Nell’estate del 2015, complici alcune vicende personali e le ferie in un periodo in cui le avevo solo io, decisi che era giunta l’ora di affrontare la mia prima vera vacanza da sola. Scelsi Creta, un po’ perché incuriosita dai racconti di vari conoscenti che se ne erano innamorati, un po’ per il rapporto qualità-prezzo, un po’ perché i voli erano i più comodi in generale, un po’ perché le meraviglie che raccontavano dell’ospitalità cretese mi diedero la tranquillità necessaria per buttarmi nell’ignoto.
Mi diedi poche regole: fare solo quello che mi sentivo di fare, programmare il minimo indispensabile, non agitarmi se non riuscivo a fare tutto, stare con me stessa, leggere, riposare, chiacchierare con gli sconosciuti, annotare qualcosa tutti i giorni. Così è stato.
Di seguito il diario che scrissi a posteriori di quei giorni. Avevo annotato tutto su un vecchio Moleskine poi mesi dopo ripulii gli appunti da alcuni passaggi privati e li integrai con ciò che ricordavo ma che in viaggio non avevo avuto tempo o voglia di scrivere.
Venerdì, 17 luglio 2015
Il grande giorno è arrivato, quello in cui da una separazione nasce una risorsa. Viaggio da sola, prima volta che da sola faccio sia il viaggio, sia l’intera permanenza.
Le ultime settimane tra lavoro, studio, varie ed eventuali sono state così frenetiche che non ho avuto né il tempo di fermarmi a pensare al viaggio in solitudine né quello per rendermi conto che avrei preso un’aereo: sono salita e decollata in una sorta di trance, quasi senza sapere dove fossi.
Parto quasi alla sprovvista, con la prenotazione fatta per le sole prime due notti e una guida turistica che ho iniziato a leggere solamente in aeroporto, oltre a qualche consiglio raccolto qua e là. Ho un’idea a grandi linee della zona in cui rimanere e il punto fermo della gola di Samaria ma poi penso mi affiderò al caso e al sentimento.
Dal finestrino guardo fuori cercando di orientarmi ma mi rendo miseramente conto che non ho idea di dove sono. Solo quando l’aereo scende di quota e il mare blu profondo acquista una consistenza di onda alta e lunga ho la sicurezza che la terra che scorgo è Creta.
Atterrare a Chania ha un po’ l’effetto dell’arrivo ad Asmara (se ricordo bene l’arrivo ad Asmara e se l’effetto 4 di notte dell’arrivo in Eritrea si può applicare alle 4 di pomeriggio cretesi) ma dopo aver sorvolato il mare dell’Asinara e le calette lungo la passeggiata che da Cala Sabina porta a Cala d’Oliva. Gli odori sono irrimediabilmente sardi, ma forse più che sardi sono semplicemente mediterranei.
L’aeroporto è piccolo ma in ampliamento, deserto, sembra ancora più africano di Asmara se non ci fossero gli autonoleggi a ricordare che siamo in una località turistica.
Il bus per il centro città è arrivato ma fanno salire solo al momento della partenza, nel frattempo mi guardo intorno. Sento parlare quasi solo italiano; ci sono una coppia di quasi pensionati sicuramente di sinistra, lo immagino dai vestiti e dai libri che hanno sottobraccio, e una famiglia, con bambino già attaccato al cellulare, che sproloquia.
Mi sono già innamorata della bigliettaia del bus per Chania.
Guardando fuori dal finestrino del bus l’impressione è di trovarsi a metà strada fra la Sardegna lontana dagli sfarzi dell’Aga Khan e l’Albania con le sue case completate al piano terra ma lasciate a metà per il resto, con le strutture in ferro che spuntano dall’alto.
La pensione che ho prenotato è vicina alla stazione dei bus, non ha niente del fascino di quelle nella zona della città vecchia che ho visto su internet ma ha il vantaggio di costare poco e di essere vicina alla stazione, elemento non indifferente se sai che due giorni dopo devi prendere un bus alle 6 del mattino. La stanza è abbastanza spoglia e senza bagno che si trova appena fuori, in compenso c’è un frigorifero la cui utilità mi si è rivelata quando la sera lo sciacquone del bagno ha avuto una piccola défaillance e ho usato il cassetto della verdura riempito di acqua per riportare la normalità.
Non riesco a decifrare la proprietaria, ha una sorta di distacco ma quando dopo una doccia scendo a chiedere aiuto perché non riesco a collegarmi al wifi mi offre subito gelato, ciliegie e l’aiuto del fratello per risolvere il problema. Chiacchiero un po’ col fratello, mi racconta dei cognomi di origine veneziana dei cretesi e dell’isola in generale, poi saluto e mi dirigo verso il vecchio porto dove giungo al tramonto e dove riesco a trovare una rete wifi aperta per informare casa che sono arrivata.
Dopo aver atteso il calare del sole sul molo frangiflutti realizzo quale sarà il grande scoglio da superare di questa vacanza: decidere dove mangiare. Mi incammino a caso vagando per almeno quaranta minuti prima di decidermi per un locale in una zona un po’ più defilata e meno smaccatamente turistica del porto. Dal mio tavolino vista barche osservo il passaggio di un gran numero di vacanzieri tirati a lucido; poi, finito di cenare mi incammino verso la pensione dove in giardino trovo i proprietari con il figlio e le vecchie zie che non parlano una parola né di inglese né di italiano ma conoscono le borse di non ho capito quale marca.
Tra una scorza di arancia e cioccolata e un bicchierino di raki chiedo un po’ di consigli su come muovermi e cosa fare a Creta; per il giorno dopo mi suggeriscono di prendere un bus e andare verso ovest, a Falasarna, che in giornata si fa bene. Per il dopo Samaria si apre un dibattito che scioglierò con calma in base alla possibilità di prenotare da internet senza dover vagare per i paesini alla ricerca di stanze disponibili.
Ma intanto il primo giorno è andato.

Sabato, 18 luglio 2015
Stamattina ho capito a cosa mi sarebbe potuto servire il frigorifero: conservarci la colazione se mi fossi portata qualcosa con cui farla. Nella mia partenza alla sprovvista non mi è passato neanche per l’anticamera del cervello che la colazione non fosse inclusa nel prezzo del pernottamento. Ho risolto facendo colazione al bar della stazione dei bus.
La stazione è affollatissima, le impiegate della biglietteria non hanno un secondo di riposo, è un movimento incessante di autobus che arrivano, si vuotano, si riempiono e ripartono.
Ho sempre paura di sbagliare autobus.
