Ho sempre preso la vita con calma, una calma tale che riprendo le fila di un’estate lontana dal blog ad ottobre quando agosto sembra allo stesso tempo vicino ma anche lontanissimo. Ma questi quasi due mesi e mezzo sono stati pressoché senza tregua, non so se perché con l’avanzare degli anni il tempo sembra restringersi o se semplicemente sono aumentate le attività con cui lo riempio. Sta di fatto che le sere in cui esco da lavoro e vado direttamente a casa senza niente da fare sono talmente rare che lo noto. Ed è così da mesi.
Agosto non è stato solo Giochi Olimpici e Paralimpici, almeno la prima metà è stata una piccola appendice di ferie. Quando ancora pensavamo di voler fuggire il più possibile la città olimpica (ma forse la città in generale) almeno il fine settimana, abbiamo preso i biglietti per un fine settimana a Bordeaux. Indice dello stato di totale confusione e stanchezza in cui eravamo nel periodo pre ferie in cui abbiamo acquistato il treno: abbiamo realizzato solo due giorni prima di prendere il treno che non avevamo prenotato un posto in cui dormire.
La dimenticanza si è rivelata probabilmente salvifica perché abbiamo trovato un appartamento all’ultimo momento a due passi dalla stazione, collocazione perfetta per chi a Bordeaux ha finito solo per dormire e mangiare l’ultima sera, curiosamente per caso nello stesso bistrot in cui avevo cenato da sola due anni prima durante una delle tappe del mio Workaway. Sia il sabato che la domenica abbiamo preso un treno per Arcachon perché volevo condividere la maestosità della dune du Pilat e perché forse entrambe preferivamo stare al mare che in città.
L’oceano è diverso dal Mediterraneo. Forse lapalissiano ma non ci avevo pensato realmente, come quei pensieri che si cerca di far sedimentare nella memoria delle cose della vita che l’esperienza ci ha insegnato. Prima di scalare la duna, abbiamo trascorso qualche ora su una spiaggia chiamata le petit Nice. Ci aspettavamo una versione atlantica del mare di Nizza, magari non esattamente la stessa cosa, ma quanto meno balneabile. Ci siamo trovate di fronte ad una lunga distesa di sabbia in cui il bagno era consentito solo tra le due colonne sotto il controllo dei bagnini. Altrove, bastavano pochi passi verso l’acqua per sentire il fischio del bagnino che invitava a tornare verso la spiaggia. Comprensibilmente. Benché il mare non fosse particolarmente agitato, l’unico modo di fare il bagno era stare in piedi nell’acqua, farsi schiaffeggiare dalle onde e poi resistere alla forza della risacca. Nel frattempo sperare che la marea non avesse progressivamente raggiunto anche il tuo asciugamano.

Al di là del diverso approccio al mare, eravamo comunque uscite dalla città e vedere cose diverse dalla densità abitativa di Parigi è sempre molto rilassante. Quando il sole ha iniziato a scendere abbiamo anche affrontato la dune du Pilat, meravigliate come fosse la prima volta dalla sua imponenza e dall’imprevedibilità: non penseresti mai di trovare una duna così alta proprio lì.
Ad Arcachon abbiamo cenato, una crêpes sul lungomare al tramonto, in una cittadina di mare che sembra uscita dall’Ottocento coi suoi moli e la giostra in riva al mare. Pur di non restare a Bordeaux e nella frustrazione di non avere un’auto per poterci muovere più liberamente, domenica abbiamo ripreso il treno per Arcachon e un battello per cap Ferret, dall’altro lato del golfo. Tra allevamenti di ostriche e un turismo che mi è parso più ricco, ci siamo fatte una passeggiata fino al faro, decretando che saremmo potute tornare in una stagione in cui non necessariamente si fa il bagno. Del resto l’acqua dall’aspetto stagnante e di tonalità fra il verde e il marrone, non ci aveva per niente incuriosite.
Due settimane dopo l’estate era praticamente finita e durante il fine settimana successivo a Ferragosto trascorso a due passi dalla Normandia, la giacca è tornata ad essere fondamentale e non un accessorio.
Essere a due passi dalla Normandia con a disposizione una macchina significa andare in Normandia. Una tappa a Rouen per pranzo, un salto al museo delle Belle Arti e alla sua collezione di Impressionisti che tanto hanno dipinto quelle zone, una passeggiata culminata nel fremito difronte alla sua cattedrale gotica. E poi via verso il mare di Etretat dove siamo giunte poco prima del tramonto, appena in tempo per ribadire il mio cattivo rapporto con gli uccelli in località marine che mi piombano addosso per il mio cibo quando un gabbiano si è lanciato sulla mia crêpes facendola cadere irrimediabilmente a terra.


