Se a Iota dicevo scherzando che mi sentivo un po’ la sua vassilissa, la sua regina, per quanto mi stava viziando, dagli zii fiorentini l’ospitalità prevede anche una buona dose di collaborazione. Stamattina ad esempio ho cominciato preparando la mia specialità di cui buona parte dei villeggianti è ghiotta: la crema pasticcera. Finita quella ho indossato i panni della zia.

A Sikinos sto visitando una sorella di mio padre col marito, il loro figlio con moglie e due bambine e una coppia di loro amici con tre figli. Abitando lontani dal mare e con una sola macchina a disposizione l’organizzazione delle giornate prevede incastri meticolosi. Per oggi è stato deciso che io andassi con i bambini e la mamma dei tre alla spiaggia di Agios Georgios dall’altra parte dell’isola. Muniti di tiropite (pite al formaggio) pomodorini, pane, feta, patè di olive e dei dolcetti visivamente uguali alle formaggelle sarde ma poi diversi nel sapore, abbiamo percorso le curve che segnavano i pendii scoscesi dell’isola per giungere a una spiaggia attrezzata di sei ombrelloni gratuiti a disposizione di chi per primo arriva e vari alberi di ginepro sotto cui ripararsi dal sole. Sulla spiaggia c’è anche un ristorante e gli ombrelloni sono pesanti e praticamente cementati nella spiaggia per evitare che il vento li porti via. In effetti il vento soffia a raffiche molto forti tanto che più di una volta ci siamo trovate a inseguire oggetti sparsi sollevati dal vento. L’acqua di Agios Georgios è limpida e fresca, incastonata tra gli scogli e con una forte corrente che porta al largo. La tarda mattinata/primo pomeriggio è passato tra bagni coi bambini e poche bracciate che però mi sembravano le bracciate più rapide che avessi mai fatto.

Agios Georgios

Con un tempismo degno delle migliori organizzazioni, se avevamo deciso che alle 15.30 bisognava partire per tornare a casa, alle 15.30 spaccate ho messo in moto la macchina.

Un’ora dopo, vestiti da trekking e senza bambini, siamo partiti per una camminata pomeridiana in direzione Agia Marina che contrariamente a quanto uno potrebbe pensare, si trova sul cocuzzolo di un monte. Marina infatti non indica il mare bensì il nome della santa a cui è dedicata la piccola chiesa.

Il sole delle 16.30 è ancora caldo ma gli ultimi colpi sferzati dal meltemi che negli ultimi giorni ha reso impossibile cenare fuori, sono provvidenziali per sostenere la temperatura.

Terrazzamenti

Quando si lascia la strada principale, il sentiero scorre in alto vista mare e infiniti terrazzamenti in disuso dell’isola. Stiamo camminando da poco sul tratto sterrato quando l’occhio di mio cugino cade su un piccolo serpente fermo in mezzo al sentiero. Ci avviciniamo per vederlo meglio e capire se è vivo o morto quando scappa via. E menomale perché avevamo appena avuto il nostro primo incontro con una vipera.

Insieme a noi c’è un’amica dei miei zii, italiana anche lei che da vent’anni viene a fare le vacanze qua. Ci racconta che se prendiamo un altro sentiero sotto quello che stiamo percorrendo noi si giunge a un terreno comprato da una coppia di svizzeri che vive del proprio orto e va a fare la spesa ogni quindici giorni a dorso d’asino.

