Non sono solita dire la mia sulla dipartita di personaggi famosi ma quando ieri sera ho letto della morte di Mark Lanegan mi è sembrato talmente irreale che non riuscivo a crederci. Ne approfitto per rispolverare una cosa che avevo scritto in occasione del suo concerto al teatro Metastasio di Prato il 23 maggio del 2016. Ad aprire il concerto Duke Garwood che all’epoca non conoscevo e che ho iniziato ad apprezzare anni dopo.
Per capire il mio rapporto particolare con Mark Lanegan bisogna tornare indietro ad una sera di dicembre del 2006 ed entrare alla Flog sul cui palco stanno suonando i Twilight Singers di Greg Dulli. Per venire incontro alle fissazioni di mia sorella che vuole sbavare sotto la massa quasi elefantiaca di Greg Dulli siamo in prima fila, centrali, davanti a me un’asta con microfono che rimane vuota anche quando i Twilight cominciano a suonare. Dopo una mezz’oretta quell’asta diventa una delle esperienze concertistiche che più mi hanno segnata. Sale Mark Lanegan, cupo e silenzioso, parte un lento arpeggio di chitarra elettrica, un tappeto di sintetizzatori e infine una voce roca che sembra contenere tutte le profondità dell’Ade. Io non riesco a staccargli gli occhi di dosso, come se un filo invisibile si fosse formato fra me e lui. Da allora Lanegan è entrato nella lista di quegli artisti ai cui concerti mi risulta difficile rinunciare, sempre alla ricerca di quella calamita emotiva della prima volta. Questo ultimo lunedì 23 maggio, dieci anni dopo la mia prima volta ad un suo concerto, l’ho ritrovato a Prato al teatro Metastasio, in una veste semi acustica, accompagnato da due chitarre e un basso. Il concerto è preceduto dai rispettivi set del bassista e di uno dei due chitarristi. Chitarra e voce per entrambi, dolenti come le oscurità dell’America profonda sanno essere. Bravi ma con qualcosa che manca per invogliare a dedicargli attenzione oltre a questo concerto. Ed è solo quando intorno alle 22.40 sale sul palco Mark Lanegan che la differenza fra quello che era appena accaduto e lo spettacolo che ancora doveva venire si fa abissale. Lanegan si mette dietro la sua asta, gamba sinistra leggermente avanti, mano sinistra sul microfono, e al primo respiro riempie l’intero teatro con la sua sola voce. Dell’ora e mezzo di concerto avrò riconosciuto tre o quattro canzoni ma non è importante essere in grado di fare il karaoke sui pezzi di Mark Lanegan per godersi il concerto, anzi. Bastano lui, dei musicisti di una bravura impressionante e l’acustica pulita di un teatro per passare la serata nella continua e totale adorazione di questo signore un po’ scuro, che quando ringrazia sembra grugnire ma che quando canta potrebbe anche elencare gli ingredienti di una ricetta, riuscirebbe in ogni caso a tenere un intero teatro incollato alle proprie sedie.