Mentre giungo quasi alla fine di questo viaggio nel Sudafrica della metà degli anni ’90 realizzo che la visione del paese che ho dato è pressoché idilliaca e molto bianca. Le motivazioni sono varie: ero piccola quindi non avevo ancora tutti gli strumenti per capire cosa stesse succedendo davvero e più che rabbrividire davanti alle immagini degli scontri di assegai (delle lance zulu) perpetrati dai seguaci del capo zulu Mangosuthu Buthelezi e amare per principio Nelson Mandela, non potevo fare. Avevo un mio senso della giustizia ma con candore infantile pensavo che con la fine del regime di segregazione legale, tutto sarebbe tornato a posto allo schiocco delle dita. Ovviamente non fu così e il paese stava (e ancora sta) pagando una complessa transizione.

Come ho già scritto scelsi le mie amicizie soprattutto per vicinanza residenziale e affinità culturali. Sospetto che soprattutto in questo secondo caso, il retaggio dell’apartheid fosse ancora molto forte e ci sarebbero voluti anni per colmare la diversità di opportunità che avevano avuto le varie anime che componevano la Rainbow nation. Io però ero una bambina senza ancora gli strumenti per comprendere il peso e le cicatrici delle disuguaglianze, l’orizzonte della mia vita oltre alla scuola era composto dal cinema il fine settimana, dai libri di Roald Dahl, dalla musica di Bruce Springsteen, dallo sport e da chiunque lo potesse condividere con me.

Mio padre aveva amici e colleghi coloured o indiani che qualche volta abbiamo frequentato, dalle cene con uno dei suoi amici siamo pure tornati con la ricetta dei roti indiani da mangiare con un macinato di carne buonissimo e la consapevolezza dell’esistenza di Celine Dion ben prima di Titanic ma confesso che la quota nera della nostra vita sudafricana è stata molto esigua e, come da copione, il rapporto più intenso che abbiamo avuto con una persona nera è stato quello con la nostra donna delle pulizie. Di Augusta (letto all’inglese Ogasta) ricordo soprattutto il sorriso e un atteggiamento positivo nei confronti della vita che non lasciava immaginare nessuna delle sofferenze a cui era stata sottoposta. Aveva una dignità che non avevo mai visto altrove, qualche volta abbiamo giocato a calcio o cricket in giardino, non era un granché ma si divertiva da morire, coi movimenti di una Lady Cocca più magra e scura. Augusta per me non ha età, era zulu, vedova e veniva da Soweto. Dal punto di vista religioso apparteneva alla chiesa di Zion, un culto molto diffuso in Sudafrica e che fonde tradizioni e valori africani con la fede cristiana ma di questo ai tempi non sapevo niente. Ancora oggi mia mamma, quando fa alcune cose in casa, ci tiene a ricordare che “questa cosa me l’ha insegnata Augusta”. Ricordo però che una volta rimasi scandalizzata dal suo mescolare degli avanzi che mia mamma le aveva lasciato in un unico piatto. Io lo raccontai sconcertata a Jenny e Susan ma loro non capirono proprio perché fosse strano mischiare passato di verdura con melanzane grigliate condite con aglio e menta e lì le nostre strade iniziarono un po’ a divergere.

Augusta nel nostro giardino

Augusta viveva in quella che gli inglesi chiamavano “servants quarters” o “maid’s room”, presenti in qualsiasi casa degna di rispetto. Nei miei ricordi la stanza di Augusta era piccola, buia e umida, col pavimento in cemento, e si trovava dall’altro lato del giardino dei nostri vicini nonché proprietari di casa. A me era sembrato un gesto di grande generosità metterle a disposizione quello stanzino, poi i miei genitori dovettero farmi notare che non stava in un gran posto. A dire il vero le “maid’s room” erano molto ambite dalle donne delle pulizie perché permettevano loro di abbattere i costi finanziari e temporali tra la loro abitazione e quella dei loro datori di lavoro ma a volte i bianchi progressisti si vergognavano un po’ a metterle a disposizione (meglio non vedere dove abitavano i loro dipendenti). I bianchi razzisti, invece, non amavano darle alle maid (donne delle pulizie) per timore di quello che chiamavano “black traffic” ovvero il passaggio di amiche o amici in visita delle maid più popolari.

