Ieri Dionisi mi ha fatto un po’ di terrorismo sulla durata del tragitto per arrivare alla stazione di Salonicco, dicendomi di calcolare circa due ore di tragitto. Io l’ho ascoltato e alle 6.45 ero già sul primo dei due autobus che avrei dovuto prendere. È andata a finire che non erano ancora le 8 e già vagavo per la piccola stazione della città. Tutto questo dopo aver già visto i primi aerei atterrare e decollare sullo sfondo dello sfarfallio delle luci della città in lontananza dal terrazzo mentre facevo colazione e le sparute ville Liberty rimaste in città, laddove la maggior parte della città è stata spazzata via da incendi e terremoti che ne hanno cambiato via via la fisionomia rendendola questo miscuglio del poco antico che rimane con palazzoni disposti in una griglia in cui le strade portano o al mare o vi scorrono parallele.

La stazione offre vari bar, una farmacia e qualche negozio che ancora deve aprire. Mentre mi guardo intorno vedo un cartello che invita a fare il check-in dei bagagli se ci si dirige ad Atene o ad Alexandropoli. Vado a chiedere informazioni ma il mio bagaglio è sufficientemente piccolo per non aver bisogno di check-in.

In stazione c’è una piccola chiesa e i bagni sono gratuiti, puliti, alla turca e col solo difetto di essere senza carta igienica e di non avere un gancio per appendere lo zaino ma in confronto a certe indecenze a pagamento che ho incontrato in Italia è oro. Mentre mi dirigo al binario trovo anche il deposito bagagli automatico: 3 euro per 8 ore, non ho memorizzato le dimensioni ma forse una valigia della grandezza dei bagagli a mano ci entra.

I treni non sono molti e soprattutto non trovo un cartellone che indichi il binario di partenza, al solito la cosa migliore è chiedere. Mi indicano un treno su cui si può salire solo quando hanno finito di sistemare, è un Intercity coperto di graffiti, quando vedo arrivare il treno da Atene tutto nuovo anche da fuori mi viene il dubbio di essere al binario sbagliato ma richiedo conferma e salgo a bordo del mio treno. Dentro è tutto pulito, io sono in uno dei posti con tavolino nel mezzo. I sedili sono quattro ma a sedere siamo in due, in diagonale. Dall’altro lato del corridoio una coppia di giovani deve pensare che la mascherina sia un ornamento da portare appeso alle orecchie e da tenersi rigorosamente sotto il mento. La cosa che mi sconcerta è che il controllore non. Ha mai aperto bocca in proposito e ad ogni nuova stazione che incontriamo ripassa. Non sono greci, nei caratteri dei libri che leggono mi pare di intuire il cirillico. Il nord della Grecia confina con la Bulgaria e potrebbero benissimo venire da lì, il turismo bulgaro è molto presente nella Grecia del nord, così come quello rumeno. Addirittura pare che di recente, quando il governo rumeno ha introdotto improvvise norme più restrittive per le quarantene di chi rientrava dalla Grecia, certe zone si sono svuotate nel giro di poche ore di turisti rumeni.

Tra le altre cose apprese ieri c’è il carattere immigratorio della maggior parte della Calcidica e della zona in cui c’è la casa di Iota. Non a caso moltissimi paesi sono introdotti da “Neo” o “Nea” a indicare il loro essere la nuova città. La parte che non ho capito riguarda la provenienza di questi immigrati, mi pare di aver capito che sono legati allo scambio di cristiani e musulmani avvenuto fra Grecia e Turchia nel momento in cui la Macedonia è passata dall’impero ottomano alla Grecia. Quello che invece ho capito è che cento anni fa sono stati mandati lì perché non ci voleva andare nessuno ed ora si trovano in una zona ad alta intensità turistica.

La cosa che ho avuto più fatica a incamerare di questa settimana è la necessità, nella maggior parte dei luoghi, di buttare la carta igienica nel cestino anziché nel water, necessità in cui ero incorsa solo in Eritrea. Ecco, l’automatismo è tale che più di una volta mi son trovata a entrare in bagno pensando di dover buttare la carta nel cestino, trovandomi poi a ritirarla fuori mezza bagnata.

Il treno per Atene parte spaccando il secondo. Lungo i binari stazionano vecchi vagoni straziati dal tempo e locomotive arrugginite. Agli incroci dei binari con le strade vedo dei casottini con degli uomini che mi chiedo se siano lì ad alzare abbassare la sbarra del passaggio a livello. Appena si esce dalla città il paesaggio si fa verde e rigoglioso. Quando si pensa alla Grecia si pensa a terre bruciate dal sole e casette bianche arroccate sulle alture, la Macedonia (la regione di cui Salonicco è il capoluogo) invece mi colpisce per il verde. Dal finestrino scorgo frutteti curati ed enormi alberi di fichi addossati ai binari.

Quando giungiamo alla seconda stazione di cui non ho né letto né capito il nome (qui gli annunci vengono fatti solo in greco) inizia a piovere intensamente, non sembra neanche di poter essere nello stesso paese devastato dagli incendi solo poche settimane fa.

Il paesaggio cambia radicalmente quando si supera il massiccio montuoso che immagino essere del monte Olimpo. Il verde si trasforma in ocra e la pianura precedente si alza in bassi e dolci pendii prima di lasciare spazio a piccoli rilievi tempestati di arbusti che racchiudono distese di coltivazioni più basse.

Intanto i ragazzi che pensavo lèggessero in cirillico scendono alla stazione di Thiva che mi pare abbastanza in mezzo al nulla con uno zainetto a testa e rimetto in dubbio la loro nazionalità.

