Il cielo su Parigi è una cappa di grigio luminoso, quasi bianco. Il cielo è basso, sembra avvolgere la città come in una di quelle palle di vetro con dentro la neve finta. La neve non c’è ma l’inverno è finalmente arrivato, le temperature sono di pochi gradi sopra lo zero e io ho tirato fuori guanti e cappello.
Non scrivo da un mese e mezzo e anche farlo adesso è un esercizio, una ricerca di requie al terremoto che sono state queste ultime sei settimane. Uno sconquasso le cui cause mi risultano difficili anche da mettere nero su bianco in un ambiente, il web, che non sa di cosa sia realmente fatta la mia intimità, la cui empatia non può avere la stessa forza di chi ha preso un aereo o un treno per starmi vicina, di chi non si dimentica di chiedermi come sto, di chi, anche da lontano, non mi offre la sua compassione o pietà che mi fanno solo fatica bensì la propria certezza di esserci e di partecipare, in piccola parte, per quel che può, al mio dolore senza chiedere niente in cambio.
Nel post precedente raccontavo di una festa di compleanno, in questo sto cercando le parole per dire che la festeggiata di quella festa non c’è più, che meno di dieci giorni dopo è morta a pochi metri da me, mentre lei era nel bagno di casa sua e io aspettavo che tornasse nel letto. Ma non dirò niente di più, quel che è successo prima, durante e dopo appartiene alla mia sfera intima e alle persone che ne fanno parte e già scrivere queste poche righe mi è costato uno sforzo enorme.
Il mio sguardo sulla città nelle ultime sei settimane è cambiato per forza di cose, ha perso quella meraviglia leggera davanti ad ogni nuova scoperta, ha perso per il momento la volontà di raccontarla. Ciò non vuol però dire che non l’abbia vissuta, che non mi sia trovata a passeggiare per le sue strade, per i suoi parchi, a scoprire nuovi angoli del mondo che mi circonda.
Sono stata al Bois de Vincennes, prima e dopo la morte di Morgane. Prima per esplorarlo dopo che ne avevo visto solo un accenno nel pomeriggio di agosto in cui ci eravamo viste lì con lei, il suo cane e altre due amiche. Dopo per scoprire ancora di più di questo immenso bosco ad est di Parigi, per trovarmi per caso a percorrere alcuni degli stessi passi di quel pomeriggio tardo estivo, ritrovarmi nello stesso punto in cui quella volta le avevo fatto delle foto a seno scoperto, sorriderne malinconicamente e poi continuare a camminare per ore, alternando podcast, radio e il bisogno dei suoni delle persone che, come me, si erano riversate per quei sentieri in cui il sole tenue di un autunno maturo scaldava l’aria tersa e limpida.

Ho passeggiato lungo il Canal de l’Ourcq in un crepuscolo inoltrato, in quella Parigi più residenziale in cui il senso non è vedere bensì appartenere ai luoghi. Sono stata alla mostra di Alice Neel al Centre Pompidou e a una mostra su come funzionano le folle alla Cité des Sciences et de l’Industrie. Prima ero stata anche alla mostra di Edvard Munch al Musée d’Orsay e avevo avuto voglia di scrivere una canzone quasi davanti ad ogni quadro.
Ho camminato per chilometri sola e in compagnia, portato le amiche che sono venute a trovarmi nei luoghi che in questi mesi mi hanno fatto amare il mio essere qui. Ho anche esplorato un pochino di più Les Lilas, questa cittadina residenziale in cui mi trovo da fine agosto, le sue strade silenziose, le sue case monofamiliari alternate a palazzi-caserma. Ho scoperto un altro dei luoghi della sua vita associativa.
Ho continuato a fare la babysitter e gli occhi pieni di innocente entusiasmo di Elio per le piccole cose non hanno mai mancato di accendere l’interruttore di un istintivo momento di leggerezza. Mi sono concessa dei buoni formaggi francesi comprati al mercato e non ho mai perso la voglia di mangiare decentemente. Ho trovato nelle gatte delle case che bazzico dei momenti di sollievo e di affetto.
