Qualche mese fa sono incappata in una intervista a Luigi Pagano, direttore di carcere in pensione, in occasione dell’uscita del suo libro “Il direttore” e mi ha molto incuriosita.

Il carcere ha sempre fatto parte della mia vita. Ogni estate andavo al mare dai nonni a Stintino e non era infrequente vedere passare elicotteri diretti alla colonia penale dell’Asinara proprio di fronte. Addirittura mia madre su quell’isola ci era cresciuta, figlia del medico condotto e della maestra elementare, e aveva tante storie da raccontare compresa quella della sua amicizia con… Gigi Pagano!

Da bambina vedevo la prigione come il luogo in cui si divideva il bene dal male, crescendo invece ho imparato a vedere le sfumature della vita e ad approcciarmi al sistema della colpa e della giustizia con il dubbio. E poi, pensavo, tutti dovremmo avere una seconda possibilità. Quando l’isola dell’Asinara da colonia penale è stata trasformata in parco nazionale ci sono tornata più volte e ho avuto modo di visitare le celle di varie strutture carcerarie dislocate sull’isola. Mi hanno trasmesso un senso d’angoscia da vuote, non oso immaginare cosa non fossero affollate o magari anche sovraffollate. Sicuramente non erano quelle le mura su cui scrivere “seconda possibilità”. Si può sicuramente obiettare che la vittima di un omicidio non avrà la sua seconda possibilità, è vero, ma è anche vero che con la legge del taglione non siamo andati tanto lontano.

Luigi Pagano è stato un direttore che si potrebbe definire illuminato, uno di quelli per cui il carcere deve essere rieducazione, preparazione al rientro in società più che punizione perenne perché rispondere al male con altro male non solo acuisce il male ma, a dirla tutta, è anche più costoso per lo Stato perché mantenere un detenuto costa e oltretutto aumenta il tasso di recidiva. “Il direttore” ripercorre la vita di Pagano all’interno dell’amministrazione carceraria italiana con i suoi fallimenti, i suoi successi, le sue tensioni e il suo sguardo umano su una situazione che di umano ha molto poco.

Mi è capitato di pensare spesso al carcere nel corso del 2020, soprattutto nel primo mese di lockdown totale che ho trascorso totalmente sola. Mi è capitato di pensare a chi ci è finito per colpa, a chi ci è finito per sbaglio, a chi ci è finito perché non vedeva alternativa o nessuno gliel’aveva insegnata. Mi è capitato di pensarci e per quanto sia convinta che un sistema sanzionatorio serva, mi sono chiesta come si possa vivere per mesi, anni, una vita in carcere senza impazzire. Come si possa uscirne con la voglia di essere qualcuno di diverso se non ce ne viene data la possibilità. Ci vuole veramente una forza di volontà enorme, non tutti ce l’abbiamo, non tutti abbiamo (avuto) le stesse possibilità, non tutti abbiamo le stesse capacità, non tutti siamo le persone perfette che ci è stato fatto credere di dover essere. Mi sembra che quando si parla di carcere lo si faccia senza mettersi mai nei panni di chi il carcere lo vive.

Io sono morta dentro dopo essere stata rinchiusa in casa un mese da donna libera, sola e in 50 metri quadri luminosi e col parquet, come si può pensare di restituire alla società qualcuno che, per quanto sia stato grande il suo crimine, vive in situazioni in cui dignità è l’ultima parola che viene in mente?

Consigliato per chi è curioso di vedere il carcere da dentro, tenendo presente che siamo all’interno della memorialista più che della saggistica e della narrativa.

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