Come scrivevo nella puntata precedente, viaggiare ai tempi del Covid è un po’ desolante, complicato ma non impossibile o viceversa. Addirittura si possono fare pure incontri inaspettati in attesa dell’imbarco quando sotto la mascherina si riconoscono sorelle di amiche che aspettano di salire sul tuo stesso volo. Come il Covid ci ha insegnato, per viaggiare (ma forse anche nella vita in generale) servono pazienza, flessibilità, la possibilità di spendere qualcosa in più a causa dei tamponi e un po’ di fatalismo.
La normativa per partire dall’Italia era cambiata pochi giorni prima della nostra partenza e infatti, al nostro Green Pass da vaccinazione, avevamo dovuto abbinare un tampone negativo entro 48 ore dalla partenza. Il tampone molecolare all’arrivo in Inghilterra invece era obbligatorio e veniva anche con una certa dose di preoccupazione: qualora un solo passeggero del nostro volo fosse risultato positivo al tampone, saremmo stati tutti sottoposti a dieci giorni di isolamento. Nel dubbio, la mattina stessa della partenza, mia mamma era andata a comprare un buon panettone da forno nel caso fossimo rimasti bloccati a Londra per Natale. Per essere sicuri di non fare tardi all’appuntamento col tampone, lo avevamo fissato la mattina successiva al nostro arrivo anziché nel tardo pomeriggio del giorno stesso. Per averlo il prima possibile avevamo scelto il primo appuntamento, quello delle 8. Per tornare un po’ alla percezione delle distanze, quando mia sorella aveva prenotato il nostro walk-in ci aveva detto che era abbastanza vicino. Ebbene, abbastanza vicino significava prendere un primo bus dietro l’angolo intorno alle 6.40, cambiare, attraversare la strada, arrivare al capolinea alla O2 Arena di Greenwich, iniziare a cercare il nostro tendone. Se prima della partenza ci eravamo interrogati sull’opportunità di partire sapendo che magari saremmo dovuti rientrare in Italia prima del tempo, l’alba maestosa che ci ha regalato Londra ha attestato che il prezzo del biglietto era stato ben speso. Avevamo lasciato una Firenze piovosa, Londra ci aveva accolti soleggiata e solo parzialmente nuvolosa. Nell’alba, inoltre, quelle nuvole sparse, morbide e dense quasi fossero di pile, si stavano tingendo di rosa, fuoco, e infine oro via via che il sole saliva.
Una volta espletato il nostro dovere di visitatori (anche se gli operatori chiedevano continuamente da dove stessimo rientrando) ci siamo trovati a decidere che fare: tornare diligentemente ed immediatamente a casa col bus o approfittare della bella giornata e affacciarci sul Tamigi prima di rientrare? Abbiamo scelto la seconda ipotesi e ci siamo diretti verso la Jubilee Walkway. Una volta lì abbiamo pensato di fare due passi che poi sono diventati tre, quattro, cinque, per poi trasformarsi in 13 chilometri che in qualche ora ci hanno riportati a casa. Il tutto con sullo stomaco una rapidissima colazione fatta ore prima. Ma sapendo che fino a che non avessimo ricevuto il nostro responso il luogo deputato alla nostra permanenza sarebbe stata la casa di mia sorella, abbiamo colto l’occasione pensando che dopotutto, l’aria aperta fosse meno pericolosa di un bus in cui non tutti indossano la mascherina obbligatoria.
Abbiamo quindi seguito la Jubilee Walkway che si srotola lungo il Tamigi, tra angoli di desolazione e strani passatempi.

