Ho sempre avuto paura. Non tanto di cose tangibili come i ragni, gli spazi aperti, gli aerei, gli ascensori che, benché in alcuni casi non ami particolarmente, resto convinta vadano affrontati per non precludersi una serie di possibilità, quanto una generica paura di vivere, di uscire dalla scatola ben arredata in cui è sempre stato inquadrato il mio mondo interiore. Che non vuol dire che non abbia mai osato, in fondo viaggio da sola da molti anni (ma sempre in località abbastanza semplici), quando cominciai a giocare a calcio fu un deciso cambio di prospettiva, ma in quei casi le fondamenta della mia esistenza rimanevano sempre sicure, sapevo sempre dove tornare. Il processo che ho messo in pratica a partire da circa un anno fa invece ha previsto una vera e propria rivoluzione nel mio modo di approcciare la vita. Da un anno a questa parte ho iniziato a dare molto più valore all’istinto e a pensare alle conseguenze di certe mie azioni con molta più leggerezza, una lievità tale che mi ci fa pensare solo quando farlo diventa ormai inevitabile.
Il primo accenno di questo nuovo modo di vivere lo rintraccio nel mio viaggio in Grecia la scorsa estate, in particolare durante la prima settimana in cui ero ospite della suocera di un mio cugino ad Agia Triada, cittadina di mare a sud-ovest di Salonicco. Per quei sette giorni mi calai nella vita di un gruppo di pensionate locali, facendomi insegnare poche parole di greco e togliendomi la paura di sbagliare. Sempre durante quel soggiorno mi trovai ad andare a visitare l’incredibile luogo di sepoltura di Filippo II, padre di Alessandro Magno. Tralascerò le difficoltà organizzative per capire come muovermi coi mezzi locali, fatto sta che mi trovavo a Vergina in attesa di un bus che non passava e iniziava a diventare un problema perché la mia coincidenza a Veria per tornare a Salonicco e agli altri due bus necessari per raggiungere Agia Triada si allontanava sempre di più. Vicino alla fermata del bus c’era un bar con due famiglie tedesche tra gli avventori. Come li vidi allontanarsi decisi che non volevo spendere 18 euro di taxi e li raggiunsi. Captai la loro attenzione con un entschuldigung di liceale memoria e chiesi, nel caso in cui andassero in direzione Veria, se avevano un posto per me. Si strinsero in una delle due macchine e mi trovarono un posto. Sfortunatamente persi il bus per pochi minuti, aspettai quello dopo e il mio rientro si rivelò una vera e propria Odissea ma in quel momento stavo ponendo le basi per l’uscita da una comfort zone fatta di fiducia più nell’ordine costituito dalle leggi e dagli orari degli autobus per lanciarmi nell’ingresso del rischio, per quanto morbido. Circa due mesi dopo incontrai Malie che seguii perché mossa dal puro istinto e da lì la mia vita ha lentamente cominciato a percorrere una strada del tutto nuova.
Ho lasciato il lavoro, ho ufficialmente lasciato il calcio, sono partita in viaggio, mi sono misurata con quel che non conoscevo del mondo e di me stessa, sono tornata in Italia e ho sentito che l’unica cosa che potevo fare era ripartire. Non volevo avere il rimpianto di non aver mai fatto qualcosa per paura.
Così da quando sono qua ogni giorno cerco di aggiungere un tassello alla costruzione della mia vita qua. Un nuovo incontro, un nuovo scorcio della città, una nuova osservazione, una nuova riflessione, una nuova parola e, soprattutto, ancora una volta le coeur ouvert à l’inconnu, il cuore aperto all’ignoto.
Questa lunga premessa più simile a una conclusione mi è sfuggita di mano, come sempre, ma mi serve a introdurre un post meno descrittivo delle mie giornate qui e più generico sulla città e il paese, sulle tante piccole scoperte quotidiane che regala (o impone) la vita in un paese straniero, un paese in cui, Europa o non Europa, comunitaria o non comunitaria, sempre un’immigrata sono.
A partire dalla mia esperienza e da quella di molte delle persone che ho incontrato nel mio primo mese e mezzo parigino, quando si arriva in un posto nouvo le priorità sono: trovare un tetto, trovare un lavoro, crearsi una rete di legami in loco che spesso possono aiutare per i primi due punti. L’ordine e l’urgenza con cui occuparsi di questa triade è legato alle contingenze personali e spesso in realtà i tre punti vanno di pari passo ma le basi rimangono queste.
È per questo che, in maniera totalmente contro-intuitiva rispetto alla mia vita precedente, cerco di creare più legami possibili. Con un minimo di criterio ma sempre in quella direzione. In un posto in cui quasi nessuno ti conosce, è fondamentale creare rapporti di fiducia.
