Quando con M. ci siamo salutate al rumoroso incrocio tra viale Leone IV e viale Giulio Cesare erano passate la 21 da poco. Le forse neanche due ore che avevamo trascorso insieme però mi erano sembrate così dense di un sentimento che non riuscivo ad afferrare che per me poteva essere anche mezzanotte. La domanda sorgeva spontanea: non è che mi stessi innamorando? L’incrocio di sguardi a Castel Sant’Angelo aveva scosso qualcosa però non riuscivo bene a capire cosa. La pancia, del resto, era rimasta del tutto silente e questo un po’ mi rassicurava ma molto mi confondeva. Credo che i giorni successivi mi abbiano in parte risposto ma ci arriverò a tempo debito.

Essendo stata più volte a Roma avevo deciso di prendermi questi giorni con tutta calma e di dedicarli più a incontrare persone che a visitare luoghi. Dormendo a due passi dai Musei Vaticani però avevo ritenuto imperdibile l’occasione di finalmente vedere la Cappella Sistina dal vivo.

La mattina è partita con l’attesa del rapidissimo passaggio di M. che praticamente mi lanciava il suo zaino, aveva deciso di dormire dai miei zii e lasciarlo la mattina avrebbe semplificato la logistica. Poco dopo sono uscita per incontrare una delle amiche storiche di mia sorella che si era trasferita a Roma d qualche anno. Con R. abbiamo girovagato un po’ in una zona che nessuna delle due conosceva prima di trovare un bar che ci ispirava. Ci siamo sedute a un tavolino minuscolo appoggiato al muro e tra un cappuccino e una brioche, una chiacchiera e l’altra ci siamo avvicinate all’ora in cui avevo prenotato il mio ingresso al museo.

I Musei Vaticani sono tanti. Troppi direi. Che quando arrivi alla fine non ne puoi più, soprattutto quando il reale motivo per cui sei lì sta quasi in fondo al percorso museale. Uno degli aspetti per me più sorprendenti però era legato alla discrepanza fra una tendenziale pudicizia e condanna del piacere da parte dell’istituzione ecclesiastica e una presenza sterminata di statue di nudi, di divinità pagane, di celebrazioni dell’arte. Camminando fra quei corridoi mi sembrava di vivere in una centrifuga di contraddizioni. I nudi e la loro condanna, la mia diffidenza nei confronti della Chiesa e le meraviglie dell’arte che abbiamo grazie alla stessa, come potessero convivere nella stessa comunità l’opulenza e la privazione. Però intanto ero arrivata nelle stanze affrescate da Raffaello e la differenza fra un’opera vista su un libro di testo e una vista dal vivo mi ha avvolta coi suoi molteplici colori. Quando ho letto le note informative sulla “Scuola di Atene” mi sono sentita travolta dalla personalità dell’artista che decide di attribuire ad alcuni dei personaggi i volti di suoi contemporanei. Mi sono immaginata quei quadri come delle foto dell’epoca, dei reperti storici oltre che artistici, quasi fossero delle foto. Ancora però non ero arrivata al culmine della visita: la Cappella Sistina.

La cappella Sistina fa parte di quei monumenti mitologici per me, di quelli che non puoi dire di aver realmente vissuto se non ci sei mai stata. Di recente avevo anche visto il film di Andrei Konchalovsky Il peccato pertanto la visita acquistava un ulteriore senso di completezza. Ebbene, nonostante la stanchezza derivata dalle ultime due ore trascorse per le sale dei musei e la fame incipiente, all’interno della cappella sono stata colta da un sentimento di sopraffazione che neanche le troppe persone e l’impossibilità di sedersi per godere appieno degli affreschi sono riusciti a scalfire. Addirittura quando un prete ha chiesto l’attenzione e il silenzio ancora più totale dei visitatori per fare una preghiera, mi sono trovata un po’ disarmata, sicuramente non infastidita. Ormai però ero stravolta dalla visita e dalla quantità di informazioni che avevo ascoltato con l’audioguida per cui, appena finite le letture riguardo la cappella Sistina, sono uscita dai musei e sono tornata a casa in attesa del mio secondo appuntamento della giornata.