Il ritorno serale in macchina è stato forse uno dei più faticosi che mi siano capitati, due ore su un’autostrada buia e per me sconosciuta. Un’altra di quelle piccole differenze che ancora mi capita di notare fra la Francia e l’Italia che ricordo.
La mia idiosincrasia per la programmazione ha fatto sì che i biglietti per visitare la casa di Monet a Giverny fossero esauriti per gli orari compatibili col nostro treno di rientro a Parigi, ci siamo quindi fermate in una Vernon tardo autunnale, città adagiata sulla Senna le cui prime tracce risalgono al Medioevo.
ll ritorno a Parigi è coinciso un po’ con la vera fine delle vacanze, con settembre che si avvicinava sempre di più con le sue scadenze e la consapevolezza che non sarebbe stato un mese rilassante. Non solo perché coincide col periodo di massima intensità per una residenza universitaria qual è la Maison de l’Italie per cui lavoro, ma anche perché le dimissioni della mia collega non erano ancora state coperte.
E però settembre è stato anche il momento in cui ho deciso di fare quello che mi ripromettevo di fare da tempo. Ho indossato nuovamente una tenuta sportiva, fatto i conti con gli anni che sono passati dall’ultima volta che mi sono allenata con costanza, col mio corpo cambiato, appesantito, con gli addominali spariti e i polpacci da asciugare. Con la fatica mentale del lavoro e dell’età adulta a cui chiedere di sostenere anche quella fisica. Soprattutto di dovermi ripetere costantemente che la maggior parte dei miei compagni di corso sono giovani residenti della Cité Universitaire e che se un esercizio non mi riesce più come un tempo, nessuno mi obbliga ad essere perfetta e prestante, sto ricominciando pressoché da zero e devo avere pazienza.
Nelle prime settimane di settembre ho anche ripercorso strade dei quartieri popolari di Parigi, di una città che mi somiglia un po’ di più di quella in cui passo la maggior parte del mio tempo. Una città forse a tratti più sgangherata, più sporca, in cui è normale uscire in ciabatte e calzini di spugna, ma una città che sembra vera e non l’immagine di se stessa che vuole dare al mondo. Una città che è vicina ma che sembra anche tanto lontana nella geografia delle mie giornate.
Penso che l’ultimo anno mi abbia dato sia una stabilità economica che una emotiva, la sensazione di avere i piedi quasi ancorati al terreno anziché attraversare le giornate senza sapere bene dove posarmi. Ho potuto prendere un treno all’ultimo per andare a vedere una Traviata a Liegi, cascare per l’ennesima volta nella trappola dei concerti di Bruce Springsteen (questa volta a Lille), trascorrere una settimana in Sardegna fuori stagione affittando un’auto in due, prendere i biglietti per andare a trovare mia sorella in Galles e tornare in Italia a Natale col bagaglio in stiva anziché con lo zainetto incluso nel biglietto a tariffa base delle low cost come due anni fa. So di abitare in una città in cui probabilmente serve molto di più di quello che posso permettermi se fossi da sola per poter vivere oltre il lavoro ma per ora cerco di trarre il massimo da quello che ho.

Della settimana in Sardegna tra fine settembre e inizio ottobre avevo e avevamo bisogno. Ho guidato circa 1200 km per tutto il nord-ovest dell’isola ma i suoi grandi spazi deserti e i suoi scorci che, benché in molti casi già conoscessi, ancora sono capaci di sorprendermi hanno riposato gli occhi, il corpo e la mente. Abbiamo fatto passeggiate per me nuove sull’isola dell’Asinara a cui sono legata dai racconti di mia madre che lì è cresciuta, bagni in acque fredde e cristalline come laghi di montagna o in terme libere che non ci si aspetta di trovare in Sardegna, mangiato rifocillate dai miei parenti che ci hanno lasciato pacchetti ristoro per svariati pasti e gustato in una settimana praticamente tutti i sapori che hanno costellato le mie vacanze di una vita sull’isola. Il giorno prima di partire siamo entrate in un grande supermercato e, sotto l’effetto degli scaffali ordinati colmi di cibi (e di prezzi) di cui ho nostalgia, ho pensato che volessi tornare in Italia, magari in Sardegna, magari anche d’inverno. Il giorno dopo, mentre proseguiva la discesa un po’ turbolenta del nostro aereo, come abbiamo varcato la soglia delle nuvole basse e ho iniziato ad intravedere le luci di Parigi, ho avuto la sensazione che casa mia ormai fosse quella. Lunedì dopo lavoro sono andata a ritirare i miei nuovi occhiali da vista. La giornata era grigia come sa esserlo Parigi, stava piovendo, uscita dalla metro ho aperto l’ombrello e ho pensato che in fondo ero felice di essere tornata a casa.
Qualche tempo fa ho chiesto a mia sorella se le partenze dall’Italia diventassero meno difficili. Mi ha risposto di no ma anche aggiunto che gli arrivi in questo altrove che abbiamo scelto sono ormai anch’essi i nostri ritorni a casa.
