La cosa che più mi sorprende quando cammino per le strade di Parigi e i suoi dintorni è l’assoluta discrepanza fra quel che ne sapevo quando la visitavo come turista e quel che ne so adesso. Ho sempre pensato a Parigi e ai suoi tetti blu, agli scorci del centro e alla sua grandeur chic, non mi ero mai soffermata sui quartieri residenziali, sul suo essere tanti piccoli villaggi con dinamiche proprie uniti sotto un unico nome.
Immagino sia un problema del turismo che si fa in tempi rapidi, pochi giorni e poi via, da soli, in albergo, senza la guida di qualcuno che la città la vive e può raccontarne la faccia più viva e vera. Ricordo che già quando venni a Parigi appena dopo la maturità una delle mie fissazioni fu di trascorrere del tempo come una parigina e non come una turista (difficile quando il budget prevedeva pane da toast con prosciutto cotto e Brie più o meno tutti i giorni) e so che ogni volta che viaggio è quello il principio che vorrei mi muovesse. So anche che non sempre mi riesce, anzi, tendo spesso a farmi trasportare dall’ansia di perdermi qualcosa di importante ma quando ripenso ad alcuni viaggi, più che ai musei e al sightseeing, penso al fish and chips sulla spiaggia da qualche parte fra Dublino e Bray, alle ore trascorse in birreria a Berlino perché c’era troppo freddo per fare qualunque altra cosa, al pomeriggio a non far niente se non leggere e sonnecchiare nel Parc du Thabor a Rennes. L’unico museo a cui penso è il Barbican di Londra perché quando andai c’era una mostra sulle coppie nell’arte a partire dalla fine dell’Ottocento e c’era anche una sezione dedicata alle coppie di donne, un qualcosa che non avevo mai preso in considerazione potesse esistere in un museo e che probabilmente mi insegnò l’importanza del vedersi rappresentati per affermare (e confermare) la propria esistenza.
In queste settimane ho scoperto che Parigi in inverno è un cielo basso e bianco, una coltre densa e pesante di nubi che, mi dicono, inizia a diradarsi ad aprile. Questo è il periodo dell’anno che le amiche italiane che ho incontrato recentemente mi dicono odiare di più con la sua luce così diversa da quella mediterranea e l’inverno che sembra non finire mai. Io faccio fatica a capire quanto il meteo influisca sul mio umore perché ho un baule pieno di motivazioni a cui attingere per nutrire il mio spleen.
Da quando sono rientrata l’alternanza è stata piuttosto rigida: una settimana in cui mi sento positiva e propositiva, una settimana senza speranza, una settimana in cui mi sento positiva e propositiva, una settimana senza speranza. Questa settimana che è cominciata ieri, se non senza speranza, è comunque densa di preoccupazioni. I miei attuali coinquilini parrebbero avere una data per la consegna del loro appartamento che apre quindi alla necessità per me di trovarne un altro a prezzi civili in cui non è richiesto un dossier oppure trovare un modo per creare una nuova coabitazione nella casa in cui sono adesso ma rimane il problema del dossier per me e per eventuali nuovi coinquilini.
Ho fatto un colloquio per un lavoro part-time e pagato col salario orario minimo che, in caso positivo, speravo potesse partire subito ma invece sarebbe solo da fine mese e io ho bisogno di lavorare adesso, in attesa di essere chiamata a prendere servizio per un posto che mi è già stato confermato. E quel posto che sto aspettando, ne ignoro il trattamento economico ma dubito mi permetterà di avere quello stipendio tre volte tanto l’affitto e, soprattutto, credo sarà troppo tardi per poter barrare la casella “fuori dal periodo di prova” che viene richiesto quando si costruisce il dossier per le agenzie che gestiscono le case in affitto. Quindi passo le notti prima di addormentarmi a pensare a soluzioni salvo poi decidere che ho troppi elementi precari per pensarci e allora apro la via all’ennesima notte agitata.
Dopo una settimana nella più profonda depressione e ansia sociale, ne ho passata un’altra in cui invece ho visto qualcuno quasi ogni giorno e mi sono sentita una persona quasi intera, per quanto il mio portafoglio avesse invece assunto le fattezze di un memento mori dedicato al flusso del mio conto in banca.
