A gennaio cominciai il mio primo anno scolastico alla Jeppe High Preparatory School. La scuola si trovava a poche centinaia di metri da casa e mio babbo mi lasciava sulla via del lavoro.
C’erano più ingressi, io accedevo da Roberts Avenue, la cosa più simile a uno dei nostri viali. Si percorreva una cinquantina di metri in una strada asfaltata, sulla sinistra c’erano dei campi da tennis, a dritto delle scale in discesa. Appena prima delle scale sulla destra il parcheggio riservato agli insegnanti. Scese le scale ci si trovava in un grande spiazzo antistante un edificio lungo e stretto su tre piani più altri edifici distaccati quali il laboratorio di scienze e la cosiddetta “assembly room” L’edificio principale era collegato con la sala insegnanti e l’ufficio del preside da un corridoio coperto all’altezza del primo piano che sovrastava un punto più stretto dello spiazzo.

Dietro l’edificio principale si apriva uno spazio che mai avevo visto prima in una scuola: c’erano degli spalti in cemento che davano su un prato in erba che fungeva sia da campo da cricket che da calcio. Sulla sinistra dei campi da netball, in fondo a destra le gabbie per gli allenamenti dei lanciatori e battitori di cricket. Il terreno di gioco aveva il suo lato lungo parallelamente all’edificio scolastico. Il lato opposto, protetto da una rete, si apriva su una zona più bassa della città, in lontananza si scorgevano come delle grosse protuberanze del terreno (o piccole colline): imparai più tardi che erano i residui degli scavi delle miniere d’oro di cui era ricca la zona. A pochi metri dalla rete si trovavano tutti i giochi per bambini tipici dei giardini pubblici.
Quando si arrivava a scuola non si poteva aspettare il suono della campanella nello spiazzo antistante l’edificio scolastico, bisognava andare per forza sul retro. Al suono della campanella tutti i bambini si lanciavano in una corsa per raggiungere lo spiazzo e mettersi in fila ordinata, maschi da una parte e femmine dall’altra, in corrispondenza del numero marcato a terra assegnato alla loro classe. Mi viene ora il sospetto che dovessimo metterci anche in ordine alfabetico, ciò spiegherebbe perché ricordo di aver assistito a una discussione fra le compagne di classe Jolene Letly e Amy Liebemberg sulla maternità del diminutivo “Frankie” con cui mi appellavano mentre eravamo in attesa di entrare in classe. In quel momento arrivava il preside che con uno sguardo controllava se divisa e aspetto fossero in ordine e in caso contrario invitava il disordinato a presentarsi meglio il giorno dopo o, a seconda della recidiva e della gravità (suppongo), veniva convocato in presidenza. Lo stesso destino capitava a chi tardava a mettersi in fila.
Cosa succedesse poi davvero nell’ufficio del preside non so, io ci finii una sola volta perché avevo fatto tardi a scuola per guardare i mondiali di cricket che, poiché si tenevano in un paese con altro fuso orario, andavano in onda la mattina. Ricordo che eravamo un gruppo di bambine e bambini in piedi davanti al muro del corridoio di accesso all’ufficio di Mr. Harris il quale si limitò a una ramanzina e poi ci rispedì nelle nostre classi. Niente di che ma mia sorella me lo rinfaccia ancora oggi che sono passati giusto 25 anni. C’era però un meccanismo cosiddetto di “detention” che si applicava per i recidivi e per chi si macchiava di birbanterie ben peggiori di un unico ritardo. La “detention” è la punizione che forse i lettori di Harry Potter hanno chiara. Fondamentalmente si trattava di rimanere a scuola il pomeriggio ma non so di preciso a fare cosa, ricordo che una volta qualcuno fu costretto a sradicare le erbacce dal giardino e qualcun altro a staccare le gomme da masticare appiccicate per terra. Una delle leggende che circolavano riguardava le punizioni corporali, formalmente non si usavano più ma si diceva che un bambino, di recente, non era chiaro chi, quando e perché, si fosse visto bacchettare le mani.
Finita l’ispezione da parte del preside potevamo dirigerci verso le nostre classi, più si avanzava negli anni e più le classi si spostavano di piano. La lettera identificativa della sezione non era legata come in Italia a lettere progressive dell’alfabeto bensì all’iniziale del cognome della maestra che era unica per tutte le materie.
La ricreazione si faceva nel retro della scuola e quando suonava la campanella che ne dichiarava la fine dovevamo tornare subito in classe e disporci in fila ordinata fuori dalla porta in attesa che la maestra girasse la chiave e ci facesse entrare. Di sicuro so che non si poteva giocare a rugby a ricreazione poiché la volta in cui portai la palla mi fu sequestrata e di sicuro notavo che la divisione a ricreazione seguiva la linea del colore: neri con neri, bianchi con bianchi.
In linea di massima comunque la disciplina era importante ma non venivano usati mezzi intimidatori, semplicemente era così. E il fatto che ci fosse questa grande attenzione nei confronti della disciplina non rendeva i bambini vivaci meno vivaci o problematici. C’era però una grande attenzione nei confronti del merito, questo sì.
