La scrittura è un esercizio da fare anche quando non si è mossi dal sacro fuoco dell’ispirazione o forse soprattutto quando non si è mossi dal sacro fuoco dell’ispirazione. E’ in quei momenti lì che lo sforzo per trovare qualcosa da dire e scegliere le parole giuste per farlo diventa massimo. Oggi, ad esempio, è uno di quei giorni lì. Ed è talmente uno di quei giorni lì che forse è proprio una settimana così, in cui ho dimenticato anche di segnarmi gli argomenti di cui trattare tra le note del mio cellulare. La verità sta anche nel fatto che io sia qui ormai da quasi tre mesi e che la quotidianità può essere anche noiosa. Che non vuol dire che non sia successo niente in quest’ultima settimana, anzi, però sono rimasta più in una cerchia intima, personale, piuttosto che alla scoperta. A parte sabato.

Sabato sera sono stata invitata alla festa di compleanno di una delle ragazze con cui mi ero messa a parlare il sabato sera in cui avevo trovato il coraggio di sedermi da sola in un bar gestito da e principalmente per lesbiche. Confesso che quando due settimane prima mi era arrivato il messaggio di invito mi ero sentita quasi in trappola: la casa era lontana, molto lontana da casa mia ma avevo due settimane per organizzarmi e non potevo dire di no. Questo è un tratto del mio carattere sul quale sto lavorando, la pigrizia iniziale nel fare le cose, quella fatica che mi costa darmi la spinta ad agire e che puntualmente viene ricompensata ogni volta che la supero. Oltretutto la festa era a tema, anni ’80, e pensare a un travestimento nel mio stato precario era un’aggiunta ulteriore di stress per cui non sentivo di avere l’energia. Infine: non avevo idea di cosa mi aspettasse e non avevo né i mezzi per scoprirlo né la voglia di mettermi a fare la detective per decidere in base agli elementi che sarei riuscita a carpire e che sapevano tanto di ricerca di scuse per saltare l’appuntamento.

Fortunatamente il lavoro che ho iniziato a fare su me stessa nell’ultimo anno e che mi ha portato ad abbracciare l’ignoto anziché temerlo ha cucito la sua rete di razionalità e mi ha ricordato che le due persone che conoscevo e che avrei trovato alla festa erano piacevoli, che non sono andata a Parigi per stare solo con gli italiani, che ogni occasione per parlare francese andava colta e che va bene incontrare sempre persone nuove ma se non costruisco niente con le persone nuove che di continuo conosco, finirò per girare come una trottola senza mai porre le reali basi di niente al di fuori di me stessa.

Quindi, benché abbia provato fino all’ultimo a non andare o ad arrivare molto tardi perché ho approfittato della casa vuota per scrivere quella che considero una delle mie migliori canzoni finora (e che è costruita in maniera talmente diversa dalle altre che per la prima volta ho avuto voglia che la cantasse qualcuno che non sono io), ho infine indossato i miei panni da Robert Smith e ho iniziato il mio lungo viaggio. Perché sì, avevo optato per il cantante dei Cure con cui mi capita spesso di condividere i capelli e la stessa mano (in)ferma nel mettere il rossetto. Addirittura, mentre facevo vedere a una delle mie coinquiline un montaggio di qualche anno fa in cui avevo affiancato una foto di me e una di Robert Smith, lei da una prima occhiata distratta aveva pensato che io fossi semplicemente il buon Robert ma senza trucco. Una volta visto il percorso da fare per arrivare a casa della festeggiata avevo però optato di aggiungere il trucco solo una volta arrivata alla meta perché davanti a me avevo un viaggio culturale.

La festa era a Saint-Denis, petite couronne nord/nord-ovest di Parigi, nota perché c’è lo stadio di Parigi e perché è un mondo a sé in cui, se sei una donna sola, non sempre ti senti al sicuro. Ho camminato fino alla Porte des Lilas, il confine tra Parigi e Les Lilas, poi il salto nell’altro mondo: prima il tram moderno che segue sostanzialmente il perimetro della periferia tra la Porte de Vincennes a est e la Porte d’Asnières a nord-ovest, in seguito le ultime fermate della metro 7 ad aspettare la quale alla Porte de la Villette ero l’unica donna e penso pure l’unica persona bianca*, infine un altro tram dall’aria decisamente più attempata stipato di stanchezza, di rabbia, di affaticato disarmo (e nessuna persona bianca oltre me) e i 500 metri al buio compresi di ponte sulla circonvallazione che mi separavano dalla tranquilla zona residenziale in cui ero diretta.

