Napoli, prima ancora della pizza, furono gli struffoli preparati da mia madre e i suoi racconti dell’amica (napoletana) di un’adolescenza.
Poi vennero i miei genitori che cercavano di farmi vedere i film di Troisi ma io non li capivo, la lingua era incomprensibile.
Nella marmaglia adolescenziale sono venuti i pregiudizi, magari latenti perché se sei una giovane di sinistra certe cose non le puoi pensare ad alta voce. La città è sporca, pericolosa, c’è la camorra. A Napoli ti rubano tutto, anche l’anima (ma forse su questo, col senno di poi, avevano ragione, nel senso più positivo del termine). Meglio tenersene lontani.
Poi Napoli è rimasta lì, per anni silente, di tanto in tanto spuntava tra le citazioni musicali del mio capo ma ancora niente. Ci è voluto un surreale viaggio in macchina verso il mare qualche estate fa per amare il suono musicale del napoletano, parole che sono note che non importa capire, basta ascoltare.
Pochi mesi dopo, gennaio 2015, il primo incontro con la città quando vi ho accompagnato Staino. Lui ad un convegno a discutere di oncologia spiegata ai bambini e io a passeggiare a caso tra Castel dell’Ovo, la piazza Plebiscito di infiniti Festivalbar visti in TV e il silenzio irreale del monastero di Santa Chiara in pieno centro città. Metà gennaio e camminare senza giacca al sole con la paura di non saper viaggiare da sola e l’impressione di non aver ancora colto lo spirito partenopeo.
Il tempo dell’estate e il tempo della consapevolezza di saper viaggiare da sola. Le ore solitarie sotto il sole di Creta assorbita dalla tetralogia de “L’amica geniale”. L’impressione di avere a che fare con qualcosa di molto vicino alla mia famiglia, alla sua storia, agli occhi con cui ha guardato l’Italia del secondo dopoguerra e con cui mi ha insegnato ad osservare il mondo. Libri in cui mi riconoscevo, come se le pagine fossero specchi delle fondamenta interiori implicite su cui poggiavo. Ma oltre a questo la tetralogia era una storia di Napoli, dei suoi rapporti, delle sue anime. E di strade che ancora restano vaghe nel mio immaginario.
Due anni esatti dopo il primo contatto con la città, invece, un addio al nubilato. Quattordici donne non accompagnate e in parte tra di loro sconosciute in una città che svela la sua anima più vitale. Un fine settimana che a distanza di un anno conserva ancora il sapore dell’epico e irripetibile, due giorni in cui anche gli intoppi fanno colore. Perché certo, le persone sono importanti, ma anche il luogo che scelgono per festeggiare diventa a suo modo membro del viaggio e Napoli è stata una compagna imprevedibile e travolgente. Un segno, uno squarcio su cosa significhi vivere senza pensieri, senza domani, quello che conta è il qui e l’ora quindi fatti attaccare bottone da chiunque e a qualunque ora, godi di ogni pasto che ingerisci, balla pure su questo tavolo di ristorante con la tua parrucca biondo platino. Vivi ogni secondo fin dentro le tue viscere rinsecchite, che chissà se e quando ti ricapita.
Ora sì che la città esplode in un vortice di amore incontrollato, di quelli che sospetti che il tuo inconscio stia cercando di dirti qualcosa. Quindi certo che vengo a festeggiare la Pasqua in casa di napoletani e certo che mi invento qualche giorno di ferie per una tappa estiva in città. Nel ventre della città, catacombe e cimiteri, l’altro lato di Napoli, quello della morte sempre incombente e della disperazione di un canto per racimolare qualche spicciolo sul lungomare.
Forse tutto questo in Napoli ce l’ho visto io in un gioco degli opposti in cui la città mi restituiva quello che io non ero (o avevo paura ad essere). Una città carnale, che non nasconde e non si nasconde, aperta ed eccessiva in ogni suo sentimento. Aristocrazia e miseria, riti e credenze ancestrali e modernità, Italia e resto del mondo ma soprattutto le infinite sfumature di un universo a sé che non va giudicato, solo accolto e amato per quello che è perché Napoli è così, è n’ata cosa.