parevano più tranquilli hanno finito per trasformarsi in maratone impreviste in cui, una volta uscite di casa, gli eventi ci trascinavano da una parte all’altra della città, che fosse una birra con uno zio manifestatosi all’ultimo minuto tra un museo e una cena oppure una manifestazione a cui non pensavamo di riuscire ad andare ma poi eravamo nei dintorni ed è stato bello ricordarci che esiste una comunità a cui ci sentiamo di appartenere. Ci sono stati passaggi estemporanei in negozi per comprare scarpe che attendevano di essere comprate da almeno un anno seguiti da attraversamenti della città per raggiungere Montreuil ossia il posto dove forse mi piacerebbe abitare se non lavorassi a troppi cambi di metro di distanza per poterlo prendere in considerazione. Passeggiate con amici al jardin du Luxembourg seguite da aperitivi e cinema con altri amici con cui magari decidere di andare a teatro due mesi dopo. Un fine settimana in cui andare il venerdì ad un piccolo festival su una peniche la cui prima serata è stata chiusa dalle atmosfere contemporaneamente ancestrali e tribali di Daniela Pes che coi suoi movimenti animaleschi sinuosi ed eleganti creava una sorta di rave, e il sabato trovarsi alla Défense Arena per il musicalmente ineccepibile ma molto vanitoso Lenny Kravitz con apertura a cura di Richard Ashcroft che la maggior parte del pubblico non aveva idea di chi fosse finché non ha concluso il suo set con Bittersweet Symphony.

Dietro gli Invalides

C’è stato il mio compleanno festeggiato con un fine settimana in visita da mia sorella a Londra da cui tornare cariche di fumetti, sonno, malinconia per la brevità del soggiorno che ha impedito di sfruttare appieno le ore in famiglia, dedicate a giochi da tavola, Mescal e tisana, e la sensazione di essere veramente al centro dell’Europa (almeno quella geografica) in cui col treno si arriva un po’ dappertutto. Ci sono state amiche in visita e visite ad amici a Dijon in cui lo stress delle situazioni surreali in cui ci siamo trovate è stato ripagato da una città serena, rilassata, in cui riposare la mente dall’incessante movimento di Parigi. C’è stata la visione di Vermiglio di Maura Delpero al cinema e pensare che ci sono dei film che vedo e di cui so dire con certezza quanto mi siano piaciuti. C’è stato scoprire angoli sconosciuti di questa città anche in zone della città in cui vado solo se proprio devo.

C’è stato realizzare che fra due settimane vado in ferie per quasi dieci giorni e che non faccio un giorno di vacanza da capodanno. I mesi di fronte a me richiederanno tutta la mia energia.

Un pensiero riguardo “Sous le ciel de Paris / 55

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