Trovare una casa, che sia in affitto o da comprare, nella région parisienne è un lavoro molto frustrante, c’è sempre qualcuno con un dossier più solido del tuo. Il dossier è quel plico che, oltre ai documenti di identità, contiene un contratto a tempo indeterminato (ma fuori dai tre mesi di prova), uno stipendio tre volte tanto l’affitto e un garante che lavori in Francia (o forse addirittura francese) in grado di coprire il costo del tuo affitto nel caso in cui ti trovassi impossibilitato a farlo tu. La presentazione di un dossier solido non ti dà la garanzia di trovare il tuo appartamento perché basta che arrivi qualcuno con uno stipendio o un garante migliore del tuo e verrai senz’altro declassato. Avere una rete di persone che ti conoscono e si fidano di te, ad esempio, è una chance in più per scansare le rigidità di un’agenzia. Avere una rete fitta di amici che hanno altri amici che a loro volta hanno altri amici, è un modo di avere più occhi e orecchie attente riguardo i movimenti di una grande città in cui tutto gira continuamente. Chi è in affitto e magari deve partire per una missione di studio o di lavoro, subaffitta. Chi si è stancato di vivere in cinque in un appartamento cerca altre soluzioni e lascia la sua stanza. Chi è arrivato ad odiare Parigi lascia proprio la città. C’è sempre qualcuno che se ne va e c’è sempre qualcuno pronto a prenderne il posto.
Quello che ho imparato stando qui è che ogni tipo di contatto è valido. Anche quello di un’associazione formata principalmente da simpatiche e curiose pensionate (o quasi) che scambiano gratuitamente saperi ed esperienze. Introduzione al pianoforte, conversazione in varie lingue, aiuto con gli strumenti burocratici del computer, kirigami, giardinaggio, decorazione d’interni, come cucinare un pasto indiano, introduzione alle danze di Bollywood sono solo alcune delle attività proposte per lo scambio tra gli associati. Io mi sono iscritta incuriosita dalla modalità, dall’idea dello scambio gratuito, ieri però sono andata alla riunione organizzativa e ho scoperto che hanno una newsletter mensile in cui potrò senz’altro diramare la mia richiesta di un appartamento e domani donerò la mia prima ora di conversazione in italiano a una delle tre interessate.
Da ieri in casa siamo al completo, tutti e quattro gli inquilini (due italiane, una francese e uno spagnolo) più una coppia argentina di amici di un’amica di una delle inquiline che aveva bisogno di un posto in cui stare per qualche giorno. Quando Giorgia ha proposto di uscire a fare una bevuta con un’amica e gli argentini, è stato naturale dire di sì, anche se ero partita per una serata serie tv. Vestita com’ero, senza vezzi (come se poi ne avessi), di corsa, abbiamo preso la metro e ci siamo recate a Belleville.
Belleville è il quartiere che si sviluppa intorno alla rue de Belleville, la strada che dall’alto della porta delle Lilas scende verso il centro di Parigi. Un tempo c’erano una zona araba e una principalmente orientale/cinese. Ad un certo punto, i proprietari della zona di confine non hanno più voluto affittare a nessuna di queste nazionalità e si è creato una sorta di cuscinetto bobo, bourgeois bohémien, di piccoli negozi specializzati, formaggiai, macellai, panettieri. Lungo un tratto della via, chiusa al traffico, si svolgeva la Festa della Luna, probabilmente una festività cinese perché cinesi erano tutte le bancarelle.

Noi abbiamo preso posto Aux Folies, uno dei tanti bar del quartiere. Apparentemente una delle pratiche della zona è cominciare a bere nei locali in cima alla via che hanno licenze di vendita per cui chiudono presto e nel corso della serata scendere per la collina fino ai bar con licenze valide fino a notte inoltrata. Noi abbiamo fatto l’inverso, prima alle Folies, poi risalendo per deviare verso il parc de Belleville con la sua vista su Parigi, ci siamo fermati al Cabaret Populaire Culture Rapide, noto per il suo annuale festival internazionale di slam di poesia ma in cui serate di microfono aperto per poesia, musica, teatro, commedia sono organizzate durante tutto l’anno. I posti nella piazzetta esterna erano tutti occupati ma noi ci siamo seduti nell’ambiente interno raccolto e semivuoto, dai cui muri trasudava tutto lo spirito di arte e militanza che uno un po’ si aspetterebbe da Parigi. Da lì ci siamo incamminati verso il parc de Belleville, la zona di Jourdain, place des Fêtes e poi casa.


