Il mio indugiare sulla storia d’amore sui generis tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West mi ha dato modo di riflettere a lungo sul concetto di amore. In inglese è molto più semplice, il verbo “to love” è unico e indica sia il nostro “ti amo” sia il nostro “ti voglio bene”. In italiano invece, quando ci riferiamo al sentimento che proviamo nei confronti di una persona, facciamo una distinzione tra amare e volere bene, come se per amare dovessimo automaticamente amare testa, cuore, corpo di una persona e con essa aver voglia di avere una relazione esclusiva che abbia il suo culmine nella costruzione di una famiglia (omo o etero non fa differenza) nel senso canonico del termine. All’amicizia, per quanto profonda, si riserva il volere bene. Ma volere bene pare così blando rispetto al sentimento che a volte proviamo nei confronti degli amici. Io ho amiche e amici a cui voglio più che bene, amiche e amici che rispondono alle più diverse parti di me. Con alcuni la corrispondenza è pressoché totale, con altri meno ma il sentimento che provo è molto più vicino all’amore che al voler bene. Ma se dovessi dire ti amo ad alcuni di loro, cosa succederebbe?
C’è questa abitudine a considerare l’amore come interessato, inscindibilmente legato al sesso e all’esclusività ma se invece l’amore fosse solo una connessione disinteressata e coscientemente limitata nel campo o nel tempo (ma anche no), non avremmo meno paura delle conseguenze di un ti amo? E invece ci facciamo un sacco di problemi a dirci le cose che sentiamo, così spaventati dalle conseguenze delle nostre parole che ci teniamo dentro vulcani di pensieri che finiscono per implodere. Perché se io dico ti amo a un/un’amico/a è quasi automatico che sto chiedendo di più della sua amicizia. Gli inglesi non si fanno di questi problemi, un “I love you” ha la stessa forma, spetta poi ai soggetti in campo deciderne la sostanza.
Ecco, mi manca questa semplificazione lessicale in italiano.