Da Chania la strada che prosegue lungo la costa verso ovest è un lungo cordone di lussuosi resort col mare neanche eccelso. Il turismo in questa zona è prevalentemente inglese o comunque nordico in generale. Si accontentano di poco i nordici.
Mentre guardo fuori dal finestrino rimane l’idea di un paese a metà strada, di giorno il caos dell’Albania e di notte lo sfarzo vacanziero della Sardegna. Ma forse l’opinione sulla confusione in stile albanese è dovuta al fatto che non so come funzionino le fermate intermedie delle linee degli autobus. Questo in particolare, da quel che ho capito dalle domande che fa l’autista a tutti i nuovi passeggeri, serve Falasarna e Balos. Con mio grande sollievo intuisco che la maggior parte delle persone propende per la seconda opzione.
Essere da sola significa che è molto più probabile che qualcuno ti rivolga la parola. Accanto a me si è seduto un signore che, incurante delle cuffie e dell’iPod, mi intrattiene in una chiacchierata fino alla sua fermata in quello che a me pare un paesino sperduto in zona mare. Mi racconta che è di Salonicco ma è sposato con una cretese, sono emigrati da giovani in Australia e ora sono qui a trovare i parenti. Mi parla in italiano perché ora è pensione ma ha avuto tanti colleghi italiani di cui ha pareri discordanti: negativi per quanto riguarda siciliani e calabresi, positivi sui veneti. Tra le informazioni che ritiene importanti ci sono anche quelle su quanto guadagnava. Sembra avere una fissazione per i numeri, ogni occasione è buona per fare un calcolo; mi viene in mente l’uomo d’affari del Piccolo Principe di Saint-Exupéry.
A Falasarna si arriva dall’alto. La spiaggia è circondata da serre e frutteti, avevo letto delle grandi coltivazioni della zona. Si conferma il mio grande scoglio da superare: il cibo. Mi fermo al market davanti alla fermata del bus per un po’ di frutta e qualche crostino. Scendo verso il mare e con orrore constato che è quasi la una e che se non voglio la confusione del bagno e degli ombrelloni, non esiste ombra. C’è qualche scoglio tra la sabbia ma niente che renda possibile stendersi senza esser toccate dal sole. C’è anche molto vento che non aiuta a proteggersi.
Intorno a me poche persone, una famiglia con padre nudista, e una coppia che probabilmente cercava riparo dal vento e si è piazzata a pochi metri da me nonostante la vasta distesa della spiaggia.
Entro subito in acqua, bella, fredda, meno vellutata di quella di Stintino, mi viene in mente Cala Giordano quando ho fatto il bagno a maggio. Uscita dall’acqua mi confronto con il motivo per cui a volte odio l’estate: il mio pessimo rapporto con la crema solare e la necessità per la mia pelle di metterla. Soprattutto quando ho poca crema e le gambe ricoperte di sabbia.
Provo a leggere ma ho accumulato talmente tanto sonno arretrato negli ultimi mesi che crollo dopo poche pagine. Quando il sole si fa troppo cocente cerco uno scoglio un po’ più grosso, che se sto sdraiata molto a ridosso, con una maglietta addosso e le gambe coperte dall’asciugamano, offre un riparo accettabile dai raggi.
Non mi sta spaventando la solitudine ma sento che mi sto impegnando molto a tenere lontani i pensieri. In fondo quest’isola ha un carico di significati remoti non indifferenti che forse non ho ancora affrontato se non distrattamente mentre atterravo, prima di cacciarli in uno sgabuzzino della testa. Razionalmente è tutto chiaro, irrazionalmente sono un po’ meno sicura.
Non ho ben capito come funziona la fermata dell’autobus per il ritorno, se è un capolinea o una fermata intermedia. Penso comunque di non essere l’unica a dover rientrare a Chania e che quindi me ne preoccuperò solo qualora l’autobus dovesse davvero non passare, prima non cambia niente. E infatti il bus arriva e piano piano, dopo che l’autista si è assicurato che tutti i passeggeri si siano scrollati la sabbia di dosso, torniamo a est.
In stazione faccio il biglietto del bus per domani, va bene la programmazione minima della realtà, ma già che mi dovrò svegliare presto, vorrei almeno la sicurezza di avere il biglietto.
Serata malinconica. Può mancarci il Male? E il confine fra il Male e le voci che lo dipingono come Male qual è? O meglio, possono azioni indubbiamente negative racchiudere tutto quello che una persona è ed è stata? Continua quella nostalgia che però non è accompagnata da voglia di condividere questo viaggio. Però ti penso, oh se ti penso. Ogni volta che vedo il colore dell’acqua di foto tue che non ti ho scattato io. Stronza.
Per la cena ho scelto una taverna consigliata dalla proprietaria della pensione, nella zona residenziale della città invece che in quella turistica. Quando mi presento ci sono solo io, poi arriva un gruppo di credo sessantenni e invidio molto la loro capacità di ordinare sapendo esattamente cosa c’è scritto sul menù. Io cerco di mangiare il più tradizionale possibile, fosse per me ordinerei tutto, ma mangiare da sola significa anche non aver nessuno a cui chiedere di finire i miei avanzi.
Ieri sera a fine pasto il cameriere mi ha portato del gelato e un bicchiere di raki, non messi sul conto, stasera frutta mista e una bottiglietta di raki. Anche se non sono propensa all’alcol non posso esimermi dal confronto con la tradizione.
La cosa più difficile è stata andare via: due minuti per prendere l’ordinazione, cinque per portarmi da mangiare, trenta per chiedere e pagare il conto, alzandomi io a dare i soldi perché non ce la facevo più ad aspettare: troppo stanca e serata irrimediabilmente triste.
In stanza mi sono ricordata una cosa fondamentale: domattina so che ho un bus alle 6 per Omalos, che percorrerò 16 km di sentiero a piedi zaino in spalla, che arriverò ad Agia Roumeli e che poi dovrò decidere dove dormire. Cellulare alla mano cerco stanze nei paesini in cui ferma il traghetto che collega Paleochora a Chora Sfakion, sulla cui rotta si trova anche Agia Roumeli. Booking mi propone un’offerta: due notti a Paleochora a 58 euro. Presa.
Domenica, 19 Luglio 2015
Sveglia messa alle 5.15; rumori notturni dalla finestra mi hanno fatto dormire a intermittenza. Ho realizzato appena sveglia che non ho l’indirizzo di dove dormo stanotte e, fondamentalmente, non ce l’ho neanche ora. Dodici ore dopo su una barca in partenza da Agia Roumeli per Paleochora.