Dico quasi intera perché ci sono momenti che ancora sono in grado di sbriciolarmi. Mi capita magari quando al Pompidou mi trovo davanti le tele di Kandinsky e ripenso all’ultima telefonata in cui Morgane mi ha invitata a casa sua e ha cominciato a raccontarmi di come Kandinsky fosse il suo pittore preferito. Oppure quando una persona mi racconta che ad un certo punto della sua vita è stato maestro di cerimonie civili al Père Lachaise, mi chiede se conosco quel cimitero e io mi vedo e mi sento nella piccola saletta proprio di quel crematorio ad accarezzare la bara di Morgane pensando che sono l’ultima persona ad averla vista viva e mi tiro su la sciarpa il più possibile per celare alla vista altrui i miei singhiozzi. O anche quando sono a cena con amici e durante la serata penso a più riprese che ho voglia di chiamarla e dirle qualcosa perché quel che sta succedendo al tavolo è sicuramente collegato a qualcosa di cui abbiamo parlato nelle meno di 24 ore che abbiamo passato insieme nell’arco delle nostre vite. E allora io posso continuare a ridere, scherzare e partecipare alla conversazione ma, anche se fuori non si vede, mi sento un vetro appoggiato per terra e calpestato, non faccio un rumore eclatante ma sono rotta lo stesso.
Sono però riuscita ad andare per musei (nuovamente il Pompidou e una mostra sull’arte povera italiana al Jeu de Paume in fondo alle Tuileries), a entrare addirittura alle Gallerie Lafayette e provare delle scarpe che non ho comprato, ad andare al cinema, a prendermi il tempo di guardare film anziché cazzeggiare senza scopo al computer, ad ascoltare tanta musica dopo aver avuto bisogno di silenzio per settimane. Ho finito un saggio in francese di una femminista lesbica radicale e, se da un lato sono molto a favore del femminismo e del lesbismo, dall’altro ho avuto conferma che il radicalismo non mi appartiene, anche quando le istanze presentate sono le mie e capisco perfettamente la necessità di avere dei modelli visibili a cui guardare quando si sta cercando di capire e definire chi si sia (un po’ quella cosa che capitò a me al Barbican, per l’appunto).
Anche se continuo a corrugare fronte e occhi confusa dalla (ir)realtà quando penso a quel che è capitato a Morgane, ho però insomma avuto voglia di recuperare qualcosa di quelle piccole cose che ci rendono esseri umani e non solo esseri viventi.



La scorsa settimana, nell’ambito dell’associazione di scambio gratuito di saperi di cui faccio parte, ho fatto un incontro con un membro che fra i suoi vari lavori (oltre a quello di maestro di cerimonie civili al Père Lachaise) si è occupato di accompagnamento nella ricerca di lavoro. Ci siamo incontrati in un bar e per un’ora/un’ora e mezza ho parlato di futuro, di possibilità di farcela, ho dovuto esprimere a voce alta quali fossero le cose che per me hanno un senso e in quello spazio di tempo mi sono sentita viva e contenta di quel che stavo facendo.
Quando la sera la mamma di Elio è tornata a casa e l’ho vista proprio stanca, ho realizzato che avevo provato il probabilmente secondo barlume di empatia negli ultimi tre mesi e che fino ad ora non avevo proprio avuto spazio per accogliere un sentimento che imponesse di mettere da parte la mia sofferenza per accogliere quella di qualcun altro.
Mi sono guardata da fuori e forse per la prima volta ho percepito la reale entità del mio dolore, un dolore talmente grande che per tre mesi il mio corpo non ha avuto energie per vivere, solo per sopravvivere, oberato com’era dal suo peso. Questo dolore che è come il cielo di Parigi in inverno: una coltre densa e pesante di nubi, senza grandi picchi ma costante e senza colore. Occasionalmente squarciato da qualche ora di sole.



Fra bella, grazie per il tuo denso diario che mi consente di evadere dal mio quotidiano torinese.
Per la parte pratica ti ricordo che non ti possono buttare fuori, anche se insolvente, prima della primavera. È un’antica legge medievale.
Per l’aspetto spirituale taccia di conforto sapere che il tempo aiuta a dimenticare.
Ti ricordo in visita a Parigi 19 anni fa…eri telquelle!
"Mi piace""Mi piace"
Ciao Consu! In realtà prima di fine marzo-metà aprile credo il problema non si ponga. Per il mio problema è che io non ho un contratto e non sono in una condizione lavorativa per cui troverò qualcuno che mi farà un contratto a breve, molto meno medievale come problema.
Per il resto lo so, ed in effetti il tempo sta agendo, credo che al momento la preoccupazione più grande è quella economico-lavorativa-abitativa ma non mi resta che vedere come evolve.
Baci
"Mi piace""Mi piace"