Sì, lo so, sarebbe più saggio uscire di casa, posarmi su una panchina con un libro e godere delle giornate di limpida freschezza estive che Parigi ha deciso di regalare ai suoi abitanti da quando giovedì scorso la pioggia notturna ha rinfrescato un’aria che era diventata insopportabile. Eppure ho voglia di fermare sulla carta un fine settimana in radicale controtendenza rispetto ai giorni che lo hanno preceduto e di cui ho scritto un po’ abbacchiata nel precedente post. Ho voglia di scrivere che sono anche stata felice di essere qua.

Venerdì sera avevo scritto dopo una passeggiata tardo pomeridiana nel centro alla ricerca di uno dei bar storici della comunità lesbica in città. L’idea era di sedermi ad uno dei suoi tavolini con una birra e un libro e vedere cosa sarebbe successo. Ebbene, ormai in dirittura di arrivo e sicura delle ultime svolte da percorrere, ho riposto il cellulare nello zaino e non ho mai trovato il bar. Ho camminato un pochino a caso allora prima di prendere la metro e buttarmi nel Marais in cui la comunità LGBTQAI+ ha i suoi principali luoghi di incontro, segnalati generalmente da ampie e ben visibili bandiere arcobaleno. Ma, me ne sono accorta l’indomani, probabilmente ero in un Marais sbagliato, più silenzioso, e sono finita in Place des Vosges seduta su una panchina col mio libro prima di rientrare a casa per cena. Attività che peraltro mi ha resa quasi un’autoctona. Ho notato infatti grandi quantità di persone sedute sulle panchine nei parchi, lungo la Senna, sull’argine del Canal Saint Martin, sdraiati in mezzo all’erba, molti anche nella metropolitana, impegnati a leggere. Persone da sole, coppie, la lettura è importante e la maggior parte del tempo i libri sono cartacei.

L’altra attività che mi pare raccolga i favori dei parigini, oltre all’happy hour nei bar a guardare il mondo che passa, sono i picnic. Il prato di Place des Vosges era pieno di persone con i loro Tupperware portati da casa o panini e insalate comprati al supermercato, lattine di birra, bottiglie di vino, borracce d’acqua. Quando sabato sera mi sono ritrovata a passeggio lungo i quais della Senna, ho ritrovato la stessa abitudine ma in scala maggiore. Frotte di persone affollavano i quais con le loro coperte per terra o sedute ai tavolini messi a disposizione dalla città. Le cene erano rigorosamente autogestite e, per chi avesse ancora fame o sete (o preferisse la comodità di dover solo pagare), la possibilità di sedersi o comprare qualcosa in uno dei vari locali prevalentemente estivi lungo il fiume.

Perché sì, anche sabato nel tardo pomeriggio mi sono vestita un po’ meno da turista e sono andata in esplorazione. Avevo cercato il nome di un altro paio di locali a frequentazione femminile e mi ci ero diretta salvo scoprire dopo che camminavo da un po’ che io mi trovavo lungo il Canal Saint Martin ma i due bar erano nella Rue Saint Martin. Ho quindi cambiato direzione camminando per strade dal sapore più cittadino che turistico, silenziose, di tanto in tanto spuntava un piccolo bar o ristorante. Quando le stradine incrociavano i boulevard invece il rumore saliva e i piccoli bar diventavano grandi e affollate brasserie. Ma intanto stavo già attraversando una città umana, vie in cui mi sarebbe piaciuto vivere. 

Ho raggiunto la lunghissima Rue Saint Martin e ho cominciato a percorrerla con uno stato di crescente paura via via che mi avvicinavo alla meta ma decisa almeno a provarci. Infatti, una volta raggiunti i due locali adiacenti che stavo cercando… ho gettato un’occhiata e sono passata oltre, chiedendomi come non fare la figura della scema riprovandoci pochi minuti dopo. Ho quindi passeggiato per le strade animate del Marais che circondano il Centre Pompidou, ho notato che la maggior parte dei locali con bandiere arcobaleno ospitava prevalentemente uomini e mi sono seduta in quel che mi sembrava il luogo meno costoso in cui mangiare qualcosa. Tra uno morso e l’altro al mio wrap con carne ho prenotato i treni con cui il prossimo fine settimana farò una scappata laddove ad aprile è definitivamente esplosa la rivoluzione nel mio modo di guardarmi e quindi di rapportarmi agli altri e ho cominciato ad attendere venerdì con gioiosa trepidazione.