La mattina alle 6 ci sono due bus di linea che da Chania partono per Omalos, da cui poi si entra nel Samaria National Park. La tratta, di salite e tornanti, si percorre in un’ora/un’ora e mezza. Dietro di me due italiani (romagnolo uno, l’altro non so) che alle 6 avevano voglia di ripetere lo stesso concetto relativo all’incomprensione per cui sono saliti su un bus di linea e non su quello dell’agenzia a cui si erano rivolti pagando due volte, a oltranza.
L’ingresso del parco è situato a 1250 metri sul livello del mare, nella luce delle 7.30 del mattino la vista è decisamente spettacolare, sembra di essere in montagna. Un po’ scherzando mi chiedo quale colpa abbia deciso di espiare per sottopormi ad una camminata di 16 km, con in spalla lo zaino/bagaglio di una settimana e addosso i pantaloni lunghi dopo che ieri mi sono rovinosamente bruciata le gambe a Falasarna. Dopo i primi metri constato che sarà una lunga camminata, sia perché scendere montagne con pesi addosso sottopone le ginocchia a molte più sollecitazioni che salirle, sia perché il sentiero è molto affollato da gruppi di persone che non hanno la contemplazione silenziosa nel sangue.
Il sentiero è lungo 16 km, all’ingresso, insieme al biglietto (da tenere e consegnare all’uscita), è disponibile un depliant con una cartina su cui sono segnate tutte le zone di sosta provviste di ombra, tavoli, bagni e fontanelle di acqua di sorgente, e le distanze tra l’una e l’altra. La prima parte è per la maggior parte in ombra, poi come si arriva al villaggio abbandonato di Samaria, la vegetazione si fa più spoglia. L’unico mezzo di locomozione disponibile, oltre ai piedi, è il cavallo e io mi immagino i dipendenti del parco che tutti i giorni devono prendere il cavallo per raggiungere le loro postazioni.
La solitudine rende più facili gli atti di cortesia, i sorrisi dispensati agli sconosciuti. Mi piace sentire le conversazioni tra le persone senza che loro sappiano se li capisco o meno.
Mentre mi avvicino all’uscita, intorno alla una, incrocio un numero che a me pare spropositato di persone che percorre la strada in senso inverso al mio, da Agia Roumeli ad Omalos, in salita e sotto il sole. Appena fuori dal parco mi fermo in un bar e decido che mi merito una coppa di yogurt e miele. Poi mi rimetto in cammino perché c’è l’ultimo pezzo di strada da fare, quello che porta al mare e al porto da cui parte il traghetto che dovrò prendere nel tardo pomeriggio.
Prima di dirigermi verso la spiaggia faccio un giro per il paesino di Agia Roumeli in cerca di un negozio in cui comprare crema solare e doposole: silenzio, praticamente niente macchine, aria calda e assonnata da Far West.
Trovo anche la biglietteria del traghetto, operazione che ancora una volta mi insegna che in greco gli accenti si mettono diversamente che in italiano: Falàsarna, Paleòchora e non Falasàrna o Paleochòra.
Sono stravolta ma il percorso e l’arrivo danno un senso alla fatica. Il mare è di quel turchese scuro, da fondale ciottoloso. Quello che a me piace più del turchese brillante stintinese. La spiaggia è formata da ciottoli scuri e bollenti, il mio asciugamano in microfibra è troppo sottile per non scottarmi. Abituata a quelli italiani non mi informo nemmeno per i prezzi di lettini e ombrelloni, optando per un altro pomeriggio sotto il sole peggiore con maglietta e asciugamano a coprire le gambe e il sedere poggiato sui pantaloncini piegati tipo cuscinetto per proteggermi dal bollore delle pietre. Via via che passa il tempo tutti i camminatori della gola di Samaria si riversano sulla spiaggia in un clima decisamente rumoroso in attesa del traghetto per andare o a Chora Sfakion, verso est, da cui poi parte il bus per tornare a Chania, o nelle varie località sul mare verso ovest.
Per quanto non appassionata dell’oggetto mi sono portata un e-reader che si sta rivelando provvidenziale: leggero e munito dell’intera tetralogia de L’amica geniale. Leggere fa passare il tempo, dimenticarsi dove si è e chi si è.
Il traghetto su cui salgo è piuttosto grande, prevede anche il trasporto automobili ed è molto affollato. Il paesaggio del sud-ovest di Creta ha l’aspetto di montagne a picco sul mare, molto drammatico, molto bello.
Mi ha chiamato la ragazza che lavora nella struttura che ho prenotato, al momento della conferma su Booking non avevo neanche scritto a che ora sarei arrivata. Mi ha spiegato come arrivare da loro ma non ci ho capito molto, ci penserò una volta sbarcata.
Poco prima di sbarcare mi richiama la ragazza e ci accordiamo per incontrarci al porto. Io non ho idea delle dimensioni dei paesi cretesi, mi dispiaceva farla venire fino a lì, poi ho scoperto che erano poche centinaia di metri da fare. Katerina mi fa subito un’ottima impressione, carina, gentile, mi sono sentita subito a mio agio.
Paleochora mi ricorda molto Stintino come tipo di turismo, famiglie e pensionati, ma in un piacevole brusio tendente al silenzio.
Apparentemente non stancata dalla camminata mattutina decido di salire anche sulla rocca che sovrasta le due baie su cui si affaccia Paleochora e che conserva i ruderi di un castello veneziano.
Devo capire come mai a cena riesco a vincere la paura di andare in un ristorante da sola mentre a pranzo mi imbarazza di più.
La giornata è stata intensa ma la malinconia scende con la sera, quando alla fine di una giornata ti guardi intorno e a disposizione hai forse rapporti un po’ così per cellulare, senza la carnalità dell’intimità. Ecco, questo mi manca, sì, la carnalità dell’intimità. Però sto imparando che ciò che fai da sola, senza condivisione, non passa dai filtri delle opinioni altrui, è solo tuo.
Lunedì, 20 luglio 2015
Mi trovo a scrivere una sorta di diario anche come a voler tenere traccia del tempo, dei giorni della settimana. Le vacanze si mangiano il tempo e non ricordo che giorno sia.
Dopo la sveglia presto e la fatica di ieri ho bisogno di dormire, di prendere la giornata con calma e senza orari. Quando mi alzo ho i polpacci talmente induriti dalla camminata di Samaria che a stento riesco a camminare. Verso le cinque del mattino sono stata svegliata dal vento, ieri avevo steso un po’ di biancheria e sono uscita per assicurarmi che non fosse volato via niente. Ho trovato lo stendino riverso a terra e i miei vestiti sopra, già asciugati dal vento caldo della notte.