La particolarità di Parigi, di Londra e immagino di tutte le grandi città, è che, come esci da una stazione della metropolitana, hai l’impressione di trovarti in una città diversa da quella da cui sei partita. Le strade che dal parco di Belleville portano alla metro Jourdain (o viceversa) sono silenziose, irregolari, decisamente non costruite intorno a cardo e decumano, costellate di tanto in tanto di piccoli bar dall’aria tranquilla e con qualche zona chiaramente dedicata allo spaccio.
Place des Fêtes invece è l’emblema di alcuni dei problemi di Parigi. Arrivarci dopo Jourdain è un po’ come passare dal film Amélie al film L’odio (seppure forse un po’ mitigato). Grandi palazzi, probabilmente degli anni ’70/’80, disagio sociale e resistenza alla gentrificazione che sempre di più sta investendo le zone popolari della città. Una volta superata la piazza il livello della mia attenzione si è piano piano eclissato, la lingua della serata era stata lo spagnolo (che io non parlo e che capisco come un italiano può capire) e l’argentina, ricercatrice universitaria sui temi della sinistra e dell’anarchia, è entrata in una lunga conversazione riguardante l’America Latina e le difficoltà di certe lingue degli Indios le cui regole stanno nella capacità di conoscere la loro cultura millenaria. Tutto questo se sono riuscita a mettere in relazione tra loro le parole che mi pareva di capire. Ma il gruppo in generale era molto militante, di tendenza anarchica e amante dell’America Latina. Io, di cultura più anglosassone, avrei comunque avuto molto poco da dire.
Anche questa volta sono partita con un’idea e poi mi sono trovata a seguire un flusso che mi ha portata lontana dalle cose che volevo dire, allungando nuovamente la mia lista di annotazioni mentali o nelle note del cellulare che mi capita di fare di tanto in tanto. Alcune in effetti potrei semplicemente elencarle qui visto che non credo meritino grande spazio. Ad esempio ho notato l’irresistibile attrazione fra i parigini (o forse le parigine) e le borse di tela o la persistenza in certi luoghi dell’odore di erba oppure che l’estate è davvero finita perché la metropolitana pullula di controllori. Un capitolo a parte forse meriterebbero i supermercati, ossia quei luoghi in cui è davvero difficile ritrovare i propri punti di riferimento e l’irrefrenabile bisogno della burocrazia francese di stampare tutto anziché procedere per invio telematico. Per non parlare del gergo che dopo due settimane di ricerca casa e lavoro capisci senza bisogno di spiegazioni e che finisce per appartenerti e lascerai cadere con nonchalance parole come coloc, sous location, éligible aux APL (significa che si possono richiedere contributi all’affitto sulla base del reddito), dépanner (risolvere un problema, in questo caso temporaneo), Smic (il salario minimo per legge, su un tempo pieno di 35 ore settimanali si assesta sui 1300 euro al mese) ma, soprattutto, il concetto di c’est la galère, espressione che può voler dire tante cose vagamente diverse che in questo contesto significa qualcosa tra la difficoltà e la seccatura, una sfumatura che in italiano non riesco a rendere. O almeno, così la interpreto io.
In conclusione, la grande città non è per tutti, forse non è per sempre, ma è pur sempre un crocevia di vite da incontrare e nuovi mondi da conoscere. Sicuramente, se vieni dalla campagna di quella che resta una città di media grandezza e pure un po’ provinciale, può spaventare ma rimane senz’altro elettrizzante con la promessa che se tocchi le caselle giuste, c’è una possibilità anche per te.
Credo che sia sempre traumatico il distacco dalla propria città soprattutto quando ci si trova in terra francofona. Nonostante la bellezza è pur sempre una sfida che i primi giorni porta ad essere quasi sfibrati. Costruire nuovi legami, intrecciare amicizie non è semplice, ma la gentilezza dei francesi spesso aiuta. Ciò che ho imparato dalla breve permanenza à Lyon è l’educazione. Bonjour et Bonne journée. In Italia si saluta una volta sola, se va bene! 😉
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Io non lo definirei traumatico, del resto è stata una mia libera scelta e nei mesi precedenti avevo viaggiato per qualche mese in Francia. È più lo scontrarsi con la grande città, con la precarietà, con le difficoltà di dover sgomitare per ottenere qualcosa (soprattutto quando non si ha mai dovuto faticare particolarmente in passato). Però essendoci di base la volontà di essere qua, c’è anche la ricerca di soluzioni.
Sono stata introdotta alla politesse française ma poiché da bambina ho avuto una buona dose di British politeness, l’adattamento è stato rapido e indolore!
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Purtroppo la società è diventata una giungla spietata. Almeno in Francia ci sta la meritocrazia. Poi col fatto di essere italiani, si ha sempre qualche attenzione in più alle cene di lavoro o di piacere. Vedrai che andrà alla grande, meglio lì che altrove!
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