
Quando ho scritto l’ultimo post ero decisamente sottotono, la settimana era stata un po’ alienante e solitaria, trascorsa molto davanti al computer alla ricerca di offerte di lavoro a cui candidarmi e cercando di scacciare via l’ombra del “non ce la farai mai a trovare un lavoro che ti piaccia e/o che ti senti in grado di fare”. A fare compagnia a questa sensazione di smarrimento c’era anche la crescente preoccupazione sul fronte abitativo: la fine di ottobre si avvicina e con essa anche il mio subaffitto. Per non farsi mancare un ulteriore elemento di precarietà, in realtà non c’è ancora una data per la fine del subaffitto, tutto dipende da quando i titolari del contratto potranno traslocare nel loro nuovo appartamento. Questa vaghezza ha gettato un velo di palpabile preoccupazione e stordimento in tutta la casa, non solo su di me ma anche sulla coppia che aspetta la nuova sistemazione e l’altra inquilina che è ancora alla ricerca della sua. Ci incrociamo nei corridoi, nella cucina e dai nostri volti traspare tutta l’incertezza del momento che stiamo attraversando. Per dire, io al momento sono più preoccupata dalla ricerca della casa che da quella del lavoro e ho constatato che ogni volta che ricevo un contatto che potrebbe aiutarmi in questo senso, il mio umore migliora. La prossima settimana, ad esempio, sentirò un amico di mia sorella che, in caso di difficoltà, potrebbe mettermi a disposizione la sua stanza in più. Si tratterebbe di spostarmi dalla parte opposta della città rispetto a dove sono ora ma, come dicono gli inglesi, beggars can’t be choosers. E, anche se dovessi trovare una sistemazione altrove, sarà comunque un’altra persona da incontrare e da aggiungere alla famosa rete di contatti fondamentale per sopravvivere in una grande città.
Di fatto, i miei primi due mesi a Parigi sono stati una sorta di magma in cui muovere passi esplorativi, capire la città, i movimenti, le dinamiche. Ho capito intanto che la geografia locale si misura in numeri: quello dell’arrondissement quando si vive a Parigi intra muros (ad esempio: io dico sempre che le mie prime due settimane in città le ho passate nell’ottavo e tutti capiscono esattamente dove fossi) oppure quello del dipartimento di appartenenza (75 per Parigi ma non si dice mai, in quel caso si parla direttamente del proprio arrondissement, 93 per quello in cui sono io, 92 in generale l’ovest). Poi ho capito che il modo migliore per trovare qualunque cosa è il passaparola, che a Parigi tutto si paga, che la città è talmente cara e difficile che quando parti per le vacanze, subaffitti la tua stanza perché qua tutto fa brodo. Che Parigi è cambiata negli ultimi dieci anni, da quando ci sono stati gli attentati del Bataclan in molti dei suoi abitanti è scattata la paura. Ho capito che Parigi è una città che stanca e molti, quando possono, vanno via. Che è divisa in ghetti, Belleville divisa fra arabi, cinesi e bobo (bourgeois bohémiens), l’Africa sub-sahariana si trova a Château Rouge, i veramente ricchi stanno nel XVI arrondissement e i veramente ricchi comprano le case ai figli nel XV. L’est popolare e misto, l’ovest prevalentemente bianco e ricco, e basta osservare i passeggeri sulla metropolitana per rendersene conto. Ci sono zone mangiate dal crack, zone in cui non succede niente, altre in cui è tutto un meeting pot e altre ancora in cui l’integralismo islamico è una realtà. I parigini intra-muros considerano il calcio una roba da plebei e il tifo del Paris Saint Germain è localizzato soprattutto in banlieue dove i milioni fanno sognare. Sono tutte informazioni che carpisco tra una conversazione e l’altra e tra un’uscita in città e l’altra. Quello che invece vedo coi miei soli occhi è che non ho mai visto una tale quantità di parcheggi fatti così male, con almeno mezza ruota sul marciapiede. Ne ho visti così tanti di parcheggi così che mi sono anche chiesta se fosse un vezzo locale.


L’ultima settimana è stata talmente densa di informazioni che ho quasi paura di non averne conservata nemmeno una. Ho visto nuovamente della famiglia per cena e sono andata al concerto di Diodato (aperto dall’italiano Pilot, ormai a Parigi da undici anni) da sola tornando a casa come se mi fossi sentita parte di qualcosa, di una comunità, come se l’energia vibrante sprigionata dalla sala pressoché piena e riempita per la quasi totalità da italiani, volesse dire che siamo a Parigi per ottime ragioni (e probabilmente ci piace pure) ma l’Italia resterà sempre un posto da amare e in cui tornare, come quando si vanno a trovare i genitori dopo che si è andati a vivere da soli. Già durante il viaggio in Workaway avevo notato quanto parlassi dell’Italia, quanto uscissi fuori dalle conversazioni come piuttosto italiana e quanto trasparisse il mio rapporto piuttosto inscindibile con il mio paese.
