Sto scrivendo di Africa da praticamente sei mesi e non ho mai dedicato niente di più di qualche riga ad eventi dal sapore selvaggio che luoghi comuni sull’Africa avrebbero potuto lasciar immaginare. La verità è che al netto di alcuni aspetti autoctoni, in Sudafrica ho condotto una vita molto “occidentale”, non tanto diversa da quella che avrei potuto condurre se anziché a Johannesburg mi fossi trovata a Londra. Addirittura sono pure stata brevemente ricoverata in una clinica privata e in un ospedale pediatrico! E anche i motivi che mi portarono a trascorrere quelle due notti fuori di casa non hanno niente di selvaggio bensì noiosissime (per quanto con alcuni tratti comici) reazioni avverse a medicinali.

La cosa più selvaggia a Johannesburg è stata una lezione di vela all’Emmarentia Dam, non tanto per la lezione in sé, ne avevo già fatte in passato in Sardegna, bensì perché contrariamente a quanto mi avevano insegnato a Stintino, la lezione si svolse scalzi. E non fu tanto l’idea di essere scalza sull’optimist a sconcertarmi quanto il momento che precedette l’imbarco in cui i miei piedi scivolarono sulla riva viscida e fangosa, pregando che in quella poltiglia non ci fossero anche escrementi delle papere che abitavano il lago.

Immagini da una lezione di vela

A parte gli scherzi e il grado di “selvaggio” più dovuto al mio essere schizzinosa, in realtà ci sono degli episodi un po’ più col brivido che posso raccontare.

Il più incosciente fu sicuramente quello che ci vide protagonisti Durban, città affacciata sull’Oceano Indiano meta di surfisti e caratterizzata da una forte presenza di popolazione di origine indiana. Poco amanti della confusione, evitammo accuratamente la parte di spiaggia affollata per piazzarci in un pezzo solitario della lunga distesa sabbiosa che costituiva il litorale della zona. Facemmo il bagno come se fossimo sul bagnasciuga di Viareggio, l’odore era diverso magari, più forte, e le onde più alte quindi non ci allontanammo più di tanto dalla riva, ma, italiani ignoranti e spensierati, solo dopo capimmo che se i bagnanti erano raccolti solo in una zona della spiaggia, c’era un motivo preciso che esulava dalla voglia o meno di compagnia. Quel motivo erano le reti anti squalo. Scoprimmo dopo infatti che le bandierine rosse che vedevamo in mezzo all’acqua non segnalavano condizioni avverse del mare che consigliavano di non allontanarsi bensì la presenza sottostante proprio delle reti che proteggevano i bagnanti dal temibile e presente squalo bianco. Per il resto Durban era un lungomare che mi ha portato su quel che mi immagino sia la Jersey Shore cantata da Springsteen e che mi ha insegnato a godere dei samosas indiani. Inoltre, di fondamentale importanza, è lì che ho scoperto che nel mondo anglosassone il numero 13 porta sfortuna e che quindi il quattordicesimo piano dell’Holiday Inn su cui si trovava la nostra camera d’albergo, dal punto di vista architettonico era il tredicesimo ma non si poteva dire.

Rimanendo sulla costa indiana tornerò con la mente ora alla zona e all’estuario di Saint Lucia. In quella vacanza, avvenuta poco dopo il mio ricovero in ospedale e per cui ancora dovevo inghiottire vitamine grosse come smarties, avvennero tre episodi capaci di mettere a repentaglio la mia vita. Il primo fu che la pizza che ordinammo una sera non aveva niente della Margherita che mi aspettavo: non c’era traccia di pomodoro, la sedicente mozzarella era più simile a una scamorza e a concludere era ricoperta di cipolle che da sempre nella mia alimentazione scarseggiano. Il secondo fu che il giorno dopo ci portammo gli avanzi di pizza tra le dune delle infinite spiagge bagnate dall’Oceano Indiano e a un certo punto, mentre osservando il mare portavo una fetta di pizza alla bocca, alle mie spalle un falco si gettò in picchiata sul mio pranzo strappandomelo dalle mani. Il terzo invece vide protagonisti solo me e mio padre. Decidemmo di noleggiare un piccolo motoscafo per navigare liberamente nelle acque dell’estuario abitato da ippopotami e coccodrilli, sennonché ad un certo punto trovammo una secca e rimanemmo incagliati. Ora, io ero una grande appassionata di Rescue 911, un programma in cui venivano ricostruite situazioni di emergenza e soccorso e di recente avevo visto una puntata dedicata a una famiglia che era stata attaccata da un coccodrillo mentre in canoa percorreva il fiume Zambesi in Zimbabwe. Quando mio padre fece per entrare in acqua per provare a disincagliare il motore sollevandolo dal basso, mi opposi fermamente. Dovemmo gesticolare e veder passare imbarcazioni che ci ignorarono a lungo prima che un piccolo motoscafo ci lanciasse una cima e ci trascinasse via dalla secca ma ricordo ancora molto nitidamente la sensazione di paura che caratterizzò quel pomeriggio. Al timore per i coccodrilli si aggiunse pure quello per gli ippopotami che, avevo scoperto probabilmente il giorno prima, erano tra gli animali più pericolosi (e abitudinari) dell’Africa. Gli ippopotami infatti, benché trascorrano la maggior parte del giorno in acqua, sono erbivori e ogni notte percorrono esattamente lo stesso sentiero per andare a brucare. Una delle cose più pericolose che si possono fare è accamparsi lungo uno di questi sentieri poiché data la sua quasi cecità, l’ippopotamo tenderà a travolgere e calpestare qualunque cosa si trovi lungo il percorso.

Continua la prossima settimana

Un pensiero riguardo “Quando ero in Africa… – 28 – Wild things parte 1

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