Faccio passare talmente tanto tempo fra un post e l’altro che a volte è quasi come se scrivessero persone diverse. Dall’ultima volta, ad esempio, il lutto ha occupato uno spazio molto minore per quanto subito dopo aver pubblicato il post precedente mi fossi dedicata ad ascoltare altre puntate di un podcast inglese in cui comici parlano con la host del programma di un lutto che hanno vissuto. Il podcast è pensato per essere leggero, per trattare un tema che prima o poi tocca tutti senza appesantirlo. Ogni storia è diversa ma quel che mi ha fatto bene di quel che ho ascoltato è stato il trovare un sentimento comune, qualcosa che mi facesse sentire parte di qualcosa. E proprio in una puntata si fa riferimento alla sorta di club in cui entrano a far parte le persone che hanno vissuto un lutto molto vicino, un club in cui l’appartenenza o meno è dirimente ed evidente: o lo hai vissuto oppure non puoi sapere cosa sia. L’ascolto del podcast non è stato rivoluzionario ma è stato utile per riconoscere come normali alcuni aspetti che avevo vissuto anche io ma, soprattutto, per essere un po’ più accondiscendente sia con la sparizione di chi sta vivendo il mio stesso lutto, sia con la difficoltà che alcune persone possono avere nel rapportarsi con chi sta vivendo una situazione come la mia.

Superato un po’ quel periodo in cui mi trovavo a fare cose che pensavo accadessero solo nei film come accarezzare foto sullo schermo del telefono o del computer, adesso credo di essere nella fase evitante, quella che si tiene ben lontana da ogni foto, che ha anche difficoltà a scrivere il suo nome, come a voler negare il passaggio nella mia vita di una persona che ora non c’è più. I trigger moment però non mancano e possono andare dal trovarmi a Porte de la Villette (“andiamo a Porte de la Villette a comprare le sigarette”, mi aveva detto a un certo punto della sua ultima serata in vita Morgane, anche se poi avevamo trovato un tabacchi aperto a due passi da casa sua e alla Villette non eravamo mai arrivate) fino a riascoltare un po’ per caso dopo dieci anni almeno una canzone degli Offspring che amavo tanto ai tempi del liceo, Gone away, di cui solo adesso posso capire pienamente la portata.

Quindi sì, continuo a fare i conti quotidianamente con il lutto e la precarietà ma, dopo quasi quattro mesi, ho ripreso ad annotare le cose che osservo e di cui vorrei scrivere. Può sembrare una sciocchezza ma per me significa guardare fuori dal mio dolore.

Di fatto la mia preoccupazione in questo momento è assorbita quasi esclusivamente dall’assenza di un lavoro e dalle conseguenze che avrà quando dovrò cercare un’altra casa in cui stare se non riesco a convincere il proprietario di questa che si può fidare di me anche se per ora non ho un lavoro vero ma spero di averlo a breve.

Ho combattuto un po’ la mia preoccupazione con l’obnubilamento sanremese (per i curiosi il mio inconscio, sulla base di quel che mi sto canticchiando incessantemente da giorni, ha decretato la vittoria di Elodie seguita da Madame) e con vari film tra cinema e piattaforme online. I miei preferiti Manchester by the Sea, Le otto montagne, The banshees of Inisherin, Jojo Rabbit. Per quanto ne avessi letto buone recensioni non ho invece amato particolarmente Licorice Pizza e di Braguino posso dire che è un documentario che pone molte domande ma che non dà risposte ma è stato interessante ascoltare il dibattito che ne è seguito o di come ciascuno, secondo la propria sensibilità, interpreti delle stesse immagini. Quest’ultimo però è stata per me l’occasione di conoscere un’associazione delle Lilas che si occupa di diversità culturale e di cui confido riuscire a seguire gli eventi prossimamente.

Alla proiezione di Braguino, nell’auditorium del centro culturale a due passi da casa, mi ha portata Jean-Marc, il signore che mi sta un po’ seguendo nella mia ricerca di un lavoro che segua le mie inclinazioni più che la necessità immediata di vil denaro. E mi ha portata proprio perché convinto che il miglior modo per trovare un lavoro fuori dal quadrato in cui vive buona parte del mondo del lavoro francese (ma credo non solo il mondo del lavoro) sia crearsi una rete di conoscenze e, non avendo avuto modo di andare oltre una breve presentazione, sono tornata a casa col biglietto da visita del presidente dell’associazione con cui prendere un caffè prossimamente.

Uno dei miti tramandati da schiere di espatriati oltralpe è la tenacità dei francesi nello scioperare e manifestare, non è un caso immagino che la rivoluzione l’abbiano fatta loro. Ebbene, posso confermare. Scioperi e/o manifestazioni contro la riforma delle pensioni e l’aumento dell’età pensionabile a 64 anni (“stelline”, verrebbe da dire guardandoli con occhio italiano) stanno tenendo banco da circa un mese con una (talvolta due) manifestazione e sciopero a settimana. Io però non sono tanto frustrata dagli scioperi che, stando essenzialmente a casa, mi toccano il giusto quanto dal fatto che politicamente sono ancora in Italia, non ho punti di riferimento, non conosco la politica francese se non attraverso i miei coinquilini decisamente a sinistra di Macron. Ma, avendo lavorato per dodici anni in un contesto in cui era impossibile non sapere cosa succedesse “nei palazzi”, mi sento un po’ sperduta e anche affaticata, forse ho ancora il diritto di disinteressarmi un po’.

