La Sardegna per me non è mai un arrivo, è sempre un ritorno.
Vado a Stintino da quando sono nata eppure l’attesa del momento in cui, finita l’ultima salita, davanti agli occhi si spalanca il golfo dell’Asinara in tutta la sua mescolanza di blu e turchese brillanti incorniciata dalla terra dell’Isola Piana e dell’Asinara, non cambia. Come si fa a descrivere qualcosa che ormai si conosce così bene ma al tempo stesso riesce ad essere nuova ogni volta?
È curioso perché Stintino è un luogo che ho amato da bambina ma odiato da adolescente “perché ci sono solo famiglie e pensionati, non c’è niente da fare” e solo negli ultimi anni è tornato ad essere il posto a cui non vorrei mai rinunciare. Forse proprio perché “non c’è niente da fare” e perché in fondo è rassicurante quel suo essere sempre uguale a se stesso.
A pensarci bene è stato anche un luogo che ha visto alcuni momenti epocali nella mia crescita, la prima cotta, le prime mestruazioni, le prime grandi domande esistenziali, le contraddizioni familiari. Ma Stintino è anche un luogo che risponde a logiche sue, in cui il mondo “in continente” si ferma o arriva solo ovattato, in cui i tempi si dilatano pur nel loro alternarsi quasi più rigido che a Firenze. E’ un rapporto carnale fatto di colori, profumi, sapori, rumori oziosi, cicli familiari ricorrenti.
Arrivare a casa è percorrere passi conosciuti e rassicuranti. Il ristorante sulla via principale, attraversare la strada, fermarsi davanti alla vela di cemento al cui centro è posta una mappa della lottizzazione. Passare rasente ai rovi di more che seguono la strada, sperare che le macchine passino larghe alla curva perché non c’è marciapiede, svoltare nel sentiero in pietra di Stintino che porta a casa, il click della maniglia della zanzariera uguale da sempre, la porta in legno, casa. Quel luogo che come varchi la soglia ti fa venire voglia di fermarti e staccare la testa dal mondo.
Uno degli strumenti che utilizzo per misurare il mio stato di benessere mentale è la voglia che ho di andare a Stintino. È li che i nonni materni, al momento di lasciare la prospiciente isola dell’Asinara dopo oltre trent’anni causa pensionamento, comprarono una casa. Ed è lì che ogni qualvolta mi senta sotto stress ho voglia di tornare.
21 giugno 2020

Due mesi e mezzo fa me ne stavo seduta in bagno in lacrime perché per la prima volta da quando sono nata pareva potesse saltare Stintino.
Ora ho scaricato la macchina e sono venuta a sgranchirmi le gambe agli scogli sotto casa.
Mentre mi avvicinavo al mare ho iniziato a respirare l’aria inconfondibile di tutte le mie estati. Poi levarsi le scarpe e i calzini sudati dopo dodici ore di viaggio e camminare scalza con quel senso di libertà e spensieratezza infantile per cui andare sugli scogli senza scarpe senza farsi male era affare da veri esperti, conoscitori di queste rocce.
Queste rocce che mi hanno vista imparare a nuotare, essere triste senza motivo se non quello di avere tredici, sedici, vent’anni, lasciare andare il “continente” e sentire una vibrazione che prende lo stomaco e che sa di uno spazio che non voglio lasciare andare.
Visto da fuori questo scoglio sotto casa forse non è niente di speciale ma questo è il mio mare, questo è il mio scoglio, questo è il luogo del mio eterno ritorno.
24 giugno 2020

Guardo queste scogliere in attesa di tramonto, provo a fotografarle ma non riesco a catturare la loro sproporzione rispetto agli esseri viventi che le osservano, che siano persone che aspettano lo spettacolo della natura o gabbiani che che cos’altro possono fare se non volare?
Che poi, forse siamo noi sproporzionati rispetto a queste rocce giganti anche per i giganti. Disinteressate alla nostra storia, loro che hanno visto transitare ogni genere di imbarcazione anche prima che esistessero le imbarcazioni.
Rocce che subiscono solo l’usura del vento che ne ha talvolta levigato, talvolta bucherellato la superficie. Rocce per cui non è mai esistito un istante di silenzio. Rocce che da millenni e millenni sentono lo sciabordare incessante del mare che si infrange ai loro piedi visibili.
Scogliera senza età che non ha foto della sua giovinezza.
E poi ho deciso di vedere che effetto fa il crepuscolo sulla Pelosa. Più mi avvicinavo e più mi assaliva l’euforia. Sono scesa in spiaggia, ho messo i piedi in acqua e poi, tolti pantaloni e maglietta, ci ho messo anche il resto del corpo.
L’acqua aveva perso le sue sfumature di turchese ma la torre si stagliava scura su uno sfondo fatto di sfumature di arancione, giallo e azzurro. Intorno a me sentivo solo il rumore del mare, non sapevo come uscire.
Erano le 21.26.

28 giugno 2020

Ieri notte ero talmente in ansia che, quando fosse suonata, quasi pensavo di spegnere la sveglia e dormire.
L’estate, un sentiero che non conosco, la necessità di spezzare in due fasi del giorno il percorso per questioni di temperatura, “e se mi succede qualcosa?”, tutto mi spaventava.
Invece mi sono alzata. Ho fatto colazione con l’alba che all’improvviso è spuntata dal mezzo portellone aperto sul patio e ho preso la macchina in direzione Porticciolo, verso Alghero.
Sono arrivata alle 7.30, c’eravamo solo io e due daini. Il mare pareva quasi adagiarsi sul bagnasciuga, facendo rumore solo perché non poteva fare altrimenti. Io ho cominciato a camminare.
Il sentiero era segnato bene solo per chi procedeva in senso inverso. Mi sono persa più volte, mi sono ritrovata sempre, ho fatto il bagno completamente nuda alle 8 del mattino, ho risposto alla mia ansia camminando. Sono arrivata a Porto Ferro intorno alle 11, stanca. Nel mezzo pini, tamerici, macchia mediterranea, piccoli canyon scavati dalle piogge e infinite calette dai colori intensi e residui delle mareggiate a cui è sottoposta questa costa.