Degli studi fatti da un architetto greco hanno riconosciuto che a Sikinos certe cose si sono fatte allo stesso modo dal 2000 a.C al 1950 d.C. Le terra si è sempre lavorata nello stesso modo, idem per le case, fatte di muri a secco e tetti fatti di pietre appoggiate su travi di ginepro, il tutto ricoperto dalla calce bianca protettiva. Salendo verso Agia Marina abbiamo passato quelli che probabilmente erano i resti di una fornace in cui si preparava la calce, supposizione avvalorata dalla presenza di residui di polvere bianca. Ma prima di arrivare alla fornace e di avvistarne altre sul pendio del monte, siamo giunti alla chiesa di Episkopi, una costruzione un po’ più grande delle altre dislocate un po’ ovunque per l’isola. La attuale chiesa cristiana è stata impiantata su un precedente tempietto romano del III secolo d.C. e le colonne e l’architrave che sono stati inglobati nella costruzione attuale rendono questa origine evidente. La chiesa è chiusa e in ristrutturazione ma da un’iniziativa del festival per le strade di Kastro finito ieri, siamo venuti a sapere che all’interno c’è una scala in pietra che si ferma a metà. Questo perché per salire in cima si usava una scala a pioli in legno che poi veniva tirata su al piano superiore quando gli abitanti di quella zona fuggivano dai pirati. La stanza in cui si rifugiavano sopra la chiesa era dotata anche di cucina. Tutte queste storie di fughe dai pirati mi fanno pensare a quanto dovesse essere stato duro vivere nell’antichità, laddove ogni luogo era terreno di conquista e dove dal mare di solito arrivano solo cattive notizie. Non è un caso che in molte isole, tra cui anche la Sardegna, storicamente si è sviluppata una tradizione più di terra che di mare.

La passeggiata si rivela una sorta di ricerca archeologica, tra rocce in cui è intagliata una piccola vasca quadrata alta pochi centimetri accanto a una chiesetta e sul cui uso non sappiano niente, pezzi di coccio intorno ai ruderi del primo insediamento su Sikinos, delle grosse pietre disposte a scalini che scendono in quel che resta di quel che forse era una fonte.

E così il pomeriggio si trasforma, il sole cala, la foschia si dirada e si vede il profilo di Folegandros davanti a noi. Tra un aneddoto e l’altro, la storia di Sikinos ci passa davanti agli occhi. Le fornaci, i ruderi, le chiese, i riquadri nella roccia in cui anticamente venivano convogliati gli sciami d’api, l’antica strada romana conservata perfettamente che si trova protetta sotto l’asfalto perché quando si è scelto di non aprire una nuova via tra le rocce l’unica soluzione era continuare a utilizzare la via romana. Ogni giorno qui si impara qualcosa e ci si immerge nell’atmosfera di quest’isola che non vive fuori dal tempo, vive proprio in un tempo suo, arcaico, immersa nel Mediterraneo e in quella sua civiltà di cui mi sento così profondamente parte.

Oggi che il meltemi è calato mangiamo sul tetto. Mentre aspettiamo gli altri, con mio zio ci beviamo una birra vista crepuscolo sul mare. “Dolce color d’oriental zaffiro”. Davanti alle sfumature del cielo che dal rosso volgono verso il blu, mio zio cita Dante e Borges che riteneva questo verso il più bel verso della letteratura e io mi ricordo quanto amassi i pranzi della domenica quando ero ragazzina e a un certo punto mio zio cominciava a raccontare storie e aneddoti e dare poesia al sapere col suo modo di raccontare. In una sorta di cerchio che si chiude, in una delle chiacchierate a tavola, sono anche venuta a scoprire che mio zio è amico proprio del Giulio Guidorizzi di cui sto leggendo un libro.

La moglie di mio cugino non è venuta a camminare e ha preparato da mangiare. Riso, pollo con peperoni, tzatziki, peperoni verdi ripieni di feta e fritti, è tutto talmente buono che non so con cosa finire. Dopo i dolci passano degli amici francesi degli zii e questo angolo di Cicladi diventa ancora più una babele di lingue. Italiano, inglese, greco, giapponese, francese. Si passa dall’una all’altra e si continua a parlare di quest’isola che a quanto pare o ami profondamente o non capisci. Io mi sento di appartenere al primo gruppo. Davanti a questa maestosità della storia e della natura, io non riesco a capire di cosa altro ci sia bisogno.

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