Paleochora è una cittadina turistica che si affaccia su due baie nel Mare Libico ed è caratterizzata dal forte vento. La mattina opto per la spiaggia sabbiosa a ovest. Il problema principale è decidere dove piazzarmi e non tanto perché la spiaggia sia affollatissima quanto per il contrario: c’è talmente tanto spazio che i parametri in base ai quali scegliere il posto sono quasi insignificanti e finiscono per ridursi a un “non ho più voglia di camminare nella sabbia in attesa di decidermi, ormai mi fermo qui”.
La sabbia non è eccelsa anzi, è grossa e talmente pesante che neanche le forti raffiche di vento riescono ad alzarla; ha però il vantaggio di essere facile da togliere e per una che come metro di paragone per tanti anni ha avuto la sabbia della Pelosa di Stintino che ti rimane in ogni interstizio possibile anche dopo la doccia, non è poco.
L’acqua è bella, calma nonostante il vento.
Per pranzo decido di tornare in stanza, non ce la faccio a stare di nuovo al sole nelle ore peggiori del giorno. Prima però mi fermo a comprare un paio di pomodori, della feta e del pane per pranzo. Una volta rientrata in stanza mi rendo conto che ci sono, sì, le stoviglie ma io non ho né olio per condire l’insalata, né detersivo per poi lavare i piatti. Mi arrangio col sapone di Marsiglia che uso per lavare la biancheria.
Approfitto del wifi per sistemare la tappa successiva del mio viaggio e per intrattenermi in chiacchiere su Whatsapp con l’Italia.
Dopo aver riposato esploro la baia a est. C’è il molo di attracco dei traghetti, vari locali sul lungomare, un bagno con ombrelloni e poi spiaggia libera. Non c’è sabbia, solo grandi ciottoli che rendono impossibile sdraiarsi ma poco male, ho comunque dimenticato l’asciugamano in stanza, la testa, la testa… Entrare e uscire dall’acqua non è molto semplice, bisogna stare attenti a non scivolare e soprattutto evitare i numerosi ricci incastrati tra le pietre. Per ora è la cosa più vicina ai miei scogli sardi.
Leggo quasi forsennatamente e penso che uno passa la vita a sfuggire dai propri genitori, dalla famiglia, ma quella ce l’hai proprio dentro, nel modo in cui ti muovi e tanto vale farci l’abitudine e accettarla.
Dopo una doccia e prima di cena salgo al piano di sopra della struttura per pagare il conto e farmi offrire cioccolato e l’immancabile raki.
La TV accesa sul telegiornale è il pretesto per chiedere informazioni sulla crisi greca. Stelios, il proprietario e fratello di Katerina, mi spiega che qui la crisi non si sente tanto, hanno il turismo. Qualcuno ha cancellato la prenotazione, qualcuno ha chiesto informazioni sulla situazione ma anche io, effettivamente, non ho mai avuto la sensazione che ci fosse un paese allo stremo. Il biglietto del traghetto che collega Paleochora a Chora Sfakion però è aumentato di €3,50 dall’oggi al domani. Probabilmente se lo avessi fatto ieri avrei pagato i 17 euro di listino originario invece dei 20 euro e 50 centesimi che mi è costato oggi.
Ho scoperto che in Grecia i confini sottoposti a paesi non dell’Unione Europea rendono necessario il servizio militare obbligatorio, della durata di 9 mesi. Stelios, attualmente a casa in licenza ma sennò in servizio, per quanto non entusiasta, ne sostiene comunque la necessità.
Esco con la convinzione della necessità di trovare sempre qualcuno con cui scambiare più di un’ordinazione, questi 20 minuti in compagnia dei due fratelli mi hanno rigenerata. E quello che dicono sull’ospitalità cretese è vero. Forse è la gestione familiare degli affittacamere?
Salgo di nuovo al castello veneziano prima che tramonti il sole, mi fermo davanti alla chiesa ortodossa ai piedi della scalinata per salire alla rocca, è in corso una cerimonia liturgica cantata, bellissima.
Mentre dall’alto osservo il profilo della costa al calar del sole mi interrogo sul solito mistero delle isole che emergono dall’acqua con le loro alte scogliere al buio. Mi sembrano sempre quasi degli esseri viventi, come giganti addormentati che se si risvegliassero se ne potrebbero andare dall’angolo di mare in cui sono ancorati. Guardo guardo alla ricerca di qualcosa che non riesco mai a cogliere, mi sembra di arrivarci vicino ma poi sfugge sempre.
Quando scendo passeggio per il corso principale, la presenza di un “Chinese Fashion Shop” segna inesorabilmente la città come turistica e piuttosto frequentata.
Nella piazza c’è un concerto, il primo brano che suonano è La vita è bella di Nicola Piovani. Le violiniste paiono impassibili, gli uomini più mobili.
Ascolto il concerto e intanto guardo le persone per strada. Le coppie si somigliano, belli e belli, brutti e brutti, banali e banali, eleganti ed eleganti. Si vede che generalmente vengono dallo stesso posto.
Ad un certo punto davanti a me si ferma un gruppo di persone che tira fuori una serie di biglietti corrispondenti ad un pasto già pagato in vari ristoranti della zona. Quindi apparentemente esistono pacchetti vacanza con anche i pasti in ristoranti determinati inclusi. La cosa un po’ mi turba. Voglia di sbattimento zero, a parte coordinarsi fra vacanzieri per scegliere lo stesso biglietto del ristorante ancora inutilizzato insieme.
E poi chissà cosa fanno nella vita tutte queste persone a passeggio.
A volte mi chiedo se sono davvero io che sto facendo questo viaggio, da sola.

Martedì, 21 luglio 2015
Al mattino lascio Paleochora per Chora Sfakion o Sfakia, come è scritto sul biglietto. Avevo letto che i toponimi tendevano a variare molto ma, da quel che intuisco leggendo la guida, Sfakia è l’intera regione del sud-ovest e Chora Sfakion ne era l’antica capitale. Rimango comunque dubbiosa.
La traversata non si fa con lo stesso traghetto di due giorni fa bensì con una barca in legno molto rumorosa con a bordo anche un marinaio che pare Capitan Findus. Leggo tanto, dormicchio con la testa che rimbomba per il rumore del motore, chiacchiero un pochino col ragazzo francese ma lungamente fidanzato con una ragazza italiana seduto accanto a me.
La costa, inizialmente a picco e rocciosa, aspra, si fa leggermente più dolce nel viaggio verso est. Nel frattempo cerco di imprimermi negli occhi ogni particolare curioso, dalle case costruite direttamente nella roccia con la sola facciata in muratura, alle capre sulla spiaggia, dalle arnie raggiungibili solo via mare, alle case costruite in luoghi impervi e improbabili.