Un altro mito tramandato da chiunque esca dall’Italia è che esistono paesi in cui gli autisti si fermano davanti alle strisce pedonali. Posso confermare anche questo: qui la maggioranza delle persone si ferma, anche in strade residenziali semi deserte in cui attraversare prima o dopo toccherebbe non più di 3 secondi della propria vita. A volte quasi vorrei dire a quegli autisti che non importa che si fermino, posso aspettare il loro passaggio.

Da quando a novembre è venuta a trovarmi un’amica e abbiamo visitato buona parte della città senza quasi mai prendere la metropolitana mi sono resa conto di quanto sia alla fine piccola Parigi per chi ha scarpe comode e voglia di camminare. In particolare ho scoperto che la relativamente centrale Place de la République può tranquillamente essere considerata una tappa di una passeggiata ad anello di 2-3 ore che tocca alcuni dei punti che più mi piacciono di questa città: la Rue de Mouzaïa con le sue traverse fatte di casette con giardino che la collegano con invece i palazzoni di edilizia popolare di Place des Fêtes, il Parc des Buttes Chaumont, il Canal de l’Ourcq, il Canal Saint-Martin, Place de la République, la vivace Rue du Faubourg du Temple, il Parc de Belleville col suo belvedere, il Village Jourdain e poi su per la Rue de Belleville fino a tornare alle Lilas.

Ho fatto anche un po’ di culturale in queste settimane, in particolare ho sostituito un’amica della mia amica dei tempi del liceo Giulia che aveva avuto un impedimento nella visita guidata di un hôtel particulier sugli Champs Élysées. Sono andata a scatola chiusa e con troppe poche ore di sonno addosso (obnubilamento da Sanremo, appunto) ma ne sono uscita rigenerata dalla conoscenza di una storia di cui non sapevo assolutamente nulla e con la consapevolezza di quanto le storie delle persone e i fenomeni di costume mi interessino infinitamente di più della storia politica e militare.

Vengo dunque alla visita: eravamo nell’hôtel particulier della Marchesa di Païva, ebrea polacca nata a Mosca che partita come prostituta è arrivata a sposarsi col cugino di Bismarck e poter edificare la sua casa, costata quasi quanto l’Opera Garnier sua contemporanea pur essendo infinitamente più piccola, contando esclusivamente sulle finanze che era riuscita ad accumulare attraverso il suo lavoro e la sua intelligenza. All’interno dell’abitazione tutto è teso a ricordare che la padrona è lei, finanche le allegorie affrescate virate al femminile quando generalmente erano rappresentate come uomini. Scherzo del destino vuole che dopo la sua morte e da più di cent’anni il proprietario dell’immobile sia un club il cui ingresso è riservato ai soli uomini a meno che le donne non siano accompagnate dal marito ma questo nulla toglie al fascino di questa donna capace di costruirsi da zero fino ad arrivare a parlare 7-8 lingue (fra cui il greco antico), scoprire quando ancora erano poco conosciuti gli scultori e pittori del suo tempo, invitare nel suo salotto chi all’epoca contava. Con pochi scrupoli e molti calcoli, è vero, ma sospetto che l’epoca per le donne fosse una in cui imporsi fosse ancora più necessario che oggi.

Passeggiando per il XVIII arrondissement

Dopo la visita ho goduto in quello che probabilmente diventerà il mio ristorante preferito a prezzi civili e abbiamo camminato per il XVIII arrondissement chiedendoci a tratti se fossimo a Parigi o in una affollata capitale centroafricana che poi diventava nordafricana per poi stabilirsi come nuovamente parigina. Durante la passeggiata ho avuto l’impressione che la chiesa del Sacro Cuore, che io trovo peraltro pure bruttina vista da vicino e deludente dentro (oltre ad essere la sua edificazione anche una risposta un po’ oscurantista alla Comune di Parigi la cui esperienza era nata proprio su quel colle un paio di anni prima), è per me un punto di riferimento geografico quasi quanto il Duomo di Firenze.

Da una decina di giorni il sole splende con una certa continuità e le temperature sono quasi primaverili. Il mio sguardo di persona disabituata alla città ha notato come durante le passeggiate che mi è capitato di fare per approfittare del sole, pareva che l’intera popolazione parigina si fosse riversata per le sue strade. Parigi ha regalato tramonti intensi che ho visto generalmente da camera mia perché già rientrata o da casa di Elio ma è stato comunque bello per del tempo riscoprire una città anche senza nuvole basse.

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