Ho sempre avuto un debole per marzo, per le temperature che si alzano, le giornate che si allungano, i boccioli che si mostrano e poi addirittura fioriscono. Sarà che, per citare Alda Merini, sono nata il ventuno a primavera, ma per me marzo (e talvolta già metà febbraio che dai, è come fosse marzo ormai) rappresenta l’uscita dal letargo invernale. Penso di poter anche individuare il momento esatto in cui ne ho avuto abbastanza dell’inverno metereologico e delle emozioni. È stato circa un’ora dopo aver pubblicato l’ultimo post, avevo trascorso l’intera giornata a sedere, la mattina a fare un test che non ho poi passato per diventare sottotitolista, il pomeriggio a scrivere e probabilmente perdere tempo. Elio era in vacanza e non avevo niente a spingermi fuori di casa se non la mia volontà di farlo. Ebbene, è stato in quel momento che il mio corpo si è ribellato e mi ha imposto di uscire di casa, di intanto fare due passi, poi di farli in direzione di quella pista di atletica aperta alla cittadinanza di cui avevo sentito parlare senza aver mai realmente fatto niente per frequentarla.

Sono così andata, mi sono soffermata davanti al cartello con gli orari e le regole, ho fatto una fotografia per ricordarmelo, ho fatto un giro di pista camminando, mi sono detta che l’indomani mattina non dovevo trovare scuse, avrei rimesso le scarpe da corsa dopo circa due anni di inattività. Il giorno dopo ho mantenuto la promessa che avevo fatto alle mie rammollite membra e ho dato un senso al materiale di allenamento abbandonato in un cassetto da quando sono qua. Come sempre sono partita dandomi un obiettivo minimo (in questo caso peraltro giustificabile con la lunga inattività), poi mi sono spinta un po’ più avanti, infine ho deciso di superare anche il secondo obiettivo che mi ero prefissata e forse questa appartiene al mio modo di essere: mettere le mani avanti sulla capacità di fare qualcosa e poi finire non solo per farla ma farla anche meglio di quanto preventivato.

Nonostante quello che tredici anni di calcio a livello agonistico potrebbero far pensare, non ho mai amato la corsa. Ogni pre preparazione atletica è stata una tortura che mi sono inflitta per puro senso del dovere e per sostenere meglio le fatiche della preparazione atletica vera e propria. Lì però avevo un obiettivo e sapevo che dopo quell’agosto di allenamenti solitari, a settembre avrei trovato una squadra con cui condividere le pene della fatica e la gioia di tutto il resto. Qui l’unica cosa che mi spinge è una sorta di senso del dovere nei miei confronti, della mia salute, del mio sguardo sconfortato davanti a muscoli che hanno perso la loro tonicità, del mio bisogno di trovare un modo per far circolare la dopamina in qualche modo. È stato faticoso, come è stato faticoso tornarci più volte nella settimana successiva, o come fare esercizi in casa la mattina in giorni in cui la pista era utilizzabile solo la sera e io non potevo, ma per ora il mio corpo e il mio umore ringraziano, in un certo senso è stato anche come ritrovare una forza di volontà che per quattro mesi si era concentrata soltanto sulla volontà di esistere senza essere in grado di essere o, almeno, di esserlo pienamente.

Ma la finisco con i miei sproloqui sulla pista di atletica aperta alla cittadinanza e la fatica che bisogna fare per godersi la gioia di essersi allenati, in particolare quella del giorno dopo in cui si ha contezza di ogni muscolo. Non mi sono solo allenata negli ultimi dieci giorni, un venerdì pomeriggio sono stata anche invasa da una tristezza disarmata per piccole cose incomprensibili (e forse un po’ meschine ma ho deciso di astenermi da ogni giudizio e di essere comprensiva con le modalità che ogni persona sceglie di adottare per vivere il proprio lutto) legate a Morgane ma il modo in cui ho deciso di non farmi trascinare da questo stato e reagire è stato forse l’inizio di una nuova fase. Il giorno dopo infatti ho sfidato il malessere che avevo ancora addosso e sono andata all’incontro di un’associazione a cui ero stata invitata. In realtà a una delle mie coinquiline ho detto che non sapevo perché stessi andando, che probabilmente avrei dovuto parlare con persone, raccontare cosa ci facessi a Parigi, cosa volessi fare da grande e, al momento, tutto mi pareva inutile e senza senso. Poi sono uscita di casa, ho raggiunto l’appuntamento con due membri dell’associazione (uno conosciuto tre giorni prima, l’altro al momento) e, chiacchierando quasi come vecchi amici, insieme abbiamo preso la metro.