Sono stata presa da una sensazione estrema di solitudine per questo dolore che non posso realmente condividere con nessuno perché solo io ho vissuto le ultime dodici ore di vita di una persona, una coetanea, per poi vederne il corpo esanime steso per terra prima che i soccorritori ne decretassero il decesso e lo coprissero con un lenzuolo ma ho anche vissuto la certezza di poter camminare con qualcuno in silenzio e non voler essere da nessuna altra parte perché la vicinanza non sta necessariamente nelle parole che si possono trovare ma anche nella sola solida presenza.
Ho bevuto infinite tazze di the e tisane, guardato film, serie tv, documentari, letto libri e fumetti. Ho vissuto un futuro immaginato e impossibile. Ho anche perso molto tempo a non fare niente.
Ho visto il mio dolore mutare forma giorno dopo giorno, passare dall’imperturbabilità dello shock alla sospensione dell’attesa, alla tristezza della fine e tutte le sfumature nel mezzo consapevole che, anche da quel punto di vista lì, ogni giorno è stato e sarà ancora una sorpresa.
Ho pianto singhiozzando come non mi capitava da quando avevo sette anni dopo aver accarezzato la bara di Morgane ma ho trascorso le ore successive a esorcizzare quella tristezza ridendo e scherzando leggera con le sue amiche sentendomi dire dall’amica fiorentina che era con me che quello era il mio posto, che nei dieci anni e passa che costituiscono la nostra amicizia non mi aveva mai vista così.
Mi sono trovata a sospingermi su un’altalena in un giardino deserto tra i comuni di Pantin, Romainville e Les Lilas, cielo grigio, uno spiazzo rarefatto con intorno i colori dell’autunno e palazzi brutti alti venti/trenta piani che spuntano dietro agli alberi. Una rappresentazione visiva della mia solitudine, del vuoto che sono stati questi giorni soprattutto dopo il funerale ma senza la desolazione senza speranza di una fine del mondo. Solo l’animo ferito e sconsolato di una bambina che non capisce l’ingiustizia di quello che le è capitato ma non può farci niente se non accettarla.
Sono stata ad un paio di serate-concerto in cui sono riuscita a ballare, in cui la presenza intorno a me di una folla felice mi ha curato più che addolorarmi perché in questo momento non riesco ad essere spensierata come loro. La felicità degli altri non mi ha ricordato che al momento la mia è in pausa, la felicità degli altri mi ha reso felice per la loro e mi ha dato piuttosto una speranza, che la vita va avanti.
Fuori dalla mia finestra c’è un albero, secondo il riconoscimento operato dal mio telefono è un Liquidambar. Non so perché ma in quell’albero ci vedo Morgane, forse perché nei suoi colori ci vedevo i suoi capelli che ricordavo più chiari di quel che effettivamente erano. Quando ho iniziato a fotografarlo, un mese fa, le sue foglie erano strati di verde, giallo, arancio, rosso. Piano piano il verde è sparito e tra poco spariranno anche le ultime foglie. Immagino di dover fare come quell’albero, perdere tutte le foglie, recuperare le energie e rinascere. Nel frattempo accolgo il mio dolore come qualcosa di inevitabile e cangiante che non posso far altro che attraversare, con calma. Probabilmente ancora a Parigi.

Ciao, ho trovato il tuo blog per caso e ho letto questo. Vorrei dirti qualcosa, in particolare sulla tua amica che è venuta a mancare, ma non trovo nulla di adeguato, a parole. Solo, continua a scrivere, ti farà bene.
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Ciao, grazie del messaggio (e di aver letto). Non ti preoccupare, non so neanche se ce ne siano di parole adeguate, sono ancora un po’ spaesata. Ho scritto molto in effetti all’inizio ma l’ho tenuto per me, e anche ora, ho un diario ma il blog è una dimensione in cui non tutto può essere scritto. Ma grazie, davvero.
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