In Francia il mercoledì la scuola effettua un orario ridotto oppure, fino alle elementari (se ricordo bene), fa proprio festa. Per permettere ai genitori di lavorare esistono i cosiddetti centres des loisirs, strutture comunali che prendono in carico i bambini con orari variabili secondo le possibilità dei comuni e le necessità delle famiglie, per tutto il resto esistono le nounou, le babysitter, una categoria che, in particolare nelle grandi città, è fra le più ricercate ad ogni inizio di anno scolastico.
Come si avvicina l’inizio della scuola, i siti dedicati, i social, il passaparola pullulano di richieste di babysitter che possano andare a recuperare i bambini a scuola tutti i giorni tra le 16 e le 16.30, accompagnarli alle varie attività e stare con loro fino al rientro dei genitori. Il mercoledì dipende dagli orari di ogni centro comunale. La categoria delle nounou è talmente presente che di solito le famiglie cercano qualcuno che possa prendersi l’impegno per l’intero anno scolastico e, soprattutto, il lavoro è dichiarato, con contratto e contributi. Ovviamente non è un lavoro con cui poter vivere a Parigi ma per giovani studenti che abbiano voglia di mettere da parte qualche soldo, è IL lavoro. Da quando sono arrivata, gli unici soldi che ho guadagnato li ho guadagnati così. Una famiglia che mi ha trovato nella banca dati di un’associazione che cerca babysitter in grado di parlare italiano coi propri figli, degli amici del mio vecchio datore di lavoro, degli amici di amici di amici, tutte cose temporanee (e quindi non contrattualizzate) ma comunque la possibilità di dire che questa settimana la spesa me la sono guadagnata.
Oggi pomeriggio, per l’appunto, mi occuperò di Elio, figlio di una delle tante coppie italo-francesi che abitano questa città. Ci siamo già conosciuti domenica per un babysitteraggio all’ultimo minuto. Lui giocava con degli amici nella corte del complesso residenziale in cui abita, si arrampicava sull’albero di magnolia, faceva volare delle navicelle spaziali di Playmobil, scambiava carte Pokemon, sparava con la sua pistola ad acqua, io leggevo sulla panchina. Quando è salito in casa per andare in bagno e ha dimenticato di riprendere le chiavi siamo invece rimasti chiusi fuori e i suoi amici erano ormai rientrati in casa. Nell’attesa del rientro della madre ci siamo trovati catapultati indietro di 30 anni, in un mondo fatto di 1, 2, 3 stella e nascondino che Elio ha accettato con entusiasmo e io con divertimento.
Questa settimana, lo ammetto, mi sono un po’ adagiata sugli allori dei colloqui che ho fatto giovedì e venerdì scorsi e ne ho approfittato per visitare un po’ la città o perdermi nella scrittura.
Sabato dovevo vedermi con un’amica per andare a visitare la moschea di Parigi e poi prendere un tè nel suo giardino. All’ultimo, a causa dell’interruzione del servizio della RER A per quel che abbiamo supposto un suicidio, Giulia ha dovuto abbandonare il progetto ma poiché ero già pronta per uscire, ho preso lo stesso la metro e sono andata nella zona della moschea. Potevo scegliere l’uscita Place Monge e quella Arènes de Lutèce, non sapendo assolutamente nulla né dell’una né dell’altra, ho scelto la seconda. Lutèce è il nome che diedero gli antichi romani alla città di Parigi e la combinazione con la parola arena mi ha fatto pensare a qualcosa come un vecchio anfiteatro e, in effetti, addossato a dei palazzi e circondato da un parco, à proprio quello che ho trovato. Più per la forma che per la presenza di scalinate che si trovavano solo in due parti dell’emiciclo ma è stato sorprendente trovare questa sorta di vuoto in mezzo alla città.


Come tutti i parchi di Parigi quando c’è il sole, le panchine erano occupate, persone stavano sdraiate sull’erba e, al centro dell’arena, immancabili gruppi di tutte le età giocavano a pétanque (una specialità delle bocce). Mi sono fermata anche io, approfittando del calore pomeridiano. Quando il sole ha iniziato a calare me ne sono andata e ho iniziato a camminare a caso per un’ennesima zona di Parigi a me ancora sconosciuta. Strade semi deserte costellate di targhe in ricordo di illustri abitanti (come Cartesio), di liberatori fucilati o di ebrei deportati portavano in strade in cui aumentavano i bistrot e i café fino ad arrivare alla affollata place de la Contrescarpe dove dai tavolini degli innumerevoli ristoranti si potevano osservare le riprese di un film. Sempre a caso ho svoltato in rue Mouffetard, un’altra di quelle vie che dicono “Parigi”.