Il letto di Augusta era rialzato su dei mattoni. Mio padre una volta le chiese se fosse per evitare gli assalti dei tokoloshi ma Augusta si mise a ridere e rispose molto più pragmaticamente che la stanza era piccola e il letto rialzato le permetteva di guadagnare spazio in cui conservare le valigie con i suoi averi. Nel folklore sudafricano i tokoloshi sono degli spiriti maligni, spesso inviati appositamente da qualcuno che vuol far del male, che colpiscono le persone che dormono. Poiché sono molto bassi, il letto rialzato serve ad evitare che possano riuscire nel loro intento. Ho spesso sentito parlare di tokoloshi da bambina, senza mai capire realmente cosa fossero, però avevo chiaro che fossero entità di cui avere paura. Per saperne di più rimando a wikipedia.


Per terminare questo post dedicato ai miei rapporti con la cultura africana, due parole su un’altra entità dal sapore mitologico ma di cui capivo poco: il sangoma. Il sangoma era una sorta di sciamano, legato al culto degli antenati ed esperto di magia, medicina tradizionale e divinazione. Poteva essere sia uomo che donna e in una cultura con un rapporto così stretto con gli spiriti degli antenati, aveva molto seguito. Addirittura, non so se fosse verità o leggenda, pare che uno dei rimedi per guarire dall’Aids promosso dai sangoma fosse quello di fare sesso con una vergine, causando quindi in un circolo vizioso di violenza e diffusione ulteriore dell’Aids.

Concludo con una considerazione che un po’ si discosta dal “quando ero in Africa” ma che, sono convinta, è in parte legata al confronto con una cultura a tratti così diversa dalla mia. Dal nostro trespolo occidentale queste credenze potrebbero sembrarci assurde, antiscientifiche, inferiori addirittura. Eppure, tanto per fare degli esempi, non sono tanto lontane dalla divinazione di entità che nessuno ha mai visto su cui è fondata la cultura occidentale o dal potere dato alla preghiera o dalla credenza mistica che sarà lo scioglimento o meno del sangue di un santo a determinare l’andamento dell’anno. Quando ci approcciamo a una cultura diversa dobbiamo farlo cercando di capirne le origini storiche, le evoluzioni proprie di un luogo o di un popolo, e dobbiamo farlo con la consapevolezza che quello che per noi è normale, per l’altro non lo è e viceversa. Uno dei danni peggiori che il colonialismo europeo ha fatto è stato proprio questo, quello di voler imporre la propria cultura, frutto di secoli di aggiustamenti, in popoli che avevano tutt’altra organizzazione e percorsi storici. Quando guardiamo l’Africa scuotendo il capo perché “ci stanno invadendo”, cerchiamo di non dimenticare che molto di quel che accade in quei paesi è anche colpa nostra.


La prossima domenica terminerà questo lungo percorso tra i ricordi di quando ero in Africa e tirerò le fila di quei tre anni e, alla fine, di tutti quelli che sono venuti dopo.

2 pensieri riguardo “Quando ero in Africa… – 32 – Il sorriso di Augusta

  1. Ho scoperto da poco questa serie di testimonianze, che andrò a spulciare nei prossimi giorni. Mi piace come affronti l’esercizio di memoria, descrivendo sia la tua postura infantile, sia a posteriori, col senno di poi. Grazie per questa condivisione dei tuoi ricordi.

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    1. Ciao! Scusa il ritardo nella risposta. Grazie! Mi sono molto divertita a ripercorrere quei tre anni, è stato un viaggio nella memoria anche per me, quando ho scritto l’ultimo (pronto per questa domenica) ho avuto un certo struggimento. Più che altro mi sono resa conto di quanto quella esperienza sia stata fondante per me, lo avevo sempre sospettato ma mai così profondamente. Grazie per avermi letta e fatto sapere cosa ne hai pensato.

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