Domani in Italia si vota e io non sono rientrata per esercitare quello che considero sia un diritto che un dovere. E’ stata una scelta ragionata e dettata dalle contingenze, non un’astensione dimostrativa. Domani, come i giorni passati e come quelli futuri, mi dirò che sarei potuta partire sabato per tornare domenica, che le spese e la logistica complicata erano meno importanti dell’amore per il mio paese e che sì, avrei potuto fare decisamente di più, che avrei dovuto pensare al bene comune e non alla precarietà della mia situazione in cui gli unici punti fermi sono quelli interiori e personali (se si toglie la confusione sul cosa voglio fare per guadagnarmi da vivere). Perché l’Italia è il mio paese, è quello in cui vive la maggior parte della mia famiglia, è quello in cui vivono i miei amici, è il posto che per me sarà sempre casa e io dovrei continuare ad occuparmene anche se non appartiene alla mia quotidianità.
E’ stato allontanandomene che, al netto di tutto ciò che non funziona e dello sconforto e frustrazione che ciò mi provoca, ho realizzato che io sono fiera di essere italiana, non nascondo la mia nazionalità, non nascondo le mie radici che poi raccontano anche molto del mio modo di essere e di affrontare il mondo. E’ per questo che detesto l’abuso delle parole “patria” e “patriottismo”, utilizzate per dividere chi alla patria appartiene e chi no, svuotandole così di ogni significato. Patria per me vuol dire accogliere l’altro nel mio mondo e dirgli “tieni, questo è un pezzo di me che mi è caro, vorrei che lo conoscessi anche tu, trattalo bene per favore”.


A volte l’italianità va spiegata, va detto che non è che siamo arrabbiati o maleducati, siamo solo diretti. La nostra non è stata la lingua della diplomazia come il francese, non abbiamo infinite forme di cortesia e convenevoli formali ma dalla sostanza fumosa dietro i quali magari si cela del fastidio anche un po’ passivo aggressivo. Alcuni degli italiani che ho incontrato in questi mesi mi hanno raccontato storie surreali di cortesie locali, come ad esempio il collega risentito perché l’ennesima email scambiata durante uno stesso giorno non conteneva l’iniziale “bonjour” ma andava dritta al sodo. O come la superiore costretta a spiegare che il fatto di non aver condito la gentile richiesta di andare a prendere qualcosa in magazzino coi soliti “excuse moi, s’il te plait, gentiment, merci, très gentil” non fa di lei una persona maleducata ma solo un’italiana diretta. Per non parlare del dialogo tipo in ufficio il lunedì mattina: “Bonjour, ça va?” – “Oui, ça va et toi?” – “T’as bien passé ton weekend?” – “Oui, excellent”. E mai nessuno che dica che il fine settimana è stato un incubo, mai nessuno che dica niente di diverso dalla forma di cortesia. Ma in generale il “ça va et toi?” è un rito, un automatismo che alla fine non vuol dire niente, non c’è mai un reale interesse e rispondere onestamente alla domanda, magari anche argomentando, probabilmente verrebbe accolto con sgomento.
Approfitto di questo passaggio delle formalità locali per introdurre l’evento principale della settimana: ho partecipato alla prima parte di una formazione su come valorizzare la propria figura professionale. Insieme a me altre otto persone, della quali una ragazza uscita da poco dal liceo e il resto invece di età tra i 50 e i 60 anni circa. Nove storie diverse, nove personalità diverse unite probabilmente dal non sapere come valorizzare la propria ricchezza umana e intellettuale. La formazione prevedeva una serie di attività, di giochi anche, attraverso i quali prima conoscerci tra di noi e poi conoscersi noi stessi, il nostro modo di essere, di lavorare in squadra, i nostri difetti e le nostre forze. Dentro di me ne sono uscita come se fossi stata un pesce fuor d’acqua durante tutta la mia carriera lavorativa e come se davvero il calcio fosse stata la vera espressione di me stessa. Durante uno di questi giochi in cui dovevamo lavorare in gruppo, ad un certo punto ho cercato di riportare gli altri partecipanti sull’obiettivo senza farsi distrarre. Nella mia testa ho semplicemente esortato a non perdere la concentrazione ricordando che avevamo una scadenza, prima di tornare a casa invece, una delle partecipanti mi ha chiesto se in quel momento fossi arrabbiata perché lei lo aveva percepito così ed era rimasta un po’ scombussolata perché fino ad allora le ero sembrata molto gentile. Ebbene, le ho dovuto spiegare che non ero affatto arrabbiata, ero solo italiana e avevamo una missione da compiere.
Questa settimana di corso per me è stato come respirare, nella dimensione del gioco, nella dimensione del vedermi come forse non mi ero mai vista, partecipante in prima fila anziché osservatrice, ho ritrovato pure un po’ di amor proprio e la consapevolezza di essere davvero molto franca, con gentilezza e benevolenza ma decisamente franca. Ma anche e soprattutto nella dimensione del gruppo, delle pause passate a chiacchierare con gli altri membri e non da sola in un angolo, del contatto umano interessante e interessato mi sono sentita di nuovo un individuo completo parte di qualcosa e non una foglia portata qua e là dal vento.
Inutile dire che il corso si è svolto in francese, che più lo parlo e più sono contenta di parlarlo e che venerdì sera, quando sono rientrata a casa, la mia confusione linguistica era tale che mi sono sentita a pieno titolo un’italiana in Francia: ormai non stavo più facendo qualcosa, ero in treno di fare qualcosa*.
* in francese il gerundio si costruisce con l’espressione être en train de, letteralmente essere in treno di quindi “Sto facendo qualcosa” diventa “Je suis en train de faire quelque chose”.
Un pensiero riguardo “Sous le ciel de Paris / 11”