Via via che ci avviciniamo ad Atene il treno si riempie. Rilievi simili ai monti del Limbara che costeggio nei miei viaggi estivi a Stintino si alternano a coltivazioni e zone più boschive. Mentre attraversiamo una di queste aree ormai sempre più vicini ad Atene fa una certa impressione vedere distese di alberi bruciati dal fuoco.

La stazione di Atene fa un certo effetto se si pensa che è la capitale del paese, non sembra niente di più di una stazione secondaria di una città di media grandezza italiana. I bagni hanno la carta igienica ma in compenso manca il sapone, poco male, ormai tutti giriamo con l’igienizzante per mani in borsa. Decido di mangiare la pita con patate che ho comprato a Salonicco con l’idea di far defluire i passeggeri del mio stesso treno che con molta probabilità si dirigeranno verso la metro. Il pensiero ha un suo senso e infatti quando scendo verso la fermata trovo ancora un po’ di fila alle biglietterie automatiche e riconosco alcune compagne di scompartimento del Salonicco-Atene.

La linea rossa della metropolitana è veloce ed efficiente, una lucina verde indica sulla cartina nei vagoni qual è la fermata verso cui ci stiamo dirigendo. Dalla stazione alla mia fermata, Acropoli, sono cinque soste. Dall’uscita ci impiego poco a orientarmi e arrivo al mio ostello. La stanza è molto spartana ma soprattutto è gelida. Cerco di sistemare le mie cose in modo da avere a portata di mano tutto ciò che mi servirà oggi e domani, mi riposo una mezz’oretta e poi mi butto nel caldo ateniese.

Come prima cosa compro i biglietti per l’Acropoli ma vederla così esposta al sole e con ombra risicata mi fa optare per andare più vicina al tramonto. Mi dirigo quindi verso l’arco di Adriano e quel che resta dell’antico tempio di Zeus. È rimasto poco ma quanto basta per avere un’idea delle dimensioni.

Poi entro in una strada a caso e mi trovo tra i vicoli di Plaka e penso che mi sarebbe piaciuto sedermi in più o meno ogni bar a fare quattro chiacchiere. Sembra di essere in una cittadina di mare ma più grande. Cammino a caso per circa un’ora prima di cominciare la scalata all’Acropoli. Benché siano già le 17.30 è ancora caldo. Ogni tanto mi fermo all’ombra e con finta distrazione ascolto le guide che parlano in inglese. Allora noto quelle che sarebbero state le poltrone dei vip dell’antico teatro di Dioniso. Un po’ mi emoziono a pensare a una raffigurazione teatrale avvenuta più di duemila anni fa su quel palco. Mi do ampie pacche sulle spalle quando distinguo la struttura architettonica del teatro greco da quella del teatro romano. Poi salgo ancora e ringrazio di aver preferito la comodità all’eleganza per questo viaggio. Le mie comode e leggere scarpe da trail running tengono la caviglia e quando la folla intorno a me inizia a scivolare sui marmi lisci che portano ai propilei mi beo nella mia lungimiranza.

Quando parlo di folla, parlo di folla. Siamo in tanti sulla collina sacra di Atene coi nostri telefoni in mano. Gli italiani mi sembrano i più rumorosi ma forse ci faccio caso perché li riconosco. Poi è un fiorire di lingue, inglesi, americani, francesi, greci, spagnoli, olandesi, tedeschi e tutti quelli di cui non riconosco gli idiomi. Il vento soffia forte, tanto che la mascherina diventa utile a non trovarsi la sabbia in gola ma generalmente il clima generale dei turisti è piuttosto disattento alla pandemia. Quando si riesce a trovarsi sul lato del partenone che dà sul teatro di Dioniso, nel minor rumore si sentono anche le cicale che cantano nell’area verde circostante alternate ai fischi dei guardiani dell’Acropoli che chissà quante volte al giorno devono ricordare ai turisti cosa non possono fare.

Quando i marmi bianchi si sono abbondantemente tinti dell’oro del tramonto incipiente, mi dirigo verso l’uscita. Mi accorgo che in molti escono dal cancello e svoltano a destra, verso una collinetta da cui si può vedere il sole scomparire dietro le alture che circondano questa città talmente accalcata che pare di essere di fronte a una veduta di una grande città sudamericana addossata alle montagne. È la collina dell’aeropago dove si sono mischiati mito e storia, sarebbe lì che Ares è stato giudicato per l’omicidio della figlia di Poseidone.

Alcuni sono evidentemente capitati lì per caso, altri sanno che è il posto in cui essere intorno alle 20 e ci arrivano muniti di bevande.

Ho troppo sonno per tornare in ostello e uscire dopo. Decido quindi di fermarmi in una piccola tavola calda dietro l’ostello. Da quando sono arrivata non ho ancora mangiato un souvlaki e mentre camminavo fra le rovine dell’Acropoli, dal basso sentivo arrivare profumi di carne alla griglia. Prendo un piatto di souvlaki con patate, pomodori, cipolle, pita e tzatziki e una birra. Poi l’atmosfera della città mi sembra troppo carina per andare subito a letto. Mi trascino letteralmente per Plakia e penso a quanto vorrei essere vestita meglio e meno stanca. Invece dopo un po’ me ne torno a letto, dove sono ora, le mie compagne di stanza devono essere fuori, ad ora ne ho intravista una.

Io in compenso sto crollando, è stata una lunga giornata e quella di domani si prospetta densa di visite e di caldo. Sono talmente stanca che non mi toccano neanche i rumori che vengono dalle altre stanze. Spengo tutto, chiudo gli occhi e mi abbandono al sonno.

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