Avevo fame e mi sono concessa una crêpes di quelle da turisti ma era da quando sono arrivata che la desideravo e ancora non sapevo cosa avrei fatto. Ho continuato la mia discesa lungo la strada fino a notare un piccolo capannello di persone. Erano di fronte all’ingresso di un cinema e ho avuto voglia di provare l’ebrezza del film in francese. Ho guardato la programmazione e ho scoperto che di lì a dieci minuti avrebbero proiettato Ennio, il film di Tornatore su Ennio Morricone. Non esattamente un film locale ma ne avevo letto cose molto belle e ho deciso di concedermi il cinema. La sala era piccolissima e il pubblico sparuto ma come si è acceso lo schermo mi sono ricordata come mai mi piacesse tanto il cinema, quel suono profondo, quelle storie che per qualche ora diventano l’unica cosa a cui pensare, mondi in cui abbandonarsi. In più il film si meritava tutti i consigli di andare a vederlo che avevo letto e sentito. Ho avuto voglia di rinascere compositrice, di vedere tutti i film di cui Morricone ha scritto la colonna sonora, ho pianto un po’ di commozione ma forse anche di nostalgia perché sullo schermo non c’era solo la vita di Morricone bensì anche quella dell’Italia.

Lunedì invece sono stata nel 15esimo arrondissement a incontrare un amico di mia sorella ed è stato come entrare in un altro paese. Molto più bianco, molto più radical chic e, mi dicono, molto più caro. Nel pomeriggio invece ho deciso di approfittare della gratuità di molti musei per i disoccupati e ho deciso di fare un salto al Louvre e con un salto intendo proprio un salto. Il bello di non pagare è che se vai per un paio d’ore, non ti senti di aver sprecato soldi.
Il Louvre è la cosa più vicina all’Inferno che mi sia capitato di frequentare ultimamente. La fila comincia già fuori dalla piramide per i controlli di sicurezza ma almeno lì i rumori si disperdono nell’aria, all’interno del museo invece tutto rimbomba. La sala della Gioconda è affollata quanto una sala da concerti piena, le opere più famose si riconoscono dai capannelli di persone intente a fotografarle e fotografarsi in loro compagnia e mi sembrava quasi di vederla la Venere di Milo che sbuffava perché anche oggi sarebbe stata immortalata migliaia di volte senza che qualcuno si fosse soffermato a osservarla per più tempo di quello necessario allo scatto perfetto. Oppure la Nike di Samotracia: cosa fotografavano di lei i visitatori, la sua fama o la viva potenza che emanava dal suo piedistallo a forma di prua? In generale tutta la visita mi è sembrato un caotico viaggio nella società dell’apparenza, in cui poter mostrare di essere stati al Louvre conta più di essere stati al Louvre.


Domenica mi sono impuntata che avrei voluto scrivere una canzone che avesse Parigi come protagonista, decisione avventata considerando che esistono esempi ben più quotati di me come Léo Ferré o Edith Piaf ma ho voluto comunque tentare. Ieri ho dunque deciso di usare il mio giorno sola in casa mentre l’idraulico lavorava in cantina per produrre questo. Lo dico subito: la seconda persona è inventata e l’omaggio ad Apollinaire voluto. La musica me la tengo per me che non ne sono sicura ma basti sapere che allo stato attuale il ritornello mi sembra la cosa più vicina alla mia idea di Vecchioni senza averlo peraltro mai ascoltato estensivamente.
La strada in salita, uno scorcio inatteso
La storia ci insegue in un altro cliché
Ti porto in un luogo che credevo nascosto
Un negozio di dischi, soprattutto di jazz
Il jazz io ci provo ma non lo capisco
e forse è per questo che mi parla di te
Avvolta dal fumo di un pensiero scomposto
seduta lo osservi da un altro caffèE Parigi è una promessa,
sogno al gusto di futuro
È il giorno che ti prende
e ti guida andando a caso
È una strada troppo stretta
affollata di persone
È la prima volta che
ti ho chiamata amoreFacciamo due passi, les arènes de Lutèce
e tutte le età a giocare a pétanque
Il sole di ottobre è restato più a lungo,
è caldo ed è denso, come l’averti qua
Leggera ti soffio il mio canto all’orecchio,
tu ridi e ci credi e ti lasci un po’ andare
Dal fondo degli occhi traspare stupore
mi scandagli i contorni e canti con me
Che Parigi è una promessa,
sogno al gusto di futuro
È il giorno che ti prende
e ti guida andando a caso
È un’arena luminosa
affollata di persone
È la prima volta che
ti ho chiamata amoreSotto il ponte Mirabeau, scorre lenta anche la Senna
e un vecchio amore malandato che cerca di dimenticare
Per ogni gioia che ha vissuto, il contraltare è la sua pena
di ciò che era e per paura poi non ha voluto osare
La torre Eiffel in lontananza sembra poco interessata
ad ogni anima distratta che a testa in su passa di là
Sorridente o disperata lei non fa la differenza
Nella notte, illuminata, ricorda a noi che siamo quache Parigi è un’illusione
è un corpo sotto il treno
È una rete con un buco
che ti fa precipitare
Parigi è una promessa
affollata di persone
Non importa cosa cercano
Io ci ho trovato amore