La cosa che mi sorprende ogni volta di Londra sono le sue dimensioni, i suoi palazzi moderni, anche il Tamigi è fuori scala rispetto a quel che sono abituata a vedere. Marrone, denso, impetuoso. La camminata è proseguita lungo fiume fino all’altezza di Greenwich Park, lì abbiamo svoltato e siamo entrati nel parco, vivace come può esserlo un sabato mattina senza pioggia. Ciclisti, passeggini, lettori che spingono passeggini, persone che fanno jogging, passeggiatori, gruppi di persone con personal trainer che fanno esercizi, persone che portano a spasso cani, uomini tatuati dall’aspetto underground con al guinzaglio bulldog e chihuahua, mi sembrava di essere in mezzo all’essenza londinese: sii quello che vuoi essere, qui nessuno ti troverà strano. Intanto una miriade di aeroplani passavano quasi incessantemente sulla nostra testa. Appena fuori dal parco si è aperto una sorta di grande spiazzo verde in cui erano stati segnati dei piccoli campi da calcio in cui squadre vere e proprie di bambini giocavano e genitori tifavano e aspettavano. Costeggiavamo i piccoli calciatori e raggiungevamo Blackheath, un altro di quei piccoli centri che paiono più dei borghetti che dei quartieri. Vivace, pieno di locali e negozi, uno di quegli angoli pittoreschi in cui vorresti fermarti a prendere qualcosa da mangiare in tutto relax anziché essere in mezzo a una pandemia in un paese con zero controlli sugli accessi a bar e ristoranti e soprattutto mentre dovresti essere in isolamento a casa in attesa del risultato del tampone. Il passaggio è stato quindi molto rapido e così come siamo arrivati a Blackheath, così ne siamo usciti, addentrandoci di nuovo per placide zone residenziali e un altro parco, più piccolo, tipico di Londra e delle città di stampo inglese, credo.



La fame iniziava a farsi sentire sempre più forte, fortunatamente la nostra passeggiata di qualche ora stava per giungere al termine poiché raggiungevamo casa di mia sorella e con essa la necessità di riporre le nostre mascherine sul naso. A questo punto i ricordi si fanno un po’ sbiaditi, di sicuro c’è un po’ di televisione, l’ultima puntata del Graham Norton Show che guardo sempre volentieri, un probabile tampone di mia sorella, un pomeriggio spiaggiati sul divano a guardare L’ispettore Barnaby (Midsomer murders in inglese) e la sera tutti appassionatamente in mascherina a guardare la semifinale della versione inglese di Ballando con le stelle (Strictly come dancing) preceduta dal discorso alla nazione di Boris Johnson come probabilmente buona parte della popolazione autoctona. Insomma, non potevamo visitare Londra ma stavamo facendo la vita più British che ci fosse consentita.
La domenica è proseguita lungo lo stesso copione ad eccezione del mio infrangere la legge per accompagnare mia sorella al supermercato più vicino per fare un po’ di spesa per il brunch e alla decisione collegiale di abbandonare le mascherine perché i tamponi di mia sorella continuavano a risultare negativi e lei a non avere alcun tipo di sintomo. Abbiamo anche attaccato il panettone che ci guardava invitante dalla cucina ormai abbastanza certi che saremmo riusciti a ripartire (e comunque, come si fa a resistere al primo panettone della stagione?). Quindi altra giornata noiosa, tra la tv rimasta accesa sul programma domenicale presentato da una sacerdotessa anglicana con ampio spazio alle Christmas Carols (con tanto di testo in sovrimpressione e allora che tuffo al cuore ricantarle dopo che alcune melodie mi sono ritornate in mente da antri oscuri dell’infanzia) e una partita di calcio femminile tra Brighton e Manchester United non particolarmente avvincente (ho anche dormito), un po’ di tristezza perché in chiaro non si vedeva il cricket, un po’ di lettura e tanta noia fino a che intorno alle 18 il risultato dei nostri tamponi ci ha liberati e, vista l’ora ormai tarda, abbiamo fatto giusto una passeggiata in zona fino a Hither Green, l’altra stazione dei treni di cui poterci servire. “Giusto una passeggiata” ma pur sempre calibrata sulle distanze londinesi, un riscaldamento per quel che ci avrebbe aspettati nei giorni successivi.