Il primo impatto con Chora Sfakion è deludente, oltretutto non vedo ombra di spiaggia raggiungibile a piedi. Proprio perché antica capitale della regione mi immaginavo qualcosa di più dei pochi edifici, prevalentemente a scopo turistico, che invece costituiscono il paese. Il lungomare rialzato, oltretutto, è una sequenza di verande di ristoranti.
Scendendo dal traghetto e camminando verso il paese ho visto l’insegna del mio albergo, con un po’ di intuito riesco a raggiungerlo dopo aver percorso una breve scalinata fra le case dai muri bianchi che nel mio immaginario caratterizzano la Grecia.
Il proprietario, grassoccio, ha un aspetto burbero e porta una canottiera bianca con pelo in vista sui bermuda color khaki. Come prima immagine mi lascia un po’ perplessa. Mi stride poi la prenotazione fatta su Booking con il suo segnarla su una semplice agenda ma tant’è.
La stanza dell’albergo, invece, non particolarmente lussuosa anzi, ma essenziale, semi-vista mare, silenziosa e con una leggera brezza dalla porta finestra del balcone, mi rasserena. Mi riposo un po’, praticamente svenuta, poi mi faccio forza ed esco in perlustrazione.
Trovo la biglietteria del bus, la fermata che è in un piazzale in cima a una scalinata, dò una prima occhiata ai ristoranti, insomma, cerco di trovare dei punti fermi. Camminando a caso trovo anche la spiaggia. Ciottoli, sempre ciottoli. Splendidi ciottoli e colore dell’acqua che piace a me, tendente al verde. Ma bollenti ciottoli. Passo un paio d’ore in spiaggia che mi rimettono in pace col mondo. Finisco pure di leggere il secondo volume de L’Amica Geniale, Storia del nuovo cognome.
Andando via incontro il ragazzo francese con cui avevo scambiato due parole sul traghetto. Parliamo un po’ dell’acqua, mi dice che le correnti fredde sottomarine sono dovute ad un fiume sotterraneo che dai monti sfocia nel mare. Mi chiedo se invitare lui e la sorella (con cui è in vacanza) ad andare a cena insieme, o coinvolgerli nella mia giornata di domani. Poi mi sento talmente imprevedibile che lascio perdere e faccio coi miei tempi e la mia testa.
Di Creta mi sorprende il numero di bagnanti che mi sembra esiguo. Forse le spiagge sono tante? Forse sono grandi? Non ho ancora trovato una spiaggia di cui dire male. Anche quella con la sabbia più brutta aveva un’acqua da far impallidire Cecina. Credo che tornerò, e vorrò andare anche a Gavdos, ma non da sola, con qualcuno che sa cosa è una tenda.
Nell’indecisione su dove cenare, l’oste più convincente è quello della taverna (o ristorante?) “Delfini” che mentre passo mi invita ad entrare. Poco male, era l’unico ristorante un po’ degno di nota di cui avevo letto sulla Lonely Planet a cui mi affido. Scelgo un tavolo con vista mare, mi guardo intorno per vedere chi sono gli altri clienti, il ristorante è semivuoto. Ci sono una coppia di francesi agés, una mamma italiana con figlio preadolescente al tavolo con un italiano sulla cinquanta-sessantina apparentemente esperto della zona che però devono aver conosciuto in vacanza, due ragazzi. L’italiano se ne va via e rimangono la mamma e il figlio che non ha più di 13 anni, a discutere come una coppia litigiosa su qualcosa legato al nome del ristorante, non sono sufficientemente vicina da sentire con chiarezza. Forse su come si scrive in greco? Penso che lui da grande le rinfaccerà un sacco di cose. La mamma comunque è sfatta. Birkenstock e smagliature, vita così così. Con un figlio capitato un po’ per caso e un padre che non vive con lei. O almeno, questa è l’idea che mi faccio io osservando dal mio tavolino.
La madre conversa col proprietario (o cameriere, o entrambi, non riesco a capire), in un inglese stentato chiede della crisi. Lui dice che è semivuoto rispetto agli anni scorsi, sono i notiziari che amplificano la paura. Improvvisamente la quiete che a me sa di pace, mi fa tristezza e mi sento quasi in dovere di contribuire ordinando più della mia fame.
Mentre mangio si aggirano dei gatti, uno in particolare si ferma insistentemente accanto alla mia sedia. Gli animali, o i gatti perlomeno, quando ti guardano supplichevoli sono così umani.
Rifletto molto. Mi chiedo cosa realmente sappiamo delle persone, anche di quelle di cui pensavamo di leggere le profondità oscure ma che poi nei fatti non ci hanno dato mai ragione. Non che sia rimasta sorpresa da come sono andate certe cose, ma ora come ora non saprei proprio dire cosa ci ha tenute vicine. Non passa giorno senza che ci pensi, che sia una strana forma di nostalgia, che sia rabbia, che sia indifferenza a mascherare il dolore. Una perdita, quali che siano le ragioni, porta sempre dolore, anche quando viene con sollievo, e fare i conti con la solitudine e con i grandi spazi vuoti del tempo e del cuore è un esercizio utile ma faticoso e accidentato.
Ho scelto la vacanza quasi avventura (il quasi è perché magari prenoto il giorno prima ma comunque prenoto) ma in luoghi destinati a famiglie e pensionati, giovani pochi. A Paleochora qualcuno si vedeva, qui un po’ meno. Ma in fondo per cosa sto facendo questa vacanza? Per imparare a stare con me stessa? A vivere con programmazione minima della realtà? Per prendere decisioni senza filtri altrui? Per affrontare la solitudine senza lo stordimento di cose da fare? La prospettiva di conoscere persone è stata molto breve, forse solo all’inizio. In fondo su quello questa sono e questa rimango, credo si chiami indole. Però sono aperta a chi mi rivolge la parola e penso cordiale e sorridente. Dopotutto ho visto che basta poco, un contatto umano minimo, per trovare un sorriso, o un angolo di pace.
Mercoledì 22 luglio 2015
Se non altro questo è un albergo e pur non inclusa nel prezzo, c’è un bar in cui fare colazione. Decido di non badare a spese e di riempirmi con pane, burro, marmellata di arance, caffè greco (perché sono in Grecia e quindi bisogna provare il caffè greco, nonostante il retrogusto di terriccio), spremuta di arance. Oltretutto, avendo deciso di fare la giornata a Frangokastello (con l’accento sulla prima o e non sulla e, come da tradizione), non so cosa riuscirò a mangiare per pranzo.