I. era una mia compagna di liceo (e di banco) che si era trasferita a Roma appena finite le superiori e che nei 16 anni precedenti avevo visto forse un paio di volte. Ma tra le cose che la crescita (e forse anche un rapporto meno oppositivo con la vita) mi ha donato c’è anche il piacere di incontrare persone con cui non ho un rapporto quotidiano e con cui dover trovare altri argomenti di conversazione. Con I. siamo andate a berci un paio di birre vicino a casa dei miei zii e abbiamo chiacchierato come se il tempo si fosse fermato e fossimo ancora in quel banco di quinta superiore. Poi lei se n’è andata e io sono tornata a casa solo per uscirne poco dopo in direzione del mini market: con M. ci eravamo accordate per cenare insieme e poiché lei stava vivendo di quel che chiedeva, avevamo deciso di mangiare a casa. Quando avevo accettato il suo modo di vivere in cammino avevo però posto una questione riguardo ai giorni romani in cui mi sembrava difficile bussare alle porte. Magari dovrai accettare che io mi sostituisca alla divina provvidenza e compri qualcosa da mangiare, le avevo detto. M. ne aveva riso e ovviamente non si era opposta.

Uno degli aspetti che mi pare abbia più colpito M. di me è che fossi un’italiana a cui non piaceva più di tanto cucinare. M. invece era appassionata e infatti si proponeva di sostituirmi in cucina una volta arrivata dopo la messa tardo pomeridiana. Mi mandava whatsapp con torte salate e dolci pronte in dieci minuti ma per quanto preparare da mangiare mi facesse oltremodo fatica, per di più in una cucina che non conoscevo, mi sono rifiutata di permettere che una persona che un po’ stavo ospitando dovesse prepararmi da mangiare quando io sarei peraltro arrivata a casa un paio d’ore prima di lei. Quindi ho optato per la ricetta più semplice e di effetto che potessi preparare dovendo comprare ogni singolo ingrediente: la parmigiana di melanzane, variante leggera con le melanzane arrostite anziché fritte.

Quando M. è arrivata a casa ha trovato la tavola apparecchiata e me felicemente rilassata che ascoltavo musica e partivo con l’assemblaggio delle varie componenti della parmigiana. Ha allora preso il suo taccuino da viaggio e, come aveva fatto col sugo di pomodoro a Firenze, ha annotato meticolosamente il procedimento per preparare la parmigiana. Melanzane, sugo, mozzarella, parmigiano e ripetere fino a esaurimento. L’arrivo di M. mi aveva talmente distratto che solo al momento di mettere la teglia in forno ho realizzato che avevo lasciato un’ultima mandata di fette di melanzane ad asciugarsi dall’acqua. Poco male, quelle non totalmente bruciate ci sarebbero tornate utili il giorno dopo. Prima di andare farsi la doccia M. ha letto il messaggio in cui le comunicavo che mi ero dimenticata del dolce, quindi è uscita senza troppa convinzione salvo tornare dopo nemmeno dieci minuti con un paio di brioche recuperate in un panificio che stava chiudendo.

Come la maggior parte dei fatti della mia vita, mi aveva fatto fatica l’idea di cucinare, poi in realtà, una volta cominciato, mi ero divertita e mi piaceva questo senso di prendermi quasi cura di una persona. Preparare una cena buona, apparecchiare con cura, sperare di aver comprato un vino decente, creare un po’ di atmosfera con la musica, fondamentalmente fare la padrona di casa che accoglie l’ospite. Il concetto di sacralità dell’ospite mi è stato inculcato al punto che, come ci siamo sedute a tavola, sono schizzata in piedi di nuovo per mettere in pausa momentaneamente la musica in modo da permettere a M. di dire la sua preghiera prima di mangiare. Credo che quello sia stato il momento in cui ho deciso che non mi interessava cosa pensassi io ma cosa fosse importante per M. e avevo capito che la preghiera lo era. Durante la cena poi le ho anche detto che avevo riflettuto sulla sua fede e mi ero resa conto che senza di essa lei non sarebbe stata la persona che era e, poiché a me piaceva la persona che era, non potevo rigettare la sua fede. Magari non l’avrei abbracciata però mi sembrava importante cercare di conoscerla.