In questo momento per me prendere la metro è come andare lontano, uscire di casa, quasi viaggiare, avere qualcosa da fare. Siamo riemersi di fronte al Pont Marie e Parigi mi ha sbattuto in faccia le ragioni anche estetiche per cui sono qui ed è curioso perché per me Parigi è sempre stata un’idea, non qualcosa di bello e, per quanto adori le tranquille Lilas o i brulicanti quartieri popolari, ogni volta che mi trovo nel centro di Parigi non posso che accoglierne l’elegante maestosità. Al di là del ponte, sulla Ile Saint Louis, l’antica Ile aux Vaches (un’isoletta usata per il pascolo) che a partire dal regno di Luigi XIII e la reggenza di Marie De’ Medici fu terreno di uno dei primi interventi di urbanizzazione su scala a Parigi, c’era l’appartamento che cercavamo. In un ampio e luminoso salotto affacciato sulla Senna, ho avuto modo di conoscere membri e simpatizzanti dell’associazione LINGUAFRANCA, un’agenzia letteraria transnazionale che si occupa di riflessione, animazione, comunicazione e traduzione/editing al fine di creare uno spazio letterario transnazionale per l’appunto.

Le premesse dell’incontro prevedevano di dare un volto a quelli che a volte erano solo nomi o indirizzi nelle mail collettive e così, a turno, ciascuno si è presentato, ha raccontato brevemente chi fosse, cosa facesse, che progetti avesse nell’immediato. Se sono arrivata timorosa davanti al mio essere ancora annebbiata, ascoltare le storie, gli interessi, le attività delle persone che mi circondavano è stato uno stimolo a recuperare la curiosità del mondo e la coscienza del mio essere in grado di avere qualcosa da dire senza timore di incorrere nel detto che a volte è meglio tacere e sembrare stupidi che parlare e togliere ogni dubbio. Anche se non ho pubblicazioni, presentazioni, classi a cui insegno, ho comunque delle storie interessanti da raccontare.

Dopo un tè e lauta merenda ci siamo congedati e ho fatto due passi con Fulvio, il presidente nonché poeta e contatto che mi aveva portata, e Monique, responsabile di acquisizioni per la letteratura francese dal Medioevo al XIX secolo alla Bibliothèque national de France. Fulvio tornava verso Les Lilas, io non avevo voglia di rientrare subito e Monique era in anticipo sul suo appuntamento con un’amica. Giunte di fronte alla brasserie in cui avevano fissato, visto che stavamo chiacchierando amabilmente, le ho proposto di farle compagnia nell’attesa. Così ci siamo sedute a un tavolino del Sarah Bernhardt, la brasserie in stile Art Nouveau appena restaurata adiacente al teatro dell’omonima attrice e abbiamo continuato la nostra conversazione. Finito il mio bicchiere di vino ho lasciato le due amiche alla loro serata e sono tornata a casa.

