Il passaggio del tempo lo vedi anche nelle cose di cui parli con le amiche e la pandemia non c’entra poi così tanto. Fino a qualche anno fa si parlava di dinamiche di spogliatoio e serate danzanti a base di alcol, poi sono arrivati i contratti di lavoro, i mutui, le serate sempre più sporadiche, il calcio sempre presente ma meno avvinghiante, le priorità che prendevano altre forme.

Qualche mese fa mi sono incontrata con delle amiche e nel tepore dell’ultimo sole di un sabato di febbraio ci siamo trovate a chiacchierare intorno al tavolo del giardino. Piuttosto sorprendentemente il primo argomento a tenere banco è stata la qualità delle rispettive frese per unghie. Mentre mi facevo sistemare il rosso intenso del mio indice destro, distrattamente sbicchiato a sole 24 ore dalla posa dello smalto semipermanente, la conversazione si è fatta più seria.

Il momento in cui decidi di fare coming out con te stessa perché sei lesbica (o una lettera qualunque del LGBTQ credo, ho pescato la L perché è quella che conosco meglio) certi problemi non è detto che te li ponga. L’immediato è più frutto di una serie di paranoie che riguardano il coming out con gli altri e la percezione che il mondo esterno avrà di te da quel momento in poi che altro. Come se poi dire ad alta voce cosa ti piace fare nel tuo privato minasse chi sei o cosa pensi. Ricordo quando una decina d’anni fa dissi a una mia compagna di squadra che mi piacevano le ragazze. Lei mi guardò e mi disse: “e allora?”. Sto divagando ma nei miei balbettii prima di dirglielo e nella sua riposta quasi disinteressata stava il succo del problema. Io avevo paura che mi giudicasse e allontanasse, lei mi aveva dato l’unica risposta sensata: un sano disinteresse verso chi mi piaceva perché a lei non sarebbe cambiato niente, io ero io, non le persone su cui riversavo il mio flusso ormonale e sentimentale. Del resto io mi sentivo più o meno la stessa persona da una vita, magari cresciuta ma il cuore era sempre lo stesso.

Che mi piacessero le femmine non era stata una sorpresa, sotto sotto lo avevo sempre sospettato. Ma dallo struggimento per l’amica del mare alle prime cotte alle scuole medie, dagli ormoni vergognosamente soffocati al liceo alle prime timide consapevolezze e sbadate esperienze fatte di parecchie domande che non sapevo bene a chi fare, non mi ero mai sentita diversa nei miei comportamenti di figlia, sorella, cugina, nipote, amica, cittadina. Anzi, ero quasi noiosa: rispettavo le regole, facevo il biglietto dell’autobus anche se si trattava di fare solo due fermate, ero educata, responsabile, andavo bene a scuola, mi interessavo del mondo, leggevo tanto, ascoltavo tanta musica e suonavo la chitarra. Magari qualche volta bevevo un po’ più del dovuto e non ero sempre precisissima nel rispetto dei limiti di velocità ma per il resto mi sono sempre sentita un rispettoso e rispettabile membro della mia comunità in senso allargato.

A dire il vero la maggior parte delle persone che mi circondano ha accolto i miei vari coming out con la stessa scrollata di spalle della mia amica ma forse sono stata semplicemente fortunata o forse non mi ero ancora scontrata, sia pur ancora alla fase “pour parler”, con il mondo fuori dal mio contesto protetto.

Dopo questa digressione posso tornare al soleggiato sabato di febbraio e alle amiche lesbiche che lasciano le frese per unghie e affrontano l’altro grande tema dell’età adulta: l’orologio biologico e le voglie (o meno) di genitorialità.

Ecco, quando a vent’anni decidi che sì, insomma, ti piacciono le donne, è inutile girarci intorno e vestire i panni di qualcosa che non sei, certi problemi non te li poni. A vent’anni l’amore ti interessa più nella sua fase dell’immediato. A seconda del contesto in cui vivi sei più preoccupata di come chi ti circonda potrà prendere il coming out o dal nascondere ogni traccia di lesbismo dalla tua vita quando hai a che fare con la famiglia. E se proprio sei lungimirante e vuoi pensare al matrimonio o ai figli, magari hai ancora l’ottimismo per pensare che quando ti sarai sistemata, avrai una casa, un lavoro, una compagna, la società sarà cambiata e non interesserà a nessuno il sesso dei genitori. Poi però il tempo passa, l’orologio biologico ticchetta sempre più rumoroso, la società non è ancora cambiata del tutto e tu ti fai un sacco di domande davanti alla tua voglia di genitorialità. La cosa più sconcertante però è che ti senti più in dovere di porti problemi che investono la sfera della tua intimità e del tuo portafoglio che non quella della tua capacità di essere un buon genitore.

