Come ho già scritto, Johannesburg nasce in seguito alla scoperta dell’oro e non è un caso che proprio nella zona sud della città sorgesse (e ancora sorge) un parco a tema legato proprio al nobile metallo.
Gold Reef City (questo il nome del parco) presentava una ricostruzione del piccolo paese di minatori delle origini e lo combinava con varie attrazioni. Quindi si poteva entrare nella ricostruzione di una casetta d’epoca, col suo mobilio essenziale e le tende bianche ricamate e una volta usciti si poteva anche noleggiare uno dei primi modelli di bicicletta prodotti, quelli con la ruota anteriore molto grande e quella posteriore sensibilmente più piccola, e scorrazzare per le vie del parco una volta appresa la tecnica dell’equilibrio e con un pensiero all’assenza di freni, poco male quando si percorrevano strade in piano, più problematico quando c’era da lanciarsi in una ripida e affollata discesa.

Quando andammo con la scuola fummo portati a fare un tour di una miniera, col nostro elmetto giù nelle profondità umide e buie della terra, a farci raccontare e vedere coi nostri occhi cosa potesse significare lavorare in miniera, col soffitto appena sopra la testa e l’attenzione da prestare ad ogni esplosione controllata.
Ma poi c’erano anche le giostre, la ruota panoramica e altre attrazioni probabilmente non diverse da quelle di Gardaland però a tematica corsa all’oro.
Inutile dire che Gold Reef City era una gioia per noi bambine, un gioia fatta di giochi e schifezze mangiate all’ombra su tavoli appiccicosi e circondati da vespe ronzanti tra bicchieri abbandonati alla ricerca di cibo.
A est di Johannesburg un’altra curiosa attrazione ci portò più di una volta dalle sue parti. Ai tempi in cui ero in Africa infatti Benoni non era ancora nota come paese natale di Charlize Theron, per noi era solo la sede del Bunny Park, un parco in cui conigli giravano liberi e l’attività principale era comprare carote con cui nutrirli.

Col passare del tempo alcuni viaggi si sono persi nella memoria e non saprei più dire dove si trovasse un acquapark o una fiera in cui era presente anche un’alta parete di roccia da scalare imbracata o un trapezio con cui lanciarsi a svariati metri di altezza. So però che l’apoteosi della magnificenza attrattiva era Sun City.
Come principio Sun City non era tanto diversa da Las Vegas ma anziché essere un’intera città, era solo una sorta di resort in mezzo al niente, poco distante dalla Riserva Naturale di Pilanesberg. A Sun City c’era un parco acquatico, a Sun City c’era un casinò, a Sun City uno degli alberghi già dal nome, Palace of the Lost City, evocava scenari un po’ alla Indiana Jones, a Sun City c’era un’aria di esclusività esotica, a Sun City c’era una sala da concerti che infatti la rese protagonista di una delle prime grandi manifestazioni anti-apartheid quando intorno alla metà degli anni ’80 il mondo della musica internazionale decise che avrebbe rinunciato ai lauti compensi promessi per suonarvi finché il Sudafrica non avesse dismesso il regime di segregazione razziale vigente.
Per visitare Sun City ovviamente non era necessario pernottare, si poteva anche solo entrare al parco acquatico, scivolare tra le luci soffuse del casinò e percorrere la strada in mezzo a una sorta di colonnato di elefanti un po’ finiti e pacchiani alla ricerca della Valley of the Waves. Quest’ultima era una riproduzione di un isolotto tropicale, una sorta di ampia piscina, creata come fosse un pezzo di mare, con il fondale che dalla spiaggia degradava fino a che l’acqua era talmente alta che non si toccava. La particolarità è che dal muro opposto alla spiaggia artificiale che la delimitava, a intervalli regolari partivano delle onde su cui giocare.
La Valley of the Waves non era l’unica attrazione, c’erano anche discese per rapide artificiali da farsi su dei gonfiabili o scivoli d’acqua e altre cose ma l’impressione che ho è che in realtà non abbiamo mai saputo realmente cosa ci fosse, il luogo era talmente grande che bisognava esplorare.