Istituto italiano di Cultura

La conversazione con Monique mi ha permesso di acquistare un certo numero di punti autostima perché non faceva altro che ripetere che storia interessante avessi e che buon francese parlassi; quella successiva con lei e la sua amica Nathalie mi ha permesso invece una riflessione sulla percezione che gli italiani hanno di loro stessi rispetto a quella degli stranieri. Io, ad esempio, tendo quasi a scusarmi per il mio essere italiana, come dovessi giustificarmi per qualcosa, e cerco di mettere in luce aspetti che mi distinguono dalla visione pregiudiziale che si ha dell’Italia, ad esempio sono sempre puntuale, generalmente organizzata e parlo a voce bassa. La percezione che ho degli italiani (forse corroborata da questioni calcistiche) è che detestino i francesi quando questa rivalità non è affatto vissuta con lo stesso italico spirito di rivalsa. I francesi (non tutti chiaramente) invece amano l’Italia, la lingua italiana, il cibo italiano, ci trovano pieni di risorse, di fascino, capaci di effettuare una sintesi molto proficua tra un sistema scolastico estremamente nozionistico come il nostro e mondi invece più empirici che si trovano all’estero. A volte ho l’impressione che gli italiani soffrano di una sorta di sindrome dell’impostore nei confronti del mondo. Certamente ci sono aspetti migliorabili ma ho l’impressione che siamo molto meglio di come ci dipingiamo (oltre ad avere uno standard delle pulizie decisamente elevato e biscotti da supermercato infinitamente più buoni, grande elemento di nostalgia non solo mio). E dico “siamo” perché da quando sono partita in Workaway poco più di un anno fa, per quanto abbia una storia familiare multiculturale, ho scoperto di essere profondamente italiana e innamorata del mio paese. Ieri sera sono andata alla presentazione di un libro all’Istituto italiano di Cultura e quando ho visto sventolare la bandiera italiana accanto a quella dell’Unione Europea, mi sono emozionata. Il libro presentato era Le catene della destra di Claudio Cerasa, direttore del Foglio a cui in passato ho scritto sotto dettatura infinite mail e che ero curiosa di vedere finalmente dal vivo. Nella saletta adibita agli incontri, con mia grande sorpresa, l’età media era piuttosto bassa e piuttosto bassa era anche l’età di chi ha preso la parola per porre le sue domande alla fine dell’incontro. Osservazioni puntuali, domande non banali, il tutto a denotare che esiste un mondo sotto i quarant’anni che si interessa. Certo, molti studenti di Sciences-Po, un professore della stessa, una professoressa della Sorbonne Nouvelle, ma segno che c’è vita. Da quando sono qui ho incontrato una comunità italiana attiva, intellettualmente e culturalmente vivace, curiosa, aperta. In una città in cui tutto si muove continuamente, è come se la centrifuga mi avesse restituito quello che andavo cercando e che a Firenze ero troppo pigra e chiusa nei miei circoli per cercare.

Prima di chiudere due parole su quel che ho capito sugli scioperi: i francesi considerano un loro diritto scioperare e, benché portino disagi, gli scioperi vengono accettati come fenomeno inevitabile, un po’ con lo stesso spirito con cui la pioggia viene accolta a Londra, immagino. Anche chi magari non sciopera perché economicamente non sostenibile, molto spesso appoggia le ragioni di chi invece lo fa ed è solidale. Io pensavo che con uno sciopero circa ogni due settimane da gennaio fossero già piuttosto carichi, a quanto pare in realtà hanno appena cominciato. Dopotutto i francesi hanno una lunga storia di rivolte sanguinolente ai soprusi delle classi superiori/dirigenti e forse c’è un motivo se la rivoluzione l’hanno fatta loro.

Il retro del numero di marzo dell’Informacittà locale

Oggi il tempo è decisamente infelice, grigio e battuto da forti raffiche di vento. Io ho un po’ smesso di aver voglia di scrivere o parlare estensivamente del lutto ma non come reazione di chiusura nei confronti del mondo, bensì il suo opposto: ci penso ancora ogni giorno e non ho problemi a parlarne ma è arrivato il momento di ritrovare l’interesse per tutto ciò che sono e mi piace al di là di quell’evento. Ho ripreso ad aver voglia di incontrare persone, ho qualche parente e amica in città prossimamente, un fine settimana post pasquale a Londra da mia sorella (e senza prendere aerei che mi emoziona molto). Ho deciso di smettere di attendere che qualcosa si smuova per agire e ho preso i biglietti per due rientri lampo in Italia a maggio e luglio che sembrano cose di nessun conto ma per me è come prendere una decisione dopo mesi in cui il massimo che riuscivo a programmare era cosa mangiare l’indomani.

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