A Porto Ferro mi sono riposata, ho ascoltato le conversazioni dei miei vicini di asciugamano, ho fatto il bagno in un’acqua cristallina segnata definitivamente dal cambio di stagione. Mi sono infilata le infradito e ho mangiato all’ombra del bar senza neanche accorgermi che ero sola. Mi sono buttata a terra nella pineta dove ho letto e dormito cullata dal frinire delle cicale.
Ho fatto un altro bagno e sono tornata indietro, questa volta senza perdermi. Ho rinfrescato i piedi nell’acqua di Porticciolo e ho preso la macchina in direzione Capo Caccia. Il tempo di un tramonto e poi via verso Stintino. Io, la musica giusta e l’odore della soddisfazione.

1 luglio 2020
C’è sempre stato Stintino nei miei ricordi. E c’è stato anche prima dei miei ricordi, quando di quel tempo rimangono solo foto e qualche scampolo di memoria. Mia cugina più grande e le sue amiche che mi insegnano a fare la ruota, le spade fatte con le scatole dell’acqua, guardie e ladri con i bambini della lottizzazione. L’incendio.
Poi sono arrivate l’adolescenza e la mia fase soprammobile sempre fuori posto. Un supplizio lungo almeno un decennio.Per una serie di circostanze la fine dell’adolescenza di questi anni zero (tardiva) ha coinciso con l’inizio di ospiti continentali in visita a cui non potevo propinare tutti i giorni lo schema di una vita colazione-scoglio sotto casa-pranzo a casa-scoglio sotto casa-cena.Ho quindi iniziato a variare lo schema.

La Pelosa ma generalmente nel tardo pomeriggio, il Gabbiano, le Saline, l’Asinara, la Valle della Luna, Rena Maiore, l’Argentiera, Alghero. Posti che avevo già visitato ma mai con la serenità e la voglia di goderne appieno.Quest’estate pareva che manco riuscissi a venire e invece poco più di una settimana prima di partire ho fatto il biglietto. Con un po’ di senso di colpa perché non è che mi sia affaticata molto quest’anno e un po’ di dubbi perché giugno… insomma… è un po’ presto… ma era una situazione da prendere o lasciare.
Alla fine benché non avessi nessuno da portare in giro e benché non mi sentissi di meritarmi del tutto una vacanza, mi sono goduta ogni istante, ogni minuto passato a letto, nel patio, a pranzo con parenti che è vero che aragosta e champagne danno un certo tocco ma sarebbe stato uguale con pizza e birra, più o meno vestita sul mio solito scoglio, per sentieri sconosciuti, da sola al bar della spiaggia di Porto Ferro, alla Pelosa sempre detestata ma che in questo giugno post covid è esplosa in tutta la sua meraviglia di colori che si dice di certi mari che sembrano piscine ma forse sono le piscine che prendono il colore da certi mari. Ho visto tramonti e ho visto albe. Come stamattina, una passeggiata breve ma intensa alla torre di Capo Falcone, dove la vista si estende su questa propaggine dell’estremo nord-ovest della Sardegna e abbraccia il golfo dell’Asinara, le scogliere della Nurra e il blu oltremare del mar di Sardegna.

Sono salita nel rumore dei miei passi e lo sciabordare incessante del mare sottostante, tra pietroni e macchie verdi del promontorio che assumevano una consistenza di arbusti. Intanto la luce rosacea dell’alba tingeva l’orizzonte e dietro le punte dell’Asinara si intuiva anche l’ombra della Corsica. L’isola Piana si rivelava per quel che era, un’isola e non una sorta di battiscopa di quell’altra isola, l’Asinara, che a volte pare disegnata lì, quasi fosse un trompe l’oeil o al limite un ammasso immobile di cartapesta.In cima, con la torre di avvistamento cinquecentesca alle mie spalle, seduta su una roccia pensavo a quanto il mondo sia più affascinante dal tramonto all’alba senza la confusione che fanno gli esseri umani.
Dopo un quarto d’ora circa sono scesa da dove sono venuta e mi sono ritrovata alla Pelosa alle 7 del mattino. Entrando in acqua controluce non si vedeva ma girando le spalle al sole l’acqua era di un colore disarmante, turchese e trasparente nello stesso momento.

Come ogni anno ho pensato che non ero sicura di voler venire via da questo posto. Che c’è sempre un sospiro di ritorno a casa quando arrivo e un sospiro come di un lieve strazio quando parto.Ma sono le 9 del mattino e c’è ancora tempo per rendersi conto di quanto spendesse la nonna Franca per caricarci dei tesori di questa isola che da quando non c’è più lei, tocca a noi finanziare questa dipendenza gioiosa che si compie come le cose speciali, una o due volte l’anno.
E poi decidere di terminare col leitmotiv di questa vacanza: la Pelosa poco prima di cena, quando il turchese non abbaglia ma si mescola con l’oro del tramonto. Me la sono goduta questa vacanza, come se non avessi voluto lasciare niente di sospeso, niente “avrei potuto”. Alla fine ho ordinato una pizza d’asporto al ristorante a due passi da casa. Mentre camminavo l’aria era quasi immobile, limpida, il sole era tramontato da una mezz’ora e una luce fucsia si stendeva sull’orizzonte. Camminavo strascicando un po’ i piedi come si fa con le infradito ma intorno a me era un momento perfetto.