Come mi diceva mia sorella: alle feste degli adulti non si traveste più nessuno ed in effetti anche io ho finito per rimanere Robert Smith senza trucco una volta appurato che nessuno avesse seguito il tema. Alle feste degli adulti inoltre si può parlare con le persone, soprattutto quando le feste non sono affollate, la musica non è mai troppo alta e l’alcol è un piacere, non un fine. La serata è stata tranquilla, leggera, culminata in una sorta di Sarabanda sulla musica degli anni ’80 in cui molto fieramente e un po’ in mezzo allo stupore ho contribuito alla vittoria della mia squadra. Ma, momento autostima, lo stupore che più mi ha fatto piacere è stato quello in faccia di una delle invitate quando ha scoperto che ero in Francia da soli due mesi e mezzo e non da anni come avrebbe detto sentendomi parlare.

Sono andata via dalla festa felice, distratta, scambiandomi il numero con uno degli invitati che di lavoro è un professore di linguistica ma scrive anche testi di canzoni. Per tornare a casa ho preso un passaggio in auto fino a una stazione della metropolitana (non fino a casa perché quando i francesi scioperano, scioperano davvero e la benzina sta diventando introvabile), tre metropolitane, probabilmente almeno un’ora di tragitto ma non ci ho fatto caso presa com’ero dalla quantità di persone che salivano e scendevano quasi come fosse giorno e non l’una passata di notte. E probabilmente anche dal whisky e dalla vodka che restringevano il tempo.

Pensavo di non aver niente da scrivere e invece mi trovo ad aver già scritto troppo senza aver detto niente dei pomeriggi con Elio, della sua lezione di musica d’insieme mercoledì scorso a cui avrei avuto voglia di partecipare anche io, di Bagnolet che pare un villaggio in cui vecchio poetico e nuovo si incontrano ma senza troppo criterio estetico, di Elio che mi prende la mano per attraversare una strada particolarmente trafficata e che poi me la tiene fino a casa, della sua lezione di chitarra al conservatorio ieri in cui ha chiesto se potessi stare dentro a seguire anziché fuori ad aspettare e delle due ore successive in cui, tra le varie cose, sono riuscita a convincerlo ad esercitarsi alla chitarra per la lezione di mercoledì, di quando mi ha chiesto quale fosse la prima canzone che ho imparato alla chitarra,** di come abbiamo finito il pomeriggio ad ascoltare Bob Dylan, Johnny Hallyday, Orelsan e i Pink Floyd e di come sono tornata a casa profondamente felice, come se il senso del pomeriggio non fosse stato solo di occuparmi della gestione del tempo ma anche di qualcosa di più.

Non ho detto niente della prima volta che ho invitato qualcuno a pranzo a casa e poi siamo uscite a fare due passi per Les Lilas, Jourdain, Belleville e parlavo come se ormai fosse casa mia. Non ho detto niente del nuovo murales che cerca di dare colore a Place des Fêtes e dei rossi, gialli e arancioni dell’autunno che danno luce al grigio della pioggerellina fine che è caduta spesso in questi giorni.

ll murales di Place des Fêtes

Non ho detto niente di domenica in cui sono andata a prendere un caffè conoscitivo con una persona con cui mi ha messo in contatto una cugina di mio padre e poi mi son trovata a rimanere fino al pomeriggio in quello che poi probabilmente vorrei fosse il mio mondo. Una casa che è un viavai di persone che di cultura vivono e da cui imparare, anche ascoltando la loro riunione di organizzazione di un festival principalmente di cinema e i pareri che buttano lì perché sanno esattamente di cosa stanno parlando. Intanto fuori dalle finestre la polizia in tenuta antisommossa aspettava l’arrivo della manifestazione promossa da Mélenchon contro il carovita: 30 000 manifestanti secondo la questura, 140 000 mila secondo gli organizzatori, in ogni caso un mezzo fallimento visto che se ne attendevano circa 400 000. Me ne sono andata via a metà pomeriggio e ho approfittato della non pioggia e del caldo afoso per stare all’aria aperta. Ho camminato lungo l’arsenal, un canale che si getta nella Senna con una chiusa e che sembra così lontano da ogni immagine di Parigi che ho mai avuto. Poi, visto che ero vicina, un salto al Jardin des Plantes, non tanto perché ne avessi particolarmente voglia quanto perché era il luogo più vicino lontano dalle macchine. Infine due passi a caso in direzione metropolitana per tornare a casa.

Non sono stata attivissima sul piano lavorativo, ho mandato qualche curriculum, ho atteso risposte, ho un colloquio a inizio novembre, fondamentalmente ho fatto cose che mi interessano molto di più. Per ora non portano soldi, lo so, ma forse rimangono un metro con cui misurare cosa voglio veramente fare qui.

* mi pongo il problema di come rendere l’immagine e che forse la parola bianca riporta a un modo di parlare ormai non in linea coi tempi
**gli ho detto Bobby Jean di Bruce Springsteen anche se mi è sempre rimasto il dubbio che gli accordi trovati nel libro ufficiale non fossero nella tonalità giusta e forse Bobby Jean è la prima che ho imparato a memoria mentre la prima che ho imparato in assoluto era Glory Days, sempre di Springsteen, ma era il 1995 e vai a sapere quale era quale. So per certo però che una delle due era la prima in assoluto e l’altra la prima a memoria.

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