Un tema caro a ogni vero italiano che si rispetti è il cibo e dunque cosa mangiavamo? Fondamentalmente di tutto. Essendo il Sudafrica un paese che aveva accolto varie culture migratorie, la disponibilità culinaria era pressoché illimitata. Noi ci portammo dietro la nostra tradizione italiana e al contempo la mescolammo con tutte le novità che più ci piacquero.
Il piatto forte locale, re dello street food, era costituito dalle boerewors e il mielie pap. Il primo era una salsiccia di manzo aromatizzata con spezie, il secondo era una specie di polenta a base di farina di mais e acqua. Le pannocchie di mais, in Sudafrica mielie, erano molto più grandi di quelle a cui siamo abituati nei supermercati europei e il colore dei chicchi era più vicino al bianco che al giallo. Anche il sapore nei miei ricordi era più annacquato. Un altro alimento caratteristico era il biltong ossia pezzetti di carne di vario genere essiccata che si mangiava un po’ come fossero patatine a un aperitivo. Sul fronte dolci IL dolce era la melktart: un guscio di pasta frolla riempito da una crema di latte, zucchero, farina, uova e aromatizzata alla cannella. Il tutto magari bagnato da una tazza di rooibos fumante. Prima di partire per il Sudafrica il tè delle cinque era una curiosa abitudine inglese, dopo è diventata un’abitudine anche nostra, magari non sempre alle cinque ma negli anni è rimasta una abitudine imprescindibile della mia famiglia, interrotta giusto nei mesi estivi.

Ma essendo appunto il Sudafrica terra di immigrazione fu in quegli anni che la cucina di mia madre si arricchì di scones inglesi, di samosas indiani, di roti serviti con carne macinata speziata, di stir-fry orientali. Una ricetta che invece non accolse fu quella delle cosiddette flying ants, formiche volanti, saltate in padella con il burro. A dire il vero anche io le mangiai una sola volta dopo averle catturate con le mani insieme a Jasmine anche se credo che io riuscii a prenderne una sola, le altre poche che affidammo alla padella di Debbie furono catturate dalle mani più esperte di Jasmin. Che sapore avevano? A oltre vent’anni di distanza non ricordo più se somigliasse più al pollo alla piastra o al pane, in ogni caso sicuramente più buono dell’idea di mangiare insetti.
Per il resto si mangiava in ristoranti di ogni genere, la pizza era più americana che italiana e impiegai anni per digerire l’indignazione di una Margherita arrivata senza pomodoro ma con copioso formaggio (sicuramente non mozzarella) e cipolle il cui avanzo il giorno dopo mi fu strappato dalle mani da un affamato falco sulle coste del KwaZulu-Natal. C’era il ristorante portoghese, il ristorante cinese (ma non cantonese), il thailandese, i fast food e poi c’erano anche i ristoranti dove si serviva la autoctona selvaggina. Coda di coccodrillo, delicata, di colore bianco/trasparente; struzzo e impala saporiti e simili alle carni a cui ero abituata, facocero (selvaggina seria, altroché cinghiale, se non ricordo male sentenziai che sapeva di urina), zebra sulla quale non posso pronunciarmi poiché era talmente dura che non riuscii a mangiarla.
I supermercati invece erano imbottiti di snack e bibite gassate che costavano meno dell’acqua, il latte veniva in bottiglie di plastica da due litri più simili a quelle che contengono i detersivi, il pane era quella cosa morbida che non ha mai conosciuto crosta e soprattutto non veniva considerato indispensabile. Tutto conteneva molto più zucchero.