
Ora che inizio a scrivere, martedì 31 maggio, tardo pomeriggio, sono seduta al tavolo della terrazza esterna, sole in faccia e delle enormi rose rosse che mi fanno compagnia. Quando arriva la sera e c’è il sole vengono tinteggiate da una luce dorata che le rende ancora più preziose agli occhi e allo spirito di quanto già non siano. No, non avrei mai pensato di trovarmi a parlare di rose così estensivamente ma è capitato pure questo durante il viaggio, mi sono appassionata alla sontuosa caducità delle rose. Quel che non c’è più davanti a me è il camper di Trine e Mathilde, sono andate via una mezz’oretta fa. Pensavo sarebbero partite lo stesso giorno mio, domani, quando ieri in macchina hanno detto che sarebbero partite oggi pomeriggio l’atmosfera si è riempita di una lieve malinconia da fine estate. Vedere il loro camper uscire dal giardino mi ha fatto risuonare in testa De André e la sua “Bocca di Rosa”: con te se ne parte la primavera. Questo sono state queste due ragazze di vent’anni, una primavera che ha cosparso di allegria e leggerezza la casa e, soprattutto, il mio cuore un po’ abbacchiato.
Alla fine di ogni mia permanenza mi piace fare un breve bilancio di quel che ho imparato, dei tasselli che ho aggiunto al mosaico di me stessa. Ripensando a queste due settimane faccio fatica a trovare qualcosa di immediatamente illuminante (se si esclude la certezza che se faccio una cosa, la faccio fino in fondo) ma se ripercorro queste due settimane penso anche che erano esattamente le due settimane di cui avevo bisogno in questo momento. Quelle in cui anziché cercare di incollare al loro posto i pezzi del mosaico, potevo semplicemente lasciarli lì, sperando che si sistemassero da soli, e ricordarmi di vivere nel frattempo. Che si trattasse di giocare a carte perdendo spesso, di buttarmi in danze sconosciute, di finire a fare un calcetto serale con gli amici adolescenti di Antoine in scarponi da trekking e occhiali, di cantare le mie canzoni al pianoforte davanti a qualcuno, di accogliere le possibilità che questa permanenza mi gettava davanti.
Ieri con le ragazze siamo andate a Mont Saint-Michel. Abbiamo visitato la rocca, l’abbazia, abbiamo percorso le strade straripanti turisti e fastidiosi negozi e bar che di autentico hanno solo il fatto di essere pensati per le orde di persone (tra cui me, per altro) che si riversano per questo piccolo gioiello indeciso tra terra e mare. Prima di tornare verso la macchina, approfittando della bassa marea, ho voluto fare il giro della rocca. Più mi avvicinavo al lato del mare e più sentivo irrefrenabile il bisogno di togliere le scarpe e addentrarmi nella infinita landa asciutta e desolata che si apriva verso lo stretto della Manica. Sembrava irreale, i miei piedi che calcavano quel che sembrava un bagnasciuga e in lontananza specchi d’acqua alti pochi centimetri creavano un’atmosfera straniante di miraggi nel deserto. Come sirene mi chiamavano ma fortunatamente il pensiero di Trine e Mathilde che mi aspettavano è stato più forte perché ad un certo punto sono sprofondata nella sabbia melmosa fino a oltre le caviglie e chissà dove mi sarei potuta trovare avessi esplorato ancora.




Raggiunta la macchina abbiamo preso la strada lungo la costa per dirigerci verso Cancale e i suoi allevamenti di ostriche. Abbiamo camminato fino al porto, ridendo e scherzando su sciocchezze come abbiamo fatto un po’ in tutto il nostro tempo condiviso, poi io ho scelto a caso uno dei banchi di produttori di ostriche locali e ho chiesto un piatto di degustazione con sei ostriche. In seguito mi sono diretta verso il furgoncino che distribuiva bevande per un bicchiere di vino bianco. Infine mi sono seduta su una panchina di cemento e ho gustato il mio aperitivo. Essendo abituata all’immaginario del lusso legato alle ostriche mi è sembrato invece così più verace e appassionante mangiarle da un piatto in plastica con le istruzioni di buttare i gusci direttamente in mare dopo.



Quando sulla strada verso casa ho proposto a Trine e Mathilde di fermarci a fare il bagno non se lo sono fatto ripetere due volte. Abbiamo scelto la prima spiaggia con parcheggio che abbiamo trovato, posato i nostri vestiti sulla sabbia e siamo entrate in acqua con solo le nostre mutande addosso. Io avevo anche l’asciugamano e il costume ma ho deciso che avrei impiegato troppo tempo a indossarlo e ho seguito la loro giovinezza fin dentro le acque fredde della plage du Guesclin così com’ero, spensierata, presente e felice. E in mutande.
Domani vado a Parigi, tra una settimana torno a Firenze. Ieri a Mont Saint-Michel ho camminato qualche metro dietro a una famiglia fiorentina: sentirli parlare è stato surreale. Poche ore dopo mi ha telefonato una mia amica, quasi non riuscivo a sentirmi parlare italiano, l’ho fatto così poco in questi mesi che mi sono quasi chiesta se fossi io. Apparentemente lo ero: gesticolavo parecchio anche al telefono.
Sono talmente disabituata a parlare italiano e sono stata talmente aperta a tutto ciò che mi è successo in questi mesi, soprattutto quando non ho parlato italiano, che ho iniziato a chiedermi se ci fosse una correlazione tra gli eventi. Se quel che dicevo quando a sedici anni scrivevo il mio diario in inglese anziché in italiano perché così mi sentivo un’altra persona fosse rimasto un po’ con me. Se per togliermi i sigilli dal cuore è meglio parlarmi in una lingua su cui non ho il controllo razionale al cento percento.
Domenica abbiamo festeggiato, in anticipo, il compleanno di Kate. E’ stata una giornata piena, non solo perché la mattina ho preparato una crema e ho aiutato Kate a pulire uno degli appartamenti che affitta o perché ho lavato tanti piatti la sera, ma perché circondata dai suoi familiari, dai suoi amici, mi sono potuta immergere pienamente in queste vite che, un po’ come quelle di tutte le famiglie che mi hanno ospitata, sono come fiumi, in continuo divenire, in continuo movimento. Dove nessuno ha trovato il suo posto nel mondo a vent’anni, dove tutti hanno viaggiato, esplorato, cambiato paese, cambiato lavoro, cambiato mogli o mariti. Queste vite fatte di cuori aperti all’ignoto.