Ho concluso la vita precedente con l’attesa di un trasloco ma non mi soffermerò più di tanto. Basti sapere che l’impresa si presentava di una certa entità: stavo lasciando un appartamento di 55 metri quadri per chiudermi temporaneamente in una stanza con bagno (ma senza cucina) di 16 sotto l’appartamento dei miei genitori. Ora che ho concluso il trasferimento posso dire che ho tre quarti della vecchia casa chiusa in scatoloni nascosti in un sottoscala accessibili con un po’ di impegno ma la situazione è vivibilissima, probabilmente non tanto diversa da quella di un monolocale parigino dove all’interno di probabilmente meno spazio è inclusa anche la cucina e che chiudere il divano letto ogni mattina non è poi così terribile come pensavo, soprattutto visto che il divano letto è più comodo e largo della branda monastica che ho trovato quando sono arrivata. Detto questo, penso che se le convenzioni di Ginevra considerassero i traslochi come tortura, in pochi avrebbero da obiettare, soprattutto quando si sta lasciando un secondo piano che pare un quarto senza ascensore e si fa quasi tutto il trasloco da sola.

Al di là della fatica psicofisica del trasloco però mi sono portata dietro a lungo il buonumore e la serenità di cui mi ero riempita in cammino, non sono tornata sui miei passi spinta anche da una strisciante sensazione di non poter fare altrimenti e ho continuato a lavorare al mio progetto che di fatto non prevedeva niente di diverso da un salto nel vuoto. Addirittura in quelle settimane mi sono ritrovata in bici per le strade di Firenze, tornavo a casa da un picnic di compleanno, cantavo una canzone che ci eravamo trovati a suonare con amici sotto il sole e pensavo oh la vie est belle! Di lì a un paio di giorni mi sarei trovata con l’ennesima valigia in mano e un’altra vita ancora a scompigliarmi i capelli.

Benché abbia deciso di lasciarlo, il mio lavoro ha dei privilegi. Uno di questi è che lavorando per il presidente del Club Tenco, ho avuto modo di presenziare alle ultime due edizioni in presenza della Rassegna della Canzone d’Autore organizzata dal Club stesso a Sanremo. Se la prima volta, nel 2019, mi sono presentata timida e generalmente attaccata al mio capo se non praticamente quando lui andava a letto, quest’anno ho deciso di approfittare di ogni secondo che avessi avuto libero. E, complice uno stato di salute non eccelso del boss, ne ho avuti parecchi di secondi liberi. Due anni fa probabilmente sarei stata nella mia stanza d’albergo in attesa di telefonate che mi chiamavano al lavoro, quest’anno ho optato per vivere quel che c’era da vivere e al momento della telefonata mi sarei mossa. Ho vissuto talmente tanto che un po’ mi sentivo anche in colpa davanti ai privilegi che mi erano stati accordati, salvo dirmi che in realtà, al lato organizzativo della rassegna, un po’ avevo collaborato anche io e quindi un po’ mi meritavo di stare lì con il mio pass all areas.

Passeggiata in attesa di telefonata di richiamo al lavoro

Il dibattito su cosa sia o cosa non sia canzone d’autore credo sia pressoché senza soluzione. Non si possono certamente utilizzare gli stessi schemi che hanno portato alla definizione del cantautorato delle origini per definire la musica d’autore oggi, sarebbe una sorta di falso storico che peraltro lascerebbe fuori tanti artisti che sanno fare un uso sapiente della parola ma che si inseriscono in filoni musicali differenti da quelli del cantautorato storico. I cantautori degli albori, i vari Guccini, De André, Vecchioni, De Gregori, etc erano figli della loro epoca e usavano strumenti innovativi per i loro tempi ma che oggi sarebbero lontani dalle innovazioni del contemporaneo. Per risolvere questo conflitto di attribuzione della locuzione canzone d’autore, la rassegna Tenco di quest’anno si è mossa in una direzione più universale dando vita alla definizione di canzone senza aggettivi in cui spariscono le categorie (leggera, pop, rock, d’autore…) e ci si può concentrare solo sul bella o brutta. Tutto il programma della rassegna ha seguito questa linea.

Prima di proseguire devo fare una premessa: ho un approccio molto istintivo all’ascolto, di solito noto prima la musica, poi la musicalità delle parole, infine il contenuto lirico, faccio fatica ad appassionarmi a canzoni per il loro solo testo. Ho anche una formazione più rock (e pop) che cantautoriale in senso stretto, ero quindi molto incuriosita da questo nuovo corso del Tenco.