Poi abbiamo parlato anche di cose più leggere. M. ad esempio ha continuato a prendermi in giro per quel mio amore per Firenze che in fondo (ma lei questo non lo sapeva del tutto) io stessa criticavo nei fiorentini che credono di vivere nella città in assoluto più bella del mondo e si comportano come se la cupola del duomo l’avessero costruita loro. Poi mi confessava che da quando mi aveva conosciuta aveva il sospetto di non saper più parlare l’italiano: il mio accento fiorentino con le sue “c” a tratti aspirate e a tratti strascicate insieme alle “g” la mandava nei pazzi. Ma un po’ mi prendeva anche in giro per i miei hai ragione che scivolavano sulle “g”. Io intanto ho continuato a ridere da sola ogni volta che pensavo alla parola francese per zenzero (gingembre) e a prenderla in giro per le sue difficoltà a fare di conto nonostante fosse una professoressa di matematica che mentre le spiegava ai suoi alunni talvolta si emozionava di fronte a una bella espressione.

La cena è quindi proseguita allegra e senza intoppi. Da un lato eravamo due persone che si stavano conoscendo, dall’altro potevamo anche benissimo essere due amiche che si trovavano a cena e questo aspetto mi sorprendeva enormemente in me, non tanto perché non sia una persona piacevole in grado di intrattenere conversazioni sui più svariati argomenti ma perché mi ero sentita definire talmente tanto spesso una persona disagiata con gli altri che avevo finito per crederci anche io senza realmente esserlo. Forse, molto più semplicemente, lo ero in situazioni in cui non avevo niente di interessante da dire o da ascoltare.

Prima di eclissarci a letto abbiamo anche cercato di capire come organizzare il mio rientro a Firenze. Quando M. mi aveva mandato le tappe che avremmo camminato insieme le aveva prese dall’applicazione web della via Francigena del sud che prevedeva una prima sosta a Castelgandolfo e una seconda a Velletri, entrambe località servite dal treno; quando aveva acquistato un libro cartaceo della stessa e mi aveva inviato punti tappa, chilometraggio e altimetrie ero già in viaggio e avevo realizzato con orrore non solo che non erano le stesse del primo messaggio ma che la seconda tappa terminava in una località sprovvista di stazione e di cui faticavo a trovare orari dei bus e coincidenze civili per tornare a Firenze. Nonostante un po’ di timore ho però deciso di affidarmi alla convinzione di M. riguardo al fatto che avremmo trovato una soluzione lì e per lì e abbiamo chiuso la questione.

Intanto le ore erano passate e la mattina dopo ci aspettava una sveglia presto. Un amico prete di M. avrebbe detto una messa per lei in una piccola cappella dalle parti del Colosseo e, appurato che avrei fatto l’esperienza completa (seguire la messa a cui sarei arrivata a piedi anziché con la metro), la partenza era fissata intorno alle 7.30 del mattino. M. aveva deciso di dormire nel divano letto del salotto mentre io mi sarei ritirata nella camera da letto dei miei zii. Avevamo già aperto il divano letto ma abbiamo continuato a chiacchierare. Fino ad allora mi ero sentita io la destinataria di domande, sul divano invece ero io a chiedere. Un po’ come il nome puntato, anche le risposte di M. rimangono una questione privata, mi sento però di poterne trascrivere parte di una: mi piace troppo la libertà. Al che, io, che avevo sempre pensato alla fede come a una gabbia, mi sono trovata a dover tornare ancora una volta sui miei passi riconoscendo in effetti in tutto quel che mi aveva raccontato di sé una gran voglia di seguire la strada che lei stessa si era scelta incurante di pressioni più o meno visibili che poteva ricevere dal mondo circostante.

Quando ci eravamo decise per andare a letto la conversazione si è spostata sui figli e sulle mie difficoltà oggettive ad averne. Davanti al suo sguardo perplesso allora ho deciso di far cadere l’ultima parte di me che ancora mi ero tenuta esplicitamente per me convinta che i segnali impliciti fossero stati chiari tra le righe delle mie canzoni che le avevo cantato e le mail che le avevo scritto. Nel candore dei suoi occhi stupiti invece ho realizzato che non le era passato neanche per l’anticamera del cervello ma era talmente curiosa che pur mezzo addormentata ha cominciato a fare domande. Ho amici gay maschi ma donne non ne ho mai conosciute.

La sessione di domande e risposte è stata breve perché avevamo entrambe sonno e il tempo per parlarne non ci sarebbe mancato i giorni successivi ma se non altro sono andata a letto ulteriormente tranquillizzata: era davvero facile parlare con M. che aveva quell’aria di dare importanza a ogni persona che incontrava sulla sua strada e le cui domande non nascondevano mai giudizi sotterranei ma solo pura curiosità.

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