Ovviamente non è così per tutti ma mentre ascoltavo i dubbi di una delle mie amiche mi ha colpito che primariamente non si chiedeva se sarebbe stata una brava madre, si chiedeva come avrebbe reagito un figlio con due madri in mezzo a bambini nati con metodo “tradizionale”. La seconda problematica che affrontava era quella economica: la fecondazione assistita ha un costo elevato e in Italia non è permessa alle coppie omosessuali, erano dunque necessarie disponibilità economica e un lavoro che le permettesse di partire senza troppo preavviso per procedere all’inseminazione, il tutto senza certezza di successo. Il terzo problema che si poneva era se la sua non fosse una questione di egoismo, un suo capriccio, senza rendersi conto che se da che ci conosciamo si è sempre immaginata come madre, non è che nel momento in cui ha cambiato sesso chi si portava a letto allora era cambiato qualcosa nella sua voglia di maternità. Un’altra amica invece aveva meno dubbi interiori ma più incertezze burocratiche perché ahimè, davanti a un corpus normativo che non ti prende in considerazione, hai voglia ad essere un genitore amorevole e presente ma nel momento in cui volente o nolente ti devi scontrare con la legge, ad ora perdi: giuridicamente una legge o l’assenza di una legge valgono più dell’amore genitoriale che, per inciso, non ha niente a che fare realmente con l’attestazione giuridica del ruolo e molto invece ha a che fare con il sentimento.

Ecco, io ho pensato: ma i genitori eterosessuali si fanno un terzo grado del genere quando scelgono (o capita per caso e decidono) di costruirsi una famiglia?

Mi ha colpito perché c’è ancora questa idea che se ti discosti da quella che viene propinata come normalità, allora sei forzatamente inadeguato. E questo vale in tutti i campi: la società è costruita per far sentire diverso chi non si conforma alla cosiddetta “normalità” e ci sarà sempre un motivo o un altro per sentirsi diversi, che sia avere due mamme, che sia essere nero in una Storia scritta da bianchi, che sia fare ragionamenti sempre molto complessi e non sempre immediati, o qualunque altra cosa.

Tutta questa pappardella per chiedermi: la diversità cosa fa di male alla normalità? Le chiede per caso di diventare diversità? Perché io proprio non capisco cosa cambi alla vita di un senatore Pillon qualunque nel caso ipotetico che con una ipotetica compagna mi sposassi e/o ipoteticamente facessi figli. Insomma, manco ci conosciamo con Pillon e apprezzo (non è vero) la generosità sua e di tutti gli altri nel volermi salvare dall’inferno ma in tutta sincerità, ecco, mi sentirei di rispondergli con la frase che anni fa e molto educatamente mi disse una bimba a cui facevo la babysitter quando vide come stavo disegnando la principessa che mi aveva tanto richiesto: “faccio da me, grazie”.

4 pensieri riguardo “Di età adulta, genitorialità, omosessualità e smalto

  1. Io son una genitrice etero. Mai voluto a tutti i costi diventare madre, ma è successo. Ora che invece non potrei più fare a meno del mio bambino, capisco che cosa vuol dire doverci rinunciare per una volontà che non è la propria. Mi spiace seriamente per tutta una serie di categorie che son state lasciate ai margini, perché nel mondo di oggi non dovrebbe essere ancora così. Poi è notizia di questi giorni quella della povera Malika e di quella madre che non ci ha pensato due volte a disconoscerla…Questo è un gesto veramente crudele: siamo un popolo ancora bigotto e retrogrado, non pronto ad una società che cambia, ma visto che lo sfoggio maggiore del nostro bel paese è sempre stata la famiglia, mi chiedo cosa ci sia di “familiare” in una madre che insulta e urla contro una figlia poco più che adolescente, non riconoscendola nemmeno più come tale…Un abbraccio, cara collega!

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    1. Ciao! Intanto grazie del commento. Esatto, mi infastidisce molto l’ipocrisia che c’è dietro ogni difesa della famiglia che diventa negazione della famiglia, qualunque essa sia. E un po’ mi infastidisce anche la narrazione del mondo omosessuale come diverso da quello etero: no, è uguale, identico, stessi lavori, stesse aspirazioni, stesse tasse, stesso tutto (sessualità a parte). La storia di Malika è stata dolorosa da leggere e mi ha ricordato della fortuna che ho avuto io. Mi piace però avere fiducia nelle nuove generazioni, del resto quando ero alle elementari io il mio compagno di classe più “esotico” era napoletano, nei quasi trent’anni successivi i ragazzi si sono abituati alla presenza di diversi modi di essere nelle classi e mi piace pensare che ci facciano sempre meno caso. Speriamo sia così anche per la genitorialità lgbtq.
      Un abbraccio anche a te

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  2. Anche io ho fiducia nelle nuove generazioni, anche perché non averla significa gettare la spugna e convincersi che la nostra sarà sempre un’involuzione. Come giustamente hai osservato tu, il concetto di normalità si stabilisce quando le cose avvengono “normalmente” e quotidianamente. Ex: se in classe mia c’è un nero non è abitudine, se in classe di mio figlio ci sono 10 neri, 3 gialli e 7 bianchi, è abitudine e quindi normalità. Molto fa la scuola, infatti a mio parere andrebbe riformata togliendo le ore di religione a favore di ore di educazione sociale e senso civico. In fondo la scuola è pur sempre magistra vitae e può far moltissimo per migliorare la società, ma se dà input fuorvianti siamo daccapo.

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