Dopo cena mi pareva presto per tornare verso uno dei due locali che prometteva dj set tecno/dark a partire dalle 22, ho deciso quindi di passeggiare lungo la Senna negli spazi allestiti dalla manifestazione di Paris Plages, ossia una serie di attività gratuite (credo) che da vent’anni allieta le vite dei parigini. Musica dal vivo, bar, ristoranti, campi da pétanque, calcino, aree giochi per bambini, sdraio (solo durante il giorno), una biblioteca, incontri di vario genere, i quais prendono vita. Ed è questa l’impressione che ho avuto di questa città nelle mie prime quasi due settimane: Parigi è una città viva, vivace, piena del turismo di massa tutto uguale ma pensata anche (e forse soprattutto) per i suoi cittadini. Una città che è un miscuglio di personalità, di identità, di culture che vivono liberamente, senza rinchiudersi in una sorta di riserva indiana, anime diverse che popolano la città e a nessuno sembra interessare particolarmente cosa faccia o non faccia l’altro. E a me, la quantità di vite diverse e apparentemente inconciliabili che si incrociano in questa città, piace da morire.

Ho aspettato la conclusione del crepuscolo tra la folla lungo la Senna, ho tenuto il tempo durante un concerto funky, ho canticchiato fra me e me mentre passavo davanti a un altro gruppo che invece cantava grandi classici del pop rock. Ero sola ma circondata da tutta quella vita me ne sentivo quasi partecipe e sola non mi sentivo, anzi, mi sono sentita quasi violentemente felice di essere a Parigi, come se non potessi essere da nessun’altra parte. Ho allora ripreso coraggio e sono tornata verso Rue Saint Martin, ho esitato una frazione di secondo ma poi ho affrontato la mia paura e sono entrata nel secondo dei due bar (quello che mi pareva meno non direi pretenzioso ma dalla frequentazione meno super curata per la serata) e ho ordinato una birra. Sono uscita, dopo pochi minuti si è liberato un tavolo e mi ci sono seduta. Circa un’ora dopo ho ripreso la via di casa: nella rubrica avevo un nuovo numero di telefono. 

E qui forse dovrei fare le mie considerazioni su Tinder e sulla differenza che passa fra fare match su una app senza magari mai scriversi e invece mettersi a sedere da sola in un bar e dopo poco un gruppo di amiche inizia a parlare con te e improvvisamente ti ricordi quanto sul piano umano l’analogico apra ancora a più possibilità del digitale. Gli incontri così sono fatti di contatto, di curiosità, di non sapere niente di chi si ha di fronte ma di cominciare lo stesso una conversazione e vedere se porta da qualche parte. Dopo una settimana di Tinder posso dire che forse non fa per me e che trovo molti dei suoi aspetti un po’ grotteschi, a partire dalla scelta delle foto. Quanti scolli, quanti sederi in primo piano, quante pose e facce da vamp o da dura o sostanzialmente tutto ciò che visto su uno schermo per me non ha alcuna attrattiva. Quanti profili sembrano artefatti per presentarsi come la versione migliore di noi stessi o, come leggevo in un articolo pochi giorni fa, con la versione di noi stessi che vorremmo essere. Ma anche quanta difficoltà a rinchiudere quel che si è in 500 caratteri, a scegliere solo cinque interessi in base ai quali l’algoritmo cercherà profili affini, a trovare qualcuno interessante in base a qualche foto, qualche interesse comune e qualche parola. E, soprattutto, quanto è facile cedere ai propri pregiudizi o rimanere nel sicuro di quel che si sa di sé quindi quella innamorata dei cani no, la gattara nemmeno, segno zodiacale Vergine dio ce ne liberi e scampi, di chiare ascendenze asiatiche non so se me la sento. Salvo poi ricordarsi di tutte le persone che uno frequenta abitualmente e che, se le avesse incontrate su Tinder, probabilmente avrebbe ridotto a una X, avanti la prossima.

Questo fine settimana ho accantonato momentaneamente le mie preoccupazioni e sono stata incredibilmente felice di essere a Parigi. Capace di ridacchiare fra me e me davanti al contrasto di un gruppo di poliziotti, armati di manganelli e sospetto anche di pistola, che nel giro di ronda serale si trova a fare foto a pericolosi rifiuti di grandi dimensioni (materassi) abbandonati accanto a un portone; oppure di rispondere con una sincera risata a un uomo seduto su una panchina che, mentre camminavo sicura verso il centro città, mi ha detto che avevo fatto cadere qualcosa e, quando mi sono girata a guardare, mi ha detto che mi era caduto il sorriso e che dovevo ridere più spesso perché mi faceva così più bella. Stavo andando a raggiungere altra famiglia di passaggio a Parigi per vacanza e, rispetto alla domenica precedente, già mi sentivo più sicura, più conscia degli spazi, più capace di vivere la città.

Sì, voglio lasciare scritto da qualche parte che sono anche stata felice in queste prime quasi due settimane a Parigi.

Un pensiero riguardo “Sous le ciel de Paris / 4

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