A rassegna finita il mio parere è del tutto personale ed è anche ambivalente. Da un lato infatti ho trovato sonorità e proposte principalmente un po’ âgées, dall’altro però credo non ci sia stato un solo set che non abbia ascoltato volentieri (forse giusto la Mannoia: ineccepibile, per carità, però non sono un’appassionata del suo stile canoro). Ecco, di mia spontanea volontà probabilmente non avrei mai ascoltato molta della musica proposta, quando me la sono trovata davanti invece ho sperimentato la meraviglia della musica nelle sue diverse sfumature, che fosse la voce calda di Rusó Sala o il genio di Stefano Bollani (solo lui poteva presentare al Tenco la M’è morto ì gatto che più o meno ogni fiorentino che è stato giovane dai primi anni Novanta in poi conosce, almeno nel ritornello), l’energia di Lucio Corsi o i ritmi brasiliani di Marisa Monte. Artisti lontani dai miei ascolti ma che in quel contesto mi hanno tenuta inchiodata alla poltrona dell’Ariston con infinito piacere, anche quando di Marisa Monte mi ero sentita il soundcheck e alcuni pezzi sarebbero potuti uscirmi dalle orecchie per quante volte li avevo già sentiti. Curiosamente, una volta rientrata a Firenze, l’album che più mi sono ascoltata di artisti presenti alla rassegna era forse quello più lontano da me: Desirem di Rusó Sala e quando dico “più ascoltato” intendo che ci ho fatto anche buona parte del trasloco accompagnata dai suoi suoni morbidi e rilassanti.

Il Tenco non è solo i concerti serali al Teatro Ariston ma è in quel teatro che si svolgono i set più attesi e, in qualche modo lontani dal Festival, tanto che solo negli ultimi anni è capitato di trovare artisti che abbiano calcato il palco in entrambe le manifestazioni. Proprio in quell’Ariston culla del nazional-popolare del Festival di Sanremo, che la prima volta che lo vedi ti sbatte in faccia tutta la sua mitologia pop con le foto d’epoca che ti seguono fin dentro i bagni. Quando entri nel teatro vero e proprio invece ti chiedi dove mettano tutta la scenografia del festival e quando ti affacci nel backstage cerchi di capire COME funzioni la complessa macchina organizzativa del Festival. Ma è anche vero che sono sempre stata affascinata dal lato organizzativo dello spettacolo e quindi ci sta che un’altra persona che si aggiri per il backstage si faccia altre domande.

Il resto della rassegna si svolge tra la sede del Club Tenco sul lungomare, in cui a mezzogiorno si tengono le divertenti conferenze stampa quotidiane di presentazione della giornata e le conferenze del pomeriggio, e la chiesa sconsacrata di Santa Brigida nel quartiere della Pigna, nella città vecchia per i concerti delle 18. Per raggiungere la Pigna bisogna percorrere un dedalo di stradine pedonali che portano in alto ma una volta raggiunto il quartiere l’atmosfera si fa raccolta, amichevole, calda, che anche chi sta sul palco forse si sente in mezzo ad un gruppo di amici. E poi, dopo il concerto, per chi non ha fretta di scendere in basso è d’obbligo una sosta alla sede di Pigna Mon Amour, un’associazione culturale per la promozione di eventi nel centro storico di Sanremo, per buttare giù un gin tonic accompagnato da aperitivi caserecci a seconda del giorno: trippa, minestrone, cose così, in un clima verace in cui può capitare di assistere a improvvisazioni fra un cocktail e l’altro in cui il fil rouge è la gioia dell’incontro.

In generale durante tutta la rassegna la sensazione che più ho percepito è stata quella di un amore viscerale per la musica, per il palco, per gli incontri musicali e non che ruotano attorno alla rassegna. Non so se è la visione di una persona che ha avuto il privilegio di entrare tramite l’autorevolezza del proprio capo, è però anche vero che mai come quest’anno ho percorso le strade di Sanremo con i meravigliosi incontri che avevo portato avanti io nei pranzi o nelle cene dopo teatro in cui ero me, non l’assistente di.

Sara, Simona, Rusó, Ciro, Anna, Michele, Cecilia, Carlotta, Claudia, Enzo, Nino, Francesco, Marzia, Mimmo, Sergio, Sonia, Graziella, David, Elisabetta, sono alcuni dei nomi e dei volti che mi porterò dietro da questa ennesima vita che è stata la mia. Sono arrivata a Sanremo un mercoledì sera e me ne sono ripartita la domenica mattina. Ho dormito poco, ho mangiato e bevuto q.b., ho chiacchierato, ho riso, ho conosciuto persone, mi sono sentita più in vacanza che al lavoro, mi sono sentita a casa, ho deciso che una volta che ero lì, dovevo gustarmi e godere di ogni istante. E, come ho scritto a Malie in un messaggio da Sanremo, oh comme il est plus simple vivre quand on est heureuses!

Riposo post bagordi notturni, sempre in attesa di telefonata di chiamata al lavoro

Le vite che sono le mie finiscono qui. Una volta tornata da Sanremo ho terminato il trasloco e sono rientrata dai genitori. Non sono rimasta ferma, sono stata in Val d’Orcia per un sabato tra amiche seguito da una tre giorni in Svizzera per un funerale; ho passato settimane a chiedermi se partire o meno per Londra con l’esplodere della paura per la nuova variante omicron per poi ricordarmi il mantra che mi ha accompagnato da luglio ad oggi, ogni lasciata è persa, si vive una volta sola, e sono andata.

A fine anno lascerò il mio lavoro e si chiuderà quella che a modo suo è stata una rivoluzione durata quasi dodici anni. Non so cosa mi aspetti ma so anche che l’ignoto può essere molto più ricco di quel che si conosce. E’ quello che ho imparato vivendo tutte queste vite che in fondo, sono le mie.

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