La reception e il bar dell’albergo sono in un edificio separato da quello con la mia e altre stanze. Dal mio tavolino vedo il vicolo salire tra le case bianche e un grosso pergolato di vite. Ad un altro tavolo c’è una signora che immagino essere tedesca, alta, magra, con un libro perennemente in mano. L’ho notata già ieri, con la sua birra delle 19, mentre stendevo l’asciugamano sul balcone e anche stamattina, sono lei, la colazione e il libro.
Prima di andare a prender il bus mi fermo al Mini Market a comprare qualcosa per pranzare e una bottiglia d’acqua. A casa bevo acqua del rubinetto, la presenza dell’acqua potabile l’ho sempre data per scontata, qui devo ricordarmene. Mi rendo conto che sapersi districare in un supermercato è una cosa importante, mi sembrano così diversi dai nostri; conoscere le abitudini del luogo pure.
Frangokastello è sulla costa a est rispetto a Chora Sfakion e si raggiunge comodamente in mezz’ora di bus, ma dopo i mezzi grandi e puliti delle altre tratte, questa è servita da un pulmino con i sedili pure un po’ rotti. Con me salgono anche tre ragazze italiane, una è sicuramente toscana, ma non me la sento di parlarci o di farmi riconoscere come conterranea.
La strada per Frangokastello è in salita e a curve. Lungo il percorso si incontrano taverne, affittacamere e indicazioni per la gola di Imbros, meno frequentata e più breve di quella di Samaria. Ad ogni riferimento ad Imbros non riesco a non pensare “pivelli, io ho fatto la gola di Samaria”. Chissà perché. Il lato costiero invece istilla voglia di avere una barca con cui fermarsi in ogni centimetro di mare.
Frangokastello è una località in cui di fatto c’è quel che rimane di un castello edificato dai veneziani nel medioevo e teatro di leggende e storie più o meno cruente, qualche taverna sparsa e una spiaggia. Questa volta mi decido a prendere informazioni per l’ombrellone, costi quel che costi, e bene faccio perché un ombrellone con due lettini viene a costarmi 5 euro per tutto il giorno. La sabbia non è un granché, molto simile a quella del litorale viareggino, ma l’acqua brutta mi sembra che qui non esista.
Direi che gli italiani vengono a Frangokastello, o almeno dove ho preso l’ombrellone sono in netta (e anche un po’ rumorosa) maggioranza. Forse preferivo gli olandesi che mi hanno stordito con la loro lingua poco musicale in certi tratti della camminata di Samaria.
Prima di riprendere il bus mi faccio una doccia per sciacquare via il sale e mi lascio cullare dalla familiarità di un Cucciolone mangiato al bar della spiaggia.
Di fatto la giornata è abbastanza insignificante, a parte questi libri della Ferrante che mi trascinano in un altro mondo. L’impressione è di avere a che fare con qualcosa di molto vicino alla mia famiglia, alla sua storia, agli occhi con cui ha guardato l’Italia del secondo dopoguerra e con cui mi ha insegnato ad osservare il mondo. Sono libri in cui mi riconosco, come se le pagine fossero specchi delle fondamenta interiori implicite su cui poggio.
Questo viaggio si sta rivelando una continua riflessione su me stessa, sulle persone che mi circondano e sui rapporti che intrattengo o ho intrattenuto con loro. Mi interrogo sull’attrazione e la condiscendenza che esercitano su di me le fragilità umane, soprattutto quelle che hanno inciso così tanto anche sulle mie. Così attraenti che quando affiorano implicitamente in un messaggio di tutt’altro genere, si affievolisce anche il disprezzo rabbioso che talvolta si è fatto vivo in questi mesi. Penso alle persone e ai loro cumuli di macerie interiori che credono essere fortezze che le proteggono dall’esterno. Alle linee di alta tensione che si formano tra persone, ai rapporti che a volte sono continue scariche di elettricità che se tocchi male ti fulminano eppure sono così duri a morire. E poi mi vedo io. Troppo calma, senza rancori, infinite possibilità più una. Ma questa è la me che vedo io. Cosa vedono gli altri? Mi ricordo di Maria che fu la prima a parlarmi delle complessità del mio cervello. Ho tipo questo peso che mi gravita sulla testa. Il peso del cervello mal riposto. E del bisogno di attenzione. Maria Maria, la cui calma e il cui ordine definirono e ordinarono la mia irrequietezza. Ed io che mi ero sempre ritenuta una persona semplice…
Non sono stata molto rigorosa con questo Moleskine, ho iniziato a scriverci nel luglio del 2010, ci sto impiegando cinque anni per finirlo.
Non sono neanche le 17 quando rientro a Chora Sfakion, un altro paio d’ore di mare e lettura non me le leva nessuno. Oggi però cerco di rimanere più centrale nella spiaggia perché il sole tramonta prima dietro la scogliera che la sovrasta.
La sera torno a mangiare al ristorante di ieri, questa volta ordino pesce, il cameriere (o proprietario, ancora non ho sciolto il dubbio) mi invita ad andare a bere qualcosa insieme quando finisce di lavorare. Non capisco mai se sono cortesie pure o cortesie mirate, mi sento proprio una bimba sperduta su queste cose, ma soprattutto, quando finisco di mangiare ho un sonno tale che penso non sarei stata in grado di aspettare la fine del suo turno manco avesse avuto 30 anni e un fascino irresistibile.
Devo decidere se rimanere un’altra notte e partire per Chania e l’aeroporto direttamente venerdì mattina o se spostarmi verso nord già domani facendo una tappa a Rethymno. Ho chiesto al proprietario dell’albergo se c’è posto per rimanere una terza notte e non ci sono problemi, fondamentalmente si tratta di combattere la mia ansia da non aver fatto tutte le tappe che mi ero più o meno prefissata. Ma del resto, ero partita con l’idea che le lunghe tratte in autobus per muovermi da un posto all’altro magari ogni giorno non mi avrebbero spaventato, anzi, mi avrebbero aiutato a passare il tempo, ora inizio a subire il fascino indiscreto della stanzialità rilassata.
Giovedì 23 luglio 2015
Dopo che scambiare giusto l’ordinazione della colazione e confermare che sarei stata una notte in più mi ha lasciato benessere, penso di poter dire che è bello viaggiare da soli ma senza rapporti umani di alcun genere è difficile andare avanti e mantenersi positivi. Quindi sì, rimango un’altra notte a Chora Sfakion e riparto direttamente domattina per Chania. Anche se mi è presa un po’ l’ansia di stare ferma qui un altro giorno, la fatica e la frenesia di dovermi rispostare e trovare un altro albergo sono state più forti e ho optato per fare le cose con calma e in totale relax. Oltretutto volevo farmi una giornata piena di mare, senza schiodarmi dalla spiaggia se non per andare a cena, che già che mi abbronzo poco, se proprio non riesco a tornare abbronzata, almeno bianco sporco vorrei essere.
La cosa più importante da fare però, prima ancora di arenarmi su un lettino, è scoprire dove stampare la mia carta di imbarco per domani. In questo spirito di assoluta rilassatezza e zero preoccupazioni che tanto si trova una soluzione a tutto, non mi sono ancora attivata per assicurarmi il mio biglietto di ritorno in Italia in forma cartacea. La Lonely Planet sostiene la presenza di un internet cafè ma quando chiedo informazioni mi dicono che non esiste più. Provo a sentire allora alle Poste, da lì un gentilissimo impiegato mi accompagna dal lato opposto della piazza, in un edificio di un piano e poche stanze accanto al casottino della biglietteria degli autobus. Pensando fosse l’ufficio turistico mi ero affacciata prima ma non avevo trovato nessuno, scopro ora che è il comune. La lentezza del collegamento internet mi permette di scambiare quattro parole con l’impiegata che mi presta il suo computer. Mentre mi aiuta ad orientarmi tra i caratteri greci del suo PC mi chiede come mai ho deciso di venire in Grecia nonostante la crisi. Io le spiego che ormai avevo fatto il biglietto e a quel punto avevo preferito stare alla sorte; oltretutto, non abbandonare un settore importante come il turismo in un paese in crisi mi sembrava un piccolo gesto di solidarietà. E poi, penso fra me e me, se proprio dovevo fare il viaggio delle novità con cui misurarsi, meglio farlo per bene, in un paese in cui ti consigliano di andare col passaporto invece che con la carta di identità perché non si sa mai…
Una volta stampato il biglietto saluto e vado in spiaggia, decisa a prendere il lettino. Non sapendo come funziona mi affaccio al ristorante in cima alle scale da cui si accede al mare. La ragazza con cui parlo mi dice di accomodarmi sul lettino che più mi aggrada e che dopo passerà qualcuno a raccogliere i soldi. La spiaggia è pressoché vuota quindi l’imbarazzo della scelta è palpabile. Opto per uno degli ultimi ombrelloni, confidando nel fatto che essendo i più lontani saranno anche i meno frequentati. Dopo poco arriva una ragazzina che in un inglese scolastico e con le stesse frasi usate per tutti i bagnanti, mi chiede 4 euro (2 per l’ombrellone, 2 per il lettino), fa un paio di domande e augura una buona giornata.
Passo la giornata totalmente assorbita dalla lettura e dalla pigrizia di non muovermi dal lettino se non per fare il bagno. Creta sta mettendo in crisi la mia fede incrollabile che come la Sardegna non c’è niente. Anche perché qui, almeno al sud, c’è molto più silenzio e non è ancora passato un solo venditore ambulante. Cosa che dopo l’esperienza traumatica dell’anno scorso alle Saline in cui l’intera giornata fu costellata da passaggi di venditori con radio accese a tutto volume, non è affatto poco. Le pecore che pascolano in cima alla scogliera a picco sul mare poi, hanno decisamente un che di pittoresco.
Nel frattempo arrivano gli italiani anche a Chora Sfakion e si sente. In particolare due ragazzi di Roma, che in tutta la giornata non si sono mai immersi in acqua oltre l’ombelico, intrattengono una lunga conversazione con un’altra italiana. A dire il vero ad un certo punto anche io mi avvicino, fingendo di leggere sul bagnasciuga, per cercare di ascoltare: uno dei due di lavoro fa il doppiatore e il corista in Vaticano, troppo interessante per far finta di nulla.
Torno in stanza prima di cena, lasciandomi il tempo di fare la doccia e preparare la valigia con calma. Ricevo anche una telefonata dall’Italia, rispondo un po’ perplessa. Una coppia di amici si sposa e mi emoziono come una ragazzina qualunque, la barriera crolla. Mi emoziono sempre quando sento di matrimoni e gravidanze, forse volevo essere una principessa anche io. Poi, il tempo di informare anche mia sorella e mi sento già ricaduta nell’asetticità con cui dò queste notizie. Ma forse questa sono io, emozioni molto composte che solo talvolta si insinuano nelle crepe del mio Super Io. Non che sia completamente d’accordo con questo tratto del mio carattere ma a volte mi sembra di dovermi giustificare innaturalmente per quel che sono.
Stasera decido di cambiare aria per la cena, l’invito a bere da parte del proprietario-cameriere-che-sia di ieri mi ha un po’ intimidito e non ho voglia di affrontarlo. Scelgo il ristorante la cui terrazza dà sulla spiaggia. Mentre il cameriere mi mostra il tavolo e le sedie tra cui scegliere, da dietro sento una voce che dice: “You can sit here on my lap. My wife says it’s ok if you just sit”. Lì per lì mi coglie alla sprovvista, poi guardo l’autore del commento e sento scoppiare una grande risata interiore. Mi viene in mente Braccio di Ferro ma dopo un bicchiere di troppo, è puro spirito comico, senza viscidume. E’ insieme alla moglie e ad altri due amici, sono al tavolo dietro il mio e hanno già bevuto parecchio. Mi chiedono cosa bevo e ordinano una birra per me, un altro giro di vino per loro e una seconda bottiglietta di raki di fine pasto per tutti. Sono belgi e chiacchieriamo un po’, mi chiedono che lavoro faccio, da quel che capisco quello che mi aveva proposto il suo grembo come sedia fa l’imbianchino, mi consigliano il loro albergo qualche curva fuori dal paese, parliamo un po’ di Creta, di mare, del Belgio, dell’Italia. Hanno delle buffe e simpatiche fisionomie, uno in particolare sembra una sorta di padre baffuto saggio e divertente e mi fa uno strano effetto distensivo con la sua umanità. Mi rimettono proprio al mondo questi belgi, coi loro 40-50 anni e le chiacchiere ubriache. Quando se ne vanno, intorno alle 22, sto ancora aspettando di mangiare e già sono sbronza.
Quando arriva la mia capra cotta alla maniera del luogo penso che non sarà facile mangiarla senza macchiarmi. La carne di capra non è tenerissima, c’è tanto osso e viene servita in una piccola terrina tonda con sugo e patate.
Cenare su questa terrazza è come affacciarsi sulla Valle della Luna di Stintino ma col mare calmo e la spiaggia bassa. La notte poi, si sente chiaro l’infrangersi del mare sulla spiaggia che di giorno manca, coperto dal rumore delle persone. E’ impressionante il rumore che fa la nostra semplice esistenza.
Ripenso alle parole del “padre” belga, ai suoi apprezzamenti e consigli disinteressati. A volte basta così poco, un complimento, un sorriso. Per me non è mai stato semplice farne, ci ho messo dell’impegno per iniziare a dire cose tipo “che bel taglio di capelli”, “come ti sta bene questo vestito”, “bella sei”. Era iniziato come esercizio tempo fa, perché vedevo che il mondo faceva così, ma a me non era mai venuto naturale. Eppure dopo mi son resa conto che mi piaceva anche essere complimentosa. Quando ci credevo, ovvio.
Mi immalinconisce un po’ la fine di questo Moleskine, ci sono raccolti i miei passaggi fondamentali degli ultimi cinque anni. Se fossi il personaggio di un libro segnerebbe la fine di una fase e l’inizio di un’altra. Ma non sono in un libro e questa è solo la fine del taccuino. Oltretutto è anche solo il primo o il secondo che finisco, gli altri li ho tutti abbandonati a metà; ho sparso pensieri per fogli e quaderni disordinati per più di 15 anni. A volte mi capita di rileggerne degli stralci e mi sorprendo da sola: tutto ciò che faccio o scrivo mi sembra interessante dopo averlo fatto o scritto, come se non dessi mai valore a quello che faccio mentre lo faccio, in una stupida tendenza a normalizzarlo e sminuirlo.
Mi sembro così cresciuta rispetto a quando comprai questo Moleskine. Quando ci scrissi la prima volta stavo vivendo quella che considero la parte migliore di me stessa, poi è arrivata anche la peggiore. Ora prendo atto che esistono entrambe, mi appartengono entrambe. Sono io. Bene e male. Stanno lì. Un giorno, quando avrò finito di trarne tutti gli insegnamenti del caso, dovrò riconoscere a chi di dovere questo ruolo di traghettatore per il mio Acheronte personale. Per ora però mi godo gli ultimi scampoli di leggiadria profonda e rilassata.
Venerdì 24 luglio
La mia ultima giornata cretese comincia con quella che ormai è diventata la mia colazione tipica a Chora Sfakion: pane, burro, marmellata, spremuta, caffè greco, che al terzo giorno mi sembra un po’ meno tremendo rispetto al primo.
Controllo di non aver lasciato niente né in stanza né sul balcone che in questi giorni mi ha fatto da frigorifero improvvisato per mantenere fresca l’acqua durante la notte. Pago e in reception lascio anche quel che avanza di creme solari e doposole in contenitori troppo capienti per essere permessi nel bagaglio a mano.
Mentre aspetto che con tutta calma apra la biglietteria del bus compro un paio di souvenir per casa e qualche amica; io che generalmente mi ricordo che avrei potuto farlo quando ormai è troppo tardi.
Sempre per vincere la mia ansia ho deciso di prendere l’autobus che parte a metà mattina invece che quello dell’alba, pensando che in caso di ritardi e guasti che mi facciano perdere la coincidenza per l’aeroporto “… e vabbuò, penserò ad una soluzione lì per lì”. Non ce n’è bisogno perché, alla faccia della crisi greca, non ho ancora trovato un autobus con un minuto di ritardo e dunque ci inerpichiamo per i tornanti della Sfakia tutto secondo gli orari previsti.
Quando scendo alla stazione degli autobus mi sento quasi travolgere dal frastuono, dalle urla di “aerodromioooo” a segnalare la partenza del bus per l’aeroporto, dal movimento frenetico dei viaggiatori.
Ho ancora un’oretta di tempo a disposizione prima di dovermi muovere verso l’aeroporto e con i miei due zaini, uno davanti e uno dietro (ormai tutto l’ordine al bagaglio che avevo ricercato una settimana fa è saltato), ne approfitto per passeggiare per la città vecchia di Chania. Il corso principale è uguale a tutti i corsi principali delle città turistiche: orde di turisti e negozi di souvenir pressoché tutti uguali. I vicoli laterali invece, pur mantenendo una certa caratterizzazione turistica, sono più silenziosi e meno apertamente pacchiani e commerciali. Mi incammino a caso con un occhio sempre all’orologio per le stradine senza macchine. Chania ha l’odore delle alghe in putrefazione misto a salsedine delle città di mare e il fascino decadente di un’antica grandezza ormai perduta. Un po’ mi dispiace averle dedicato così poco tempo.
Torno con l’impressione di aver visto meno di quello che avrei voluto in una sorta di battaglia tra la frenesia di dover fare tutto nel minor tempo possibile e il bisogno che invece avevo di tranquillità e stacco dall’Italia. Ma forse bisogna anche lasciarsi qualcosa indietro per avere voglia di tornare.
Il rientro in Italia è un mezzo trauma: abituata al silenzio delle spiagge cretesi trovo insopportabile l’incessante parlare dei miei conterranei in sala di attesa, in aereo, sul bus che dall’aereo porta al terminal, in aeroporto mentre aspetto che le mie amiche passino a prendermi, sempre e comunque.
Questa settimana da sola mi è servita per smettere di riempirmi di impegni e vedere cosa succede a essere sola con la mia testa. Ho imparato che viaggiare da soli è essere padroni delle proprie scelte, delle proprie voglie e dei propri tempi e che non è necessariamente un male, anzi. Ho imparato anche che sono in grado di cavarmela egregiamente da sola, che non occorre pianificare ogni secondo di futuro, che non succede niente di male se chiedo informazioni anzi, che il last minute non è un’aberrazione, che la gentilezza è semplice e più comune di quanto non si pensi. Che posso parlare di tutto e di nulla con gli sconosciuti e che può essere anche molto gratificante e interessante. Non mi sono fatta dei nuovi amici, questo no, ma forse più importante del farmi dei nuovi amici era riappropriarmi di tante piccole cose mie che per vari motivi avevo messo da parte. Questo l’ho fatto e mi sono anche piaciuta. E anche Creta mi è piaciuta, con i suoi scorci drammatici, le sue spiagge semi vuote, i suoi silenzi, la voglia di chiacchierare senza essere insistenti dei suoi abitanti, l’usanza di concludere i pasti con frutta e raki, la sua efficienza senza spocchia. Un amore a primo viaggio, insomma.
Infine, la pace vacanziera non va assolutamente in contraddizione col mio rientro a casa. In stato talmente comatoso da non rendermene neanche conto dopo 22 ore non stop. Dal paesino silenzioso nel sud di Creta alla discoteca di Torre del Lago. Ma dopo tutto questo gran riflettere solitario era quello di cui avevo bisogno: amici, zero pensieri, alcol e musica commerciale su cui ballare fino alla fine della notte. Anche questo fa parte di me.
Un pensiero riguardo “A trip through my wires – Creta, estate 2015”