Da quando sono partita credo che questo sia l’intervallo maggiore passato tra un post e l’altro. Da quando sono partita questa è anche stata la settimana più impegnata e impegnativa, quella in cui la gestione del mio tempo libero è stata più fuori controllo. Da quando sono partita è stata però anche la settimana in cui mi sono sentita come se avessi trovato un’amica e come se davvero fossi parte di qualcosa.
Non è stato immediato, come sempre ho avuto bisogno di qualche giorno di assestamento ma credo sia normale quando si entra nelle case degli sconosciuti, bisogna capire dove si è, chi si ha di fronte, come ci si può integrare nelle dinamiche familiari di chi ti accoglie. Una volta superato però questo primo traballio, ho assaporato ancora una volta la ricchezza di questo mio viaggio, la magia dell’incontro, la creazione di un rapporto fra persone che fino a poco prima non sapevano niente l’una dell’altra.
Quando sono incappata nel profilo di Jen e famiglia ero alla ricerca abbastanza disperata di un posto in cui andare in Dordogna e non ne stavo trovando molti, la presenza di bambine di 3 e 6 anni un po’ mi spaventava ma mi sono detta che, poiché stavo facendo un viaggio in diverse umanità, andasse fatta anche questa esperienza e, soprattutto, i genitori probabilmente avrebbero avuto più o meno la mia età. Avevo poi voglia di uscire dalla dinamica del rapporto a due, magari con molta differenza di età, una coppia giovane con figli mi pareva un buon punto di inizio.
Ogni primo incontro ha in sé un misto di curiosità, aspettative, sorprese e talvolta delusioni. Lo scambio di messaggi con Jen precedente la mia partenza era stato molto promettente e quando è venuta a prendermi alla stazione abbiamo iniziato a parlare con scioltezza immediata, mentre guidava mi ha però detto che il marito era in Inghilterra e io ho un po’ avuto paura di aver esaurito ogni argomento di conversazione nel tragitto che ci ha portate dalla stazione alla scuola delle figlie e poi a casa. Quando poi sono entrata in casa ho avuto una prima impressione un po’ difficoltosa: era fredda e più che una casa pareva un disordinato stoccaggio di cose. Le bambine inoltre mi sono sembrate del modello principesse e mi hanno subito requisita per mostrarmi i loro giochi e andare a saltare sul trampolino / tappeto elastico. Gli orari erano decisamente fuori dalle mie abitudini. Anche il lavoro da fare è stato inizialmente deludente ed estremamente noioso: raccogliere rami e ramoscelli caduti sul prato e sulla sterrata che conduce alla casa dopo il forte vento degli ultimi giorni. Ad aggiungere un misto di tristezza al tutto, ero da sola mentre lavoravo, accompagnata solo da Poppy, un Labrador nero di cui mi sono un po’ innamorata. Quando dopo cena le bambine andavano messe a letto, io rimanevo da sola a sistemare la cucina, tutte le sere. Come se non bastasse, ancora non avevo capito dove terminava l’educazione britannica di Jen e dove cominciava la sincerità nel suo continuo ringraziare e fare complimenti per qualunque cosa, a tratti quasi come si stesse rivolgendo alle figlie anziché ad una donna della sua età. Sì, inizialmente mi sono pentita della mia scelta, poi credo sia scattata l’empatia e da lì ogni giorno ha aggiunto un tassello alla mia presenza nella famiglia al punto che ad un certo punto me ne sono sentita anche un po’ una parte.


La famiglia quindi. Circa dieci anni fa Jen e il marito Tim sono venuti con un gruppo di amici in vacanza in Francia. Avevano affittato una grande casa con piscina immersa nel verde della Dordogna. I proprietari erano inglesi e, tra il serio e il faceto, Jen e Tim avevano detto loro che, qualora avessero mai intenzione di venderla, di farglielo sapere. Pochi anni dopo hanno ricevuto una telefonata: il marito della coppia di proprietari era morto e la moglie vendeva la proprietà, se erano ancora interessati la casa era loro. E così è stato, hanno lasciato Londra e il loro lavoro in campo pubblicitario per buttarsi nell’ignoto dell’accoglienza turistica nella Francia rurale. All’epoca Jen era incinta della prima figlia, Fleur, tre anni dopo è arrivata Elodie.
Jen è curiosa, aperta, interessata alle esperienze altrui, molto British coi suoi lovely e gorgeous a profusione e per cui la prendo in giro. Ha in sé la bellezza di chi non è sicura di averla e la capacità di dare valore all’altro. E’ rimasta abbastanza colpita dal mio modo diretto e onesto di parlarle, di darle la mia opinione su qualcosa, tipo dirle apertamente che raccogliere ramoscelli caduti è molto noioso. Benché lei abbia consapevolmente difficoltà ad essere altrettanto chiara è però una persona con cui posso essere così onesta perché è in grado di recepire positivamente quel che lo sto dicendo, come fosse un dato di fatto incontrovertibile, non un giudizio, e riderci sopra. Credo sia una di quelle persone che antepone sempre l’altro a sé, quell’atteggiamento che per certi versi è positivo perché fa sentire bene chi si trova di fronte ma che rischia di andare a detrimento di se stessa e delle proprie esigenze. E’ però decisa ad essere indipendente e nella momentanea e prolungata assenza del marito vede un’opportunità, quella di imparare a fare cose di cui generalmente si occupa lui.
Quando però le figlie non ci sono Jen smette i panni della mamma e diventa una donna con tutti i suoi dubbi, le sue insicurezze ma anche le certezze. Quando non ci sono le figlie diventa come me e magari ci troviamo a mettere gli Arctic Monkeys per cantare e ballare I bet you look good look on the dancefloor davanti a delle perplesse Fleur ed Elodie. Poi magari io la guardo con le figlie e penso a quanto siamo simili ma anche così diverse, lei guarda me e le sembro simile ma anche così libera. Mi fa ridere quando dice che a volte pensa alla sua vita, al fatto di essersi trasferita in Francia e di avere due figlie, e si chiede come sia potuto succedere. Ovviamente lo sa ma le sembra così incredibile. Intorno alle 20 solitamente abbiamo già cenato, io ho sistemato la cucina e attendo che Jen finisca di addormentare Fleur ed Elodie per chiacchieriamo con maggiore tranquillità rispetto a quella a spizzichi e bocconi durante i pasti. Sabato sera, dopo che gli ospiti avevano fatto il check-in, abbiamo festeggiato il lavoro fatto stappando una agognata bottiglia di spumante, durante il resto della settimana avevamo bevuto solo acqua e tè, molto tè.
Nelle orecchie ho il rumore dei suoi passi frettolosi quasi avesse paura di essere in ritardo per qualcosa ogni volta che le figlie chiamano o deve venire in cucina a cercare qualcosa per loro mentre cerca di addormentarle, è un ritmo incapace di rilassarsi. All’inizio mi sembrava una di quelle mamme ansiose, infinitamente paziente, a tratti accondiscendente, non alzava mai la voce anche quando sarebbe stato sacrosanto farlo, sempre a cercare un dialogo con le figlie, una spiegazione su perché non dovessero comportarsi in un certo modo, sempre sull’attenti, sempre a disposizione e sempre con un well done, clever girl, complimenti e nomignoli vari pronti all’occasione. Adesso che inizio a scrivere, ad esempio, è stata requisita circa due ore fa dalle bambine malaticce che volevano addormentarsi nel letto con lei accanto e lei è lì che cerca di migliorare il suo francese con Duolingo mentre io mi sono lanciata nella ricetta che avrebbe dovuto preparare lei per cena (una dahl di lenticchie rosse). (Ndr: scrivevo intorno alle 18.30)

Vederla gestire la preparazione della casa per i primi ospiti dell’anno, la pulizia a fondo della casa, della piscina, le minuzie da non dimenticare e intanto occuparsi di due bambine che sentono la mancanza del padre e che chiedono molta attenzione è affascinante e mi lascia in completo stupore. Il modo in cui affronta questo tornado senza fermarsi, senza perdere mai il contatto con la realtà, con l’affetto materno anche quando probabilmente si sta chiedendo perché abbia deciso di avere figli. Vedo lei e penso a mia madre e a ogni madre del mondo e forse a ogni genitore veramente coinvolto nella vita e nell’educazione dei figli e non posso che provare un’ammirazione profonda per quel che ci si trova a fare per i figli, vedere come ti costringano a superare le tue paure, a trovare risposte anche quando non ci sono, a mangiare la parte un po’ pestata della frutta anche quando l’hai sempre detestata.
Fleur ed Elodie sono l’esempio classico di primo e secondo figlio. La maggiore più silenziosa e obbediente, la seconda un tornado che ti fa ridere anche quando sai che non dovresti. Fleur ama il rosa e le principesse, Elodie il blu e vestirsi col suo abito da principessa. Amano giocare sul tappeto elastico, saltare, farsi lanciare in aria e poi cadere. Hanno una passione sfrenata per il disegno. Qualche giorno fa ho preparato una pasta al pomodoro, Jen era alle prese con l’arrivo degli ospiti, Fleur l’ha mangiata scondita e se n’è andata subito alla televisione santa patrona dei genitori che rimangono senza babysitter all’ultimo e devono assolutamente lavorare, io sono rimasta con Elodie e il suo entusiasmo davanti alla pietanza. Talmente entusiasta che ha chiesto alla mamma se potevo imboccarla io. Mi chiama Madagascar (che in effetti ha una certa assonanza col mio nome) ed è talmente buffa che quando rutta e dice un grasso “pardon me!” o quando mi chiama poopoo proprio non riesco a non ridere. Il suo entusiasmo e le sue risate sono contagiose e io ho totalmente nel cuore Fleur che dovrà sgomitare con la personalità travolgente della sorella minore.
La proprietà è composta da un manoir, una grande casa su due piani, e da una casa pressoché adiacente, forse quel che restava di un rudere agricolo, riconvertito in casa dai precedenti proprietari, oltre che del terreno. Quando il manoir è occupato dai turisti, la famiglia si sposta nella casa secondaria, sprovvista di riscaldamento se non per una rudimentale stufa nel salone che però fa più danni che caldo. La casa principale è aperta all’affitto tutto l’anno ma generalmente le richieste arrivano solo nei mesi estivi e quindi è solo in quel periodo che traslocano da una casa all’altra; quest’anno il primo gruppo di turisti era previsto per Pasqua e, finito il trasferimento disordinato di casa andava quindi fatta una pulizia profonda del manoir e un riordino generale del giardino. Tim, il marito, era in Inghilterra per seguire i lavori di una casa che hanno lì, Jen era rimasta da sola con le figlie a gestire l’apertura della stagione turistica. Io ero qui per aiutare. Se inizialmente sono rimasta un po’ perplessa da quanto stessi lavorando, al secondo giorno ho avuto chiaro quanto bisogno ci fosse di una mano che andasse ben oltre le 4/5 ore richieste generalmente su Workaway. Al terzo giorno mi mettevo il cuore in pace sull’andamento della settimana almeno fino al sabato; al quarto ero contenta di farlo perché non mi sentivo più una sconosciuta che si guadagnava vitto e alloggio lavorando bensì un’amica che dava una mano ad un’altra amica; al quinto mi facevo selfie sul trampolino con le bambine e ridevo come una scema mentre mangiavo con Elodie; al sesto mi sentivo totalmente parte della famiglia e pronta per fare il genitore due; al settimo mi sono fatta una passeggiata di un paio d’ore da sola e mentre mi allontanavo da Jen e dalle bambine ho sentito quasi una sensazione di vuoto.

Il giorno di Pasqua siamo andate a fare una piccola spesa al supermercato del paese un po’ più grande della zona, poi, vista la giornata calda e soleggiata, siamo andate ad un lago (credo artificiale) vicino. Dico credo perché mi pare di aver capito che durante l’inverno il lago viene prosciugato e quando viene rimessa l’acqua ci vengono inseriti anche pesci che vengono poi pescati. Erano infatti numerosi i pescatori, silenziosi anche quando non erano soli, che grigliavano il giorno di Pasqua. Noi abbiamo fatto due passi poi, rientrando verso la macchina, le bimbe hanno notato una spiaggia artificiale in riva al lago e hanno chiesto di poter giocare con la sabbia, Jen ha detto sì e così ci siamo fermate lì. L’ora di pranzo però si avvicinava, a quel punto ho avuto l’idea: abbiamo appena fatto la spesa, perché non improvvisiamo un picnic? E così è stato, patatine, pane, emmental, gorgonzola, pomodorini e una birra presa al bar sul lago. Ecco, mentre le bambine giocavano con la sabbia ed io e Jen ce ne stavamo sedute sulla coperta da picnic a chiacchierare, ho avuto una di quelle sensazioni quasi catartiche di totale soddisfazione per dove fossi. La pienezza del momento, quella stessa che mi aveva quasi travolta in cammino a ottobre, adesso mi dava una sensazione di completezza. Ero dove volevo essere.

Rientrando a casa le bambine si sono addormentate in macchina, Fleur è stata portata a letto da Jen, io ho preso Elodie che da un latto balbettava un “I don’t want to sleep, mommy”, dall’altro mi stringeva le braccia intorno al collo. Mentre scendevamo il sentiero che portava alla casa mi sono sentita genitore e ho capito che durante questo Workaway era quella la vita che stavo vivendo. Il mio tempo è stato quasi soltanto quello in cui le bambine dormivano, quando ormai il mio cervello era distrutto dalla giornata e anche chiacchierare con Jen era quasi impegnativo. Prima dell’arrivo degli ospiti, quando lei continuava a fare lavoretti nel manoir, io non ero obbligata ma in genere le facevo compagnia e le davo una mano. Poi le ultime sere ci siamo ritrovate per un Disaronno e un pezzo di torta ad accompagnare lunghe chiacchierate fatte di profondità e risate.
Per il resto ho ripulito il sentiero e il prato dai rami, ho estirpato erbacce varie, ho tagliato e riordinato dell’edera che si stava arrampicando verso i piani alti della casa, mi sono punta con delle ortiche per la prima volta nella vita, ho ignorato la quantità di ragni che mi sono passati davanti, ho tolto l’infinito polline caduto nella piscina, ho pulito tavoli, spazzato terrazze, notato piccoli particolari da sistemare, ricordato cose, cucinato (anche cose che non sapevo cucinare), sistemato la cucina, tagliato la frutta per la nostra colazione alle 7.30 del mattino, distratto Fleur ed Elodie quando volevano la mamma, cercato di togliere a Jen ogni carico che fosse alla mia portata. Ho fatto tutto volentieri e con un entusiasmo sconosciuto a me per prima. O forse, con un entusiasmo che ho avuto così naturale ed istintivo solo in cammino ad ottobre.
In questa settimana credo di essere stata davvero la parte migliore di me stessa. O forse semplicemente una me che non deve scansare tutti i preconcetti che ha visto crescere su di sé nel corso degli anni. Quei preconcetti che mi vedono seriosa, timida, triste, noiosa, poco socievole, goffa, che si adatta malvolentieri. In questa settimana, ma anche in tutte quelle che l’hanno preceduta, mi sembra di aver ribaltato questa idea distorta di quel che si crede che io sia. Ecco, forse uno degli aspetti che più mi piace di questo viaggio è proprio questo: nessuno sa chi sono, non c’è un passato a cui attingere, qui ci sono solo io.
4 pensieri riguardo “Le coeur